Frank Zappa
Philly ’76

(Vaulternative Records)

Davvero strano scegliere di parlare di un album di Frank Zappa e ritrovarsi poi con la penna in aria, incerti su cosa dire. Ancor più strano se consideriamo le caratteristiche oggettive di questo (doppio) CD: ottima musica, una formazione pressoché inedita sui documenti ufficiali, un repertorio vario e (all’epoca) pieno di sorprese, un suono pieno e nitido ma non stancante (un aspetto sul quale torneremo in seguito), il tutto a un prezzo che è d’obbligo definire stracciato (come vedremo, la prima edizione di Philly ’76 risale al 2009), la durata complessiva essendo pari a un cofanetto in vinile triplo o quadruplo.

Come in un vero concerto dal vivo, anche qui non tutto è assolutamente imperdibile, e siamo certi che se Zappa avesse curato personalmente questa uscita il lavoro sarebbe stato sottoposto a rimaneggiamenti decisivi. Ma il bilancio è positivo, con begli impasti vocali, punte strumentali entusiasmanti e uno Zappa chitarrista al suo meglio, a tratti in evidente stato di grazia. Allora?

Il fatto è che i tempi sono cambiati, e sentito con orecchie "moderne" – le nostre, impegnate in un arduo tentativo di "immedesimazione ipotetica" – questo lavoro, che non ha nulla di veramente "difficile", corre il serio rischio di suonare "incomprensibile".

Ponendoci in una prospettiva da "lista degli ingredienti" diremmo che chiunque possegga anche solo dieci album dei quali si dice che hanno cambiato la storia del rock dovrebbe essere in grado di apprezzare questo lavoro. (Quali album? Non importa.) Il punto cruciale è che quegli album dovrebbero essere già stati pienamente compresi e metabolizzati, il che spesso non è.

Si aggiunga un altro fattore ad alto rischio: l’omogeneità stilistica della proposta musicale di molti che oggi si definiscono o vengono definiti "eclettici" ma che tali non sono per evidente carenza di caratura strumentale, ché le "influenze" – oltre che dichiarate – vanno possedute sulla punta dei polpastrelli. Mentre l’idea di una condotta strumentale "esplorativa" potenzialmente in grado di condurre a vette sconosciute è stata da tempo seppellita dal vaniloquio sugli "assolo auto-indulgenti", autodifesa di ascoltatori (e "critici") mediocri e pigri.

Questo concerto, tenuto allo Spectrum di Philadelphia il 29 ottobre del ’76 e registrato su 16 piste dal Record Plant Mobile, cade in un periodo (ex post) particolare del cammino zappiano. C’era stata la "reunion" con Captain Beefheart, che aveva fruttato l’album Bongo Fury (’75). Erano seguiti vari rimaneggiamenti della formazione, rimasta priva di tanti nomi di spicco e personalità strumentali che avevano caratterizzato la musica zappiana di quegli anni, dai fratelli Fowler (Tom e Walt) a George Duke a Napoleon Murphy Brock. A quel punto veniva annunciato un nuovo album, The Night Of The Iron Sausage, mai più apparso con questo titolo. Il lavoro in seguito pubblicato, Zoot Allures, mostrava in copertina una formazione in realtà assente tra i solchi. Si apriva a quel punto una parentesi di ben più di un anno che tra carte bollate e polemiche di varia natura avrebbe infine prodotto Zappa In New York.

Fu nell’estate del ’76 che vedemmo la prima (e unica) foto della formazione protagonista di Philly ’76. Alla batteria, Terry Bozzio era l’unico superstite. A noi sconosciuto il bassista Patrick O’Hearn. Sorpresa, il già Roxy Music Eddie Jobson impegnato a tastiere e violino. Un’inedita front-line: Ray White a chitarra e voce e Bianca a voce e tastiere.

Il lettore è pregato di considerare che non poco di quello che sappiamo – letto in traduzione su testate italiane all’epoca dei fatti – è se non probabilmente falso quanto meno dubbio, anche perché non necessariamente ben compreso. Ricordiamo Zappa dire (in italiano) "I ragazzi sono così impegnati a cercare di non fare errori che ho preso Ray e Bianca per fare un po’ di spettacolo". Uomo molto religioso, Ray White resistette per un po’ e andò via per poi tornare e illuminare la front-line zappiana insieme a Ike Willis. Bianca fece "solo qualche concerto, poi l’ho lasciata andare", disse Zappa (in italiano). "I let her go" ci sembrava suggerire parecchie piste, ma senza indizi di un qualche peso. (Anche il cognome sembrava fluttuare, da Odin a Thorton.) La sorpresa è che le note di copertina di Philly ’76 sono scritte da Bianca Odin, che non tratta minimamente la questione.

Frank Zappa ha notoriamente amato la black music, dal blues al rhythm & blues al doo-wop, e le sue migliori front-line lo hanno visto affiancato da vocalità pronte a interpretare in scioltezza questi generi. Non è solo questione di appropriatezza: in questa compagnia il famoso "humor" zappiano diventa più scherzoso e lieve, meno cinico e pungente.

Ex post, possiamo dire che la perdita di Bianca in questa formazione – da noi ascoltata per la prima volta proprio qui – si è sentita. Ricordiamo un bootleg – Titties & Beer, Live In Paris – a mostrare il quintetto, e lo spirito era diverso. Con aggiunta di fiati e percussioni, l’ottimo Live In New York mostrava diversi intendimenti.

Come già detto, l’album è stato registrato per scelta zappiana, e successivamente riversato in digitale dallo stesso Zappa con l’assistenza tecnica di Bob Stone. Joe Travers ha clonato i file su hard drive. Entra qui in gioco il tecnico che nel 2008 ha missato e masterizzato l’album: Frank Filipetti.

Filipetti è un tecnico dal prestigioso curriculum, come un’occhiata in Rete è agevolmente in grado di dimostrare. Nel caso in oggetto abbiamo anche un’evidenza indipendente: il Vol. 6 della serie You Can’t Do That Onstage Anymore presenta infatti, pur con indicazione dell’anno erronea e l’omissione di Eddie Jobson – il pessimo stato di salute di Zappa si faceva già sentire – un estratto da questo concerto, rimissato da Spence Chrislu. Ovviamente ignoriamo le costrizioni temporali alle quali Chrislu è stato sottoposto, ed è vero che da allora l’evoluzione dei convertitori è stata netta e ben percepibile. Diciamo solo che se Philly ’76 avesse suonato come la Wind Up Workin’ In A Gas Station di Chrislu avremmo seri dubbi sull’ascoltabilità di un concerto registrato di oltre due ore.

Filipetti mette spesso in evidenza basso e batteria, e ovviamente i musicisti lo meritano. Rispetto a quello che diremmo lo "stile zappiano" Filipetti si muove a volte in una cornice che definiremmo "moderna", con la chitarra tenuta bassa in volume ma ben percettibile in virtù di un millimetrico inquadramento di equalizzazione e la batteria "di peso". Ci è parso di notare un atteggiamento "narrativo" durante gli assolo di chitarra, con la ritmica ad assecondare il fluire zappiano mediante il volume. E qui non diciamo che ci pare di vedere i fader che si muovono ma quasi. Nulla di grave, solo che (com’è naturale) si sente che è un’altra mano.

Come il lettore saprà, il 2012 ha segnato l’inizio di una collaborazione tra la famiglia Zappa e la Universal, con ristampa dell’intero catalogo pubblicato quando Zappa era in vita. A sorpresa (almeno, la nostra) spuntano adesso quelle decine di titoli che erano stati pubblicati dalla famiglia negli anni successivi alla scomparsa, con modalità che avevamo giudicato discutibili, a partire dal prezzo. Notiamo con sorpresa che questo Philly ’76 non è – come da noi creduto – una ristampa: trattasi infatti della copia fisica stampata nel 2009. Da cui la domanda: quanto hanno venduto quelle "edizioni limitate"?

E giunto finalmente il momento di entrare nel vivo della trattazione.

La formazione è tecnicamente solida. Il contributo di basso e batteria è auto-evidente, come pure il lavoro di Zappa alla chitarra. Eddie Jobson costruisce il corpo del suono: lo diremmo impegnato a Hammond, Clavinet, Mini-moog e a qualche "tastiera archi" come Solina/ARP String Ensemble, oltre che al violino. Ray White è un ottimo chitarrista ritmico, Bianca funge soprattutto da sostegno, con qualche momento chiaramente percepibile al (piano elettrico) Fender Rhodes. Con l’esclusione di Jobson, tutti contribuiscono alle parti vocali, prevedibilmente fantasiose.

Il repertorio giunge da un po’ dovunque: estratti da Zoot Allures (non ancora pubblicato), classici da Over-Nite Sensation e Apostrophe (‘), momenti briosi da Chunga’s Revenge e 200 Motels, recuperi da Freak Out!, anticipazioni da Zappa In New York e Sheik Yerbouti.

Velocemente, il dettaglio.

The Purple Lagoon apre con il suo intricato intreccio strumentale, fortemente ritmico. Ingresso di Zappa, saluto, presentazioni.

Stink Foot è briosa, con una prima esplosiva uscita chitarristica e un lungo assolo. Sale la ritmica, ottimi piatti.

The Poodle Lecture è un parlato (ma oggi la Rete è in grado di venire in soccorso).

Dirty Love è un pimpante r&b, con Bianca alla voce solista. Breve assolo, ottimo Ray White alla ritmica.

Wind Up Workin’ In A Gas Station – "new song, cut one, side one" del nuovo album che esce per Halloween – ha un ottimo impasto vocale di Bianca, Ray White e Zappa.

Tryin’ To Grow A Chin ha un’ottima batteria e una bella condotta vocale, diversa da quella presente su Sheik Yerbouti.

The Torture Never Stops ha una ritmica secca, Ray White alla seconda voce, appoggio di Fender Rhodes, e un grandioso assolo di chitarra, che parte in sordina, alla maniera di Pink Napkins, per poi esplodere in direzione Rat Tomago.

City Of Tiny Lights parte con chitarra ritmica, si inserisce un serratissimo Clavinet. Assolo di voce e chitarra effettata all’unisono, una versione acida di certe cose di George Benson dell’epoca. Risulta più r&b, meno "metal", della versione poi apparsa su Sheik Yerbouti, ed è certamente un modo per mostrare un’altra faccia di Ray White. Ignoriamo se Zappa l’avrebbe mantenuta per tutta la lunghezza su un eventuale album.

You Didn’t Try To Call Me viene offerta quale r&b sentimentale, con un attacco voce e piano Fender Rhodes a richiamare Aretha Franklin, con accordi gospel. Ottimo impasto vocale tra Bianca e Ray White, finale quasi scat.

Manx Needs Women è un breve e intricato interludio strumentale che riporta a Uncle Meat, con bell’uso del Mini-moog.

Chrissiy Puked Twice non è altro che la Titties & Beer che comparirà su Zappa In New York, con Terry Bozzio a impersonare il diavolo e Bianca efficace alla voce.

Black Napkins apre il secondo CD in un’esecuzione di quasi venti minuti. Tema, poi un assolo di voce di Bianca con bell’appoggio del basso elettrico, diremmo un Precision fretless. Lungo assolo di violino di Jobson. Il momento più bello è l’assolo di Zappa, delicato ed entusiasmante.

Advance Romance è più naturale e sciolta della versione apparsa su Bongo Fury. Bianca allo voce, assolo di basso, improvvisa interruzione di corrente, riprende il basso, con ottimo sostegno della batteria. Bel solo di Zappa ai limiti del feedback con efficace sostegno della Stratocaster di White, "svuotata" nei medi.

Honey, Don’t You Want A Man Like Me? gode di un’esecuzione funky pressoché perfetta. Si presti orecchio alle voci e all’orchestrazione delle tastiere.

Tre brevi brani entusiasmanti a seguire, da Chunga’s Revenge-200 Motels.

Rudy Wants To Buy Yez A Drink è divertente e sciolta, con Zappa alla voce e sostegno vocale del gruppo.

Would You Go All The Way? si ascolta con gran piacere, come pure

Daddy, Daddy, Daddy in perfetto stile r&b.

What Kind Of Girl Do You Think We Are? riporta all’album Fillmore East, June 1971, con movenze blues e voci eccellenti.

Dinah-Moe Humm chiude il concerto in chiave funky con perfetti incastri vocali.

Seguono i  bis.

Stranded In The Jungle – una cover di un brano degli anni cinquanta – offre una levità doo-wop.

Find Her Finer – "the new single" (!) "off the new album" – viaggia in parallelo alla versione contenuta su Zoot Allures.

Camarillo Brillo è suonata e cantata in modo impeccabile.

Muffin Man chiude il tutto con una "audience participation time", con il pubblico un po’ ingessato e una bella chitarra.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2017

CloudsandClocks.net | June 22, 2017