Frank Zappa
Road Tapes, Venue #2

(Zappa Records)

I fan zappiani del bel tempo che fu riservano un posto d’onore – nel duplice senso: intellettuale e sentimentale – all’ottetto/nonetto che andò in tour per gran parte del 1973 e alla musica che in quell’occasione fu eseguita sui palchi di mezzo mondo. Palchi discretamente grandi, tra l’altro, per platee che contavano qualche migliaio di persone a concerto: un dato che il lettore odierno farà bene a tenere in mente ogniqualvolta una grandinata di tempi e melodie che al giorno d’oggi è giocoforza classificare come "astrusi" gli piomberà sulle orecchie.

Un posto d’onore che è il combinato disposto di due elementi: la qualità della musica, e il senso di uno "scampato pericolo". Sciolta la formazione originale dei Mothers Of Invention, Zappa era sembrato cercare più verdi pascoli mediante un drastico abbassamento della qualità della proposta, con un gruppo – soprannominato ex post la "Vaudeville band" – dove la front line di "Flo & Eddie" giocava con spirito di grana grossa, mentre – pur in presenza di ottime capacità tecniche – la complessità scompariva quasi del tutto.

E se è vero che – mai come in questo caso – la storia non si fa con i se, fu una serie di disgrazie a rimettere l’ago della bussola nella giusta direzione: prima con la strumentazione andata a fuoco – uno svelto riassunto è contenuto nella celeberrima Smoke On The Water dei Deep Purple – poi con la serie di fratture multiple seguite alla caduta londinese che costrinse Zappa su una sedia a rotelle.

I lavori discografici che erano seguiti – il riferimento è ovviamente ad album storici quali Waka/Jawaka e The Grand Wazoo – vedevano Zappa tornare a complessità che erano sembrate abbandonate per sempre, ma sotto il segno dell’innovazione; e si noti come pur partendo da intuizioni innegabilmente davisiane il percorso di un brano a lunga durata come Big Swifty mostri un controllo del divenire enormemente superiore al modello.

Ma quell’anno nessuno gioì quanto il fan italiano, e per un motivo molto semplice: quella era la prima volta che Zappa veniva in Italia. Prima si era masticato amaro: non i Mothers originali, non il gruppo con "Flo & Eddie", non quella mostruosità di venti elementi ex post denominata Grand Wazoo di cui toccò leggere sul Melody Maker ("Zappa at The Oval"). Niente di niente, nonostante le date nel Regno Unito e nell’Europa Continentale fossero sempre numerose. E anche se le date erano solo due – in pieno agosto: Bologna il 30, Roma il 31 – la gioia fu tanta.

Per ovvi motivi linguistici e culturali, il fan italiano di Frank Zappa non era in grado di capire la proposta zappiana dei tempi dei Mothers Of Invention. Una persona davvero colta avrebbe forse individuato il carattere sincretico e pragmatico – in un’accezione prettamente statunitense – della sua filosofia. Il retroterra "culturale" non era proprio a portata di mano.

Ne consegue che per il fan italiano le opere fondamentali sono quelle strumentali: innanzitutto lo stupefacente Hot Rats, poi i Mothers tardi di Burnt Weenie Sandwich e Weasels Ripped My Flash, ovviamente Waka/Jawaka e The Grand Wazoo e quei singoli brani in grado di gettare scompiglio, su tutti Chunga’s Revenge con il suo assolo di sax alto filtrato in un pedale wha-wha.

Può sembrare niente, ma è tutto: mentre negli Stati Uniti Frank Zappa è un nome "a parte", in Italia – e anche in Europa – Zappa è qualcuno che fa parte del panorama della "musica difficile di massa", di cui è "solo" un esemplare. Va ricordato che l’Italia di quei tempi è il Paese che tiene a galla Genesis e Van Der Graaf Generator, Gentle Giant e Soft Machine, che acquista in gran numero album "invendibili" quali Lizard e Islands e considera normale ascoltare per radio Heart Of The Sunrise trasmessa per intero alle quattro del pomeriggio.

La controprova è che un critico pur attento come Robert Christgau non sa dove collocare la musica di Frank Zappa, ma i suoi problemi sono esattamente gli stessi se si tratta dei King Crimson e degli Henry Cow, laddove prefissi quali "art" – in termini quali "art-rock" – descrivono per implicazione i confini di un "genere".

Il punto di contatto tra Zappa e il (cosiddetto) Progressive non è nelle affinità stilistiche delle rispettive proposte, ma nell’inclusività dei "generi" come percepiti da una fetta ragguardevole del pubblico del tempo.

La controprova è che i critici che (per usare un eufemismo) non amavano i King Crimson e il Progressive tutto – per non parlare di Faust ed Henry Cow – non amavano neppure Zappa.

(C’era in verità qualcuno che asseriva di amare quest’ultimo e non i primi. Ma amare non vuol dire comprendere, come la predilezione per gli aspetti colorati e superficiali da "personaggio" e la sordità perenne nei riguardi della complessità zappiana e altrui dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio.)

Una controprova ulteriore è costituita dal fatto che oggi che il "rock" è diventato povero in termini di componenti – per quanto riguarda le capacità esecutive diremmo che la questione si presenti da sé – l’ascoltatore fanciullo percepisce la musica di Frank Zappa come qualcosa di "incomprensibile". Non è, ovviamente, una situazione necessariamente immutabile. Diciamo che non stiamo lì a trattenere il fiato.

Com’è noto, Frank Zappa registrava praticamente tutto, concerti inclusi. Com’è ovvio, solo una piccolissima parte veniva pubblicata. A volte le considerazioni si indovinavano come puramente pragmatiche: avrebbe avuto senso pubblicare il corrispettivo live di un album di studio che si era già dimostrato essere un "poor seller"? Ciò nonostante, il fan zappiano ricorda ancora con sgomento certe grandinate di uscite tali da mettere a dura prova il portafoglio.

Dalla morte di Zappa, molto è stato stampato, e dobbiamo confessare che spesso abbiamo alzato le braccia in segno di resa, con il residuo buonsenso e il conto in banca a indurci a ragionare.

Di getto, diremmo indispensabile il DVD-V dei concerti al Roxy. Certamente, i nastri dal vivo del Grand Wazoo pubblicati come Wazoo e, seppur in misura inferiore, quelli del Petit Wazoo pubblicati come Imaginary Diseases. Potremmo sicuramente aggiungere dell’altro. Ma per restare alla cronaca dell’oggi diremmo il seguito del Petit Wazoo recentemente uscito con il nome di Little Dots "non esattamente indispensabile".

Diciamo quindi che la nostra diffidenza frutto di un andazzo da noi percepito come un po’ troppo disinvolto è responsabile del nostro mancato acquisto di questo Venue #2 quando pubblicato e venduto direttamente dalla Famiglia Zappa quale parte di una nuova serie di concerti denominata Road Tapes. L’album in questione è invece adesso normalmente disponibile nel quadro del rapporto intercorrente tra la Famiglia Zappa e la Universal, etichetta che dal 2012 ha già in cura il catalogo zappiano.

Diremmo che, almeno nelle intenzioni, questi Road Tapes dovrebbero essere il corrispettivo della serie curata da un Frank Zappa ancora in vita denominata You Can’t Do That On Stage Anymore. Non possiamo non notare che il Volume #2 di quella serie, denominato The Helsinki Concert, è considerato un piccolo classico, e un ottimo esempio del sestetto che girò nel 1974. C’era l’intenzione di suggerire un acquisto "per simpatia"? Ovviamente non lo sappiamo, ma diremmo che nel confronto diretto – l’album del ’74 era meglio registrato, ed era stato anche rimissato – l’album del ’73 risulta decisamente superiore, quanto meno in termini strettamente musicali.

Va da sé che vanno considerati i metri di paragone, bootleg dai titoli quali Piquantique, Pigmy Pony, Dupree’s Paradise e Melbourne qualcosa. E qui ognuno dovrà regolarsi da sé.

La copertina illustra ed elenca con dovizia di particolari tecnici travagli e difficoltà dell’impresa. Da parte nostra, qualche parola sulla musica.

Oltre allo stesso Zappa, la formazione comprende Ruth Underwood alle percussioni, Ralph Humphrey alla batteria, George Duke alle tastiere, Tom Fowler al basso, Jean-Luc Ponty al violino, Bruce Fowler al trombone, Ian Underwood al clarinetto basso e al sintetizzatore. La stessa di Over-Nite Sensation, uscito lo stesso anno, e delle date statunitensi e australiane che avevano preceduto il tour europeo. Unica eccezione, il trombettista (e cantante) Sal Marquez, qui assente.

Il riferimento stilistico più prossimo sono però le composizioni più lunghe e intricate presenti sul doppio Roxy & Elsewhere, di là da venire. Zappa approfitta infatti del carattere brillantemente policromo di questa formazione per dare vita a entità multiformi di ardua esecuzione per la maggior parte inedite, cui si affiancano perfette riproposizioni di classici del repertorio.

La resa sonora non farà gridare al miracolo, ma ci è bastato alzare di poco il volume e schiarire i toni per poter godere dell’esperienza senza controindicazioni.

Formazione tecnicamente prodigiosa, la star è ovviamente Jean-Luc Ponty. Strumentalmente spettacolare, non ha la maturità di Fowler né tantomeno di Underwood (Duke fa caso a sé). Spiace notare che in quest’occasione Underwood sia un po’ sacrificato negli assolo, ché quel che suona al clarinetto basso e al sintetizzatore – diremmo un ARP 2600, contrapposto al più snello ARP Odyssey di Duke – è davvero ottimo.

Non impeccabile nel rendere gli impasti complessi, la registrazione consente comunque di poter valutare correttamente il lavoro di basso, batteria e percussioni – ovviamente il vibrafono e la marimba della Underwood sono spesso al proscenio. Duke fa un figurone a piano elettrico Fender Rhodes, Hohner Clavinet, sintetizzatore, pianoforte, organo Hammond: ottimo in assolo, dimostra di possedere orecchie "formato gigante" quando fornisce un tappeto dialogico a Zappa e a Ponty.

Zappa dovrebbe essere alla Les Paul, strumento timbricamente più "scuro" della SG immortalata sulla copertina di Roxy & Elsewhere che di lì a poco diventerà lo strumento da lui preferito sul palco.

Il primo dei due CD si apre con

Introcious, l’introduzione degli strumenti, con enorme varietà timbrica di percussioni e tastiere, quando si fa il suono prima del concerto.

The Eric Dolphy Memorial Barbecue è l’apertura, con un tempo che diremmo più marziale, meno rilassato, dell’esecuzione romana. Bel contrappunto di Clavinet.

Fa seguito una serie di brevi brani perlopiù già noti.

Kung Fu gode di un’esecuzione millimetrica, viene fuori il violino.

Penguin In Bondage somiglia molto al "classico" che sarà da lì a poco, qui c’è il violino con il wha-wha, e una bella varietà timbrica.

Exercise #4 ovvero Uncle Meat Variations.

Dog Breath è precisa, fantasiosa, con marimba e vibrafono.

The Dog Breath Variations presenta un ensemble colorato, e il violino in breve assolo.

Uncle Meat è perfetta, con vibrafono, rullante, marimba, ottimo ensemble.

Il respiro strumentale si allarga con

RDNZL, al tempo inedita; tema perfettamente eseguito, parte il violino, segue la chitarra con il wha-wha sorretta dal charleston semi-aperto più rullante più Fender Rhodes. Tema, bell’assolo di trombone e di Fender Rhodes. Chiusa con eccellente vibrafono e marimba.

Montana ha il tema strumentale introduttivo "proprio uguale al disco" (Over-Nite Sensation, al tempo non ancora pubblicato). Fantastico assolo di chitarra con wha-wha sorretta da ritmica e Clavinet. Melodia per ensemble funambolica.

Your Teeth And Your Shoulders and sometimes your foot goes like this….. /Pojama Prelude. Introdotta come "Dupree’s Paradise", offre una panoramica di tastiere: introduzione di Clavinet con wha-wha, poi a seguire Hammond, synth Odyssey, Fender Rhodes, entra l’ensemble cadenzato. Pianoforte. Su una base "swing" Zappa canta/recita Pojama People, che ritroveremo un paio d’anni più avanti in una versione molto diversa su One Size Fits All.

Dupree’s Paradise si apre con il classico tema (che ci ricorda fuggevolmente Gershwin). Assolo di violino in double time, basso, piatto ride, piano Fender Rhodes ad armonizzare l’assolo, è un gran bell’episodio. Assolo di trombone, meno appariscente di quello di violino, ma bello. Assolo di chitarra, inizialmente più "acustica", poi – con il sostegno di Duke al Rhodes – va in feedback per poi inserire il wha-wha, un momento davvero emozionante, con in chiusura una citazione da Echidna’s Arf (Of You). Chiude il tema, splendidamente eseguito.

All Skate/Dun-Dun-Dun (The Finnish Hit Single). "We’ll make something up, one time only, for this audience here", dice Zappa. Episodico, improvvisato, rumoristico, "cowbell!", vibrafono, un boogie cadenzato. Entra il trombone, poi l’organo Hammond. Veloce, con spinta propulsiva di basso, batteria, piano elettrico. Chitarra spigliata, poi con wha-wha, "stirata", è evidente che Zappa si sente sorretto. Chiusa "Dun Dun Dun" per una classica "audience participation time".

Il secondo CD si apre con tre brani che ritroveremo l’anno seguente su Roxy & Elsewhere:

Village Of The Sun, con George Duke alla voce, è qui più lirica e "latina" della versione decisamente "funky" apparsa su Roxy & Elsewhere.

Echidna’s Arf (Of You) ha un tempo più "relaxed" che su Roxy. Parte di basso impeccabile.

Don’t You Ever Wash That Thing? è somigliantissima a quella su Roxy. Tema, poi parte l’assolo di clarinetto basso, notevolissimo, di Ian Underwood, che ne fa rimpiangere un maggiore coinvolgimento solista. Assolo di piano elettrico, poi assolo di batteria (si sentono bene tutti i pezzi). Tema conclusivo, in evidenza il violino.

Big Swifty si apre con il tema, in evidenza fiati, vibrafono, violino. Assolo di Fender Rhodes, cui fa seguito un assolo di violino "balcanico" (è come se Zappa avesse dato a Ponty la scala da usare), interessante tempo "spezzato". Assolo di Zappa, che parte con fuzz sulle corde basse della Les Paul, sulla stessa scala usata da Ponty per poi andare sui toni acuti per un assolo tesissimo e bellissimo, con echi dell’assolo su Fifty-Fifty. Tema, con esecuzione accuratissima.

Farther O’Blivion è un episodio multitematico. Tema, jazzato, per ensemble, marimba. Bell’uscita di violino in un assolo con echoplex, in un setting che sembra costruito apposta. Stacco, ed ecco il tema di Be-Bop Tango, con il violino in evidenza e il clarinetto basso di Ian Underwood chiaramente udibile. Stimolante fare il confronto con la versione apparsa su Roxy & Elsewhere. Cambia la base, fuoriesce un assolo di trombone di Bruce Fowler, tipicamente brillante, con ritmica "a singhiozzo". Bell’episodio clarinetto più sintetizzatore, poi è la volta del violino con echoplex, poi percussioni e basso, e "psychedelic music is here to stay", dice Zappa, non sappiamo quanto ironico nei riguardi del violinista, segue il tema eseguito dal vibrafono su una base cadenzata. Segue "The Hook", una parte ironica, con ensemble stridente, chiusa da un assolo di batteria. Con bellissimo contrasto, dal caos strumentale spunta il tema di Cucamonga, dal sapore dolce-amaro, con tutto l’ensemble in azione. Chiude "The Hook".

Brown Shoes Don’t Make It è il classico da Absolutely Free che qui viene riarrangiato e perfettamente eseguito, con Zappa e Duke (e Fowler?) alle voci. Una bellissima orchestrazione per un ispirato vehicle.

A Roma il concerto si chiuse con Arrivederci Roma. You Can’t Do That On Stage Anymore.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2017

CloudsandClocks.net | Jan. 8, 2017