Frank Zappa, 2012
—————-
di Beppe Colli
Nov. 19, 2012
Crediamo non sia necessariamente
indispensabile condividere in toto la nostra entusiastica valutazione ("evento
dell’anno") del mastodontico programma di ristampe che ha avuto per
oggetto il vastissimo catalogo zappiano per poter definire del tutto insufficiente,
per quantità e qualità, l’attenzione a esso dedicata dalla stampa, specializzata
e no.
Com’è ovvio, ci sono da mettere in conto usanze non esplicitamente
dichiarate ma regolarmente applicate quali l’attribuire importanza maggiore
agli anniversari "tondi"
(Zappa è scomparso il 4 dicembre del 1993, quest’anno è quindi "solo"
il diciannovesimo anniversario – vorrà dire che dobbiamo prepararci a celebrazioni
in grande stile per la fine del 2013?). Se lo scopo è quello di inumidire
il fazzoletto, allora niente può gareggiare con la morte, evento unico per
definizione: ricordiamo ancora le parole commosse con cui i quotidiani d’Italia
celebrarono un musicista di cui non si erano più occupati da almeno un decennio;
ricordiamo inoltre l’assoluta indifferenza, appena un anno dopo, per l’album
al quale Zappa aveva dedicato una buona parte dei suoi ultimi anni: Civilization
Phaze III, che a onta della sua altissima qualità (diremmo che poco è in
grado di rivaleggiare con la triade elettronica posta in chiusura: Dio Fa,
Beat The Reaper, Waffenspiel) rimane ancora oggi un lavoro sconosciuto ai
più.
E per dirla tutta ci era un po’ dispiaciuto (d’accordo, un
po’ più di un po’: moltissimo) vedere che lo spazio dedicato a Zappa nei
suoi penultimi giorni aveva avuto quale oggetto pressoché esclusivo la collaborazione
con l’Ensemble Modern – i concerti, e il CD intitolato The Yellow Shark.
E non certo a causa di una scarsa qualità della collaborazione o del CD,
che rimane ancora oggi un ottimo lavoro, ma perché questa attenzione – di
tipo, diciamo così, "speciale" – ci sembrava correre in parallelo
con due circostanze che avvertivamo come sommamente spiacevoli: l’ormai definitiva
irrilevanza di Zappa in quel mondo che in senso molto elastico definiamo "rock" e
il suo essere accolto in quei luoghi dove entità fantasmatiche – per capirci,
un Fred Frith – si illudono di esistere ancora. E per Frith, passi. Ma Zappa?
Tornando all’oggi,
è ovvio che sarebbe assurdo paragonare l’attenzione (non) riservata a Zappa
a quella attribuita alle ristampe dei cataloghi di gruppi quali Beatles,
Stones, Floyd e Zeppelin, ché quelle sono ben altre tirature e con la quantità
non si discute. Ma colpisce la disparità esistente con il trattamento riservato
ai Velvet Underground e, a un livello merceologico ancora più basso, a nomi
quali Nico e Captain Beefheart (Nick Drake fa ovviamente caso a sé). E anche
Mojo, nel dedicare una striminzita colonnina al programma di ristampe zappiano,
con logica imperscrutabile evidenziava l’esordio di Freak Out!, che oltre
a essere di molto inferiore a quel che è venuto dopo non è neppure tra quei
ventidue titoli che hanno beneficiato della nuova masterizzazione che ha
avuto quale punto di partenza i nastri analogici originali.
Certo, qui è facile notare che il mondo di oggi non è quello
di vent’anni fa. La crisi che ha falcidiato gli introiti della stampa decretando
la chiusura di moltissime testate storiche e rendendo un anacronismo l’espressione "retribuzione
adeguata" ha reso poco probabile trovare in edicola articoli minimamente
seri (e non solo a proposito di cose difficili). La Rete è venuta in soccorso,
non – come sarebbe stato bello ma del tutto irrealistico aspettarsi – con
giornali più seri, ma con sacche iperspecializzate in grado di illuminare
problemi complessi; e qui le discussioni sulle ristampe zappiane (e oggi
che è così facile estrarre e postare campionamenti il livello di soggettivismo
è per forza di cose inferiore) sono state lunghe e approfondite.
Va da sé che questo è un mondo poco frequentabile per il neofita,
che necessiterebbe invece di mappe più
"grossolane" per orientarsi – questo era infatti il luogo, e il
compito, proprio dei giornali di carta da edicola. Ma qui chi si è a lungo
crogiolato nell’orrendo luogo comune "lo ascolto e mi faccio la mia
idea" dovrebbe chiedersi se la responsabilità è sempre e tutta degli
altri.
Perché, quindi, Zappa
è oggi tanto poco considerato, conosciuto e citato? Questo l’interrogativo
al quale abbiamo tentato di dare una risposta – ipotetica – giungendo a una
conclusione che è forse banale ma che a nostro avviso è altamente disturbante.
Sentita oggi, la musica di Frank Zappa risulta decisamente
complessa da ascoltare, e questo è vero sia per le composizioni strumentali
– Uncle Meat, King Kong, The Black Page e così via – che per le canzoni,
che nonostante un procedere che è spesso quello della filastrocca canzonatoria
presentano una tale sottovarietà di stili, timbri, citazioni e rimandi da
renderle altra cosa rispetto a ciò che oggi definiamo comunemente canzone.
Se però inseriamo Zappa nella cornice temporale che gli è
propria – gli anni sessanta e settanta – noteremo presto che nonostante le
ovvie e a volte drammatiche differenze la distanza con l’ambiente diminuisce.
Ricordiamo, pur nelle mille diversità, l’impostazione largamente strumentale
di quei gruppi – Led Zeppelin, Santana e Pink Floyd – che negli anni settanta
riempivano gli stadi e vendevano milioni di dischi. Ricordiamo inoltre quel
concetto di "scala" che – in un immaginario percorso le cui tappe
potremmo indicare come Beatles, Moody Blues, King Crimson ed Henry Cow –
rendeva quanto meno plausibile il sopravvivere dei musicisti. E se è vero
che il successo italiano di gruppi quali Van der Graaf Generator fa caso
a sé, ricordiamo le duecentomila copie d’importazione vendute negli Stati
Uniti dai Gentle Giant e il primo posto in classifica in quel paese dei Jethro
Tull di Thick As A Brick, con lavori degli Yes quali Fragile e Close To The
Edge a esercitare un’influenza palpabile in un futuro che va da Todd Rundgren
a Trent Reznor.
Diciamo quindi di un’attitudine all’ascolto attento di musica
complessa in buona parte strumentale. E qui entra in ballo il fattore chitarra,
ché quello del lavoro chitarristico in un gruppo era uno dei lati sui quali
maggiormente si concentrava l’attenzione del pubblico "rock" –
fin troppo facile dire di Cream, Jimi Hendrix Experience, Jerry Garcia, Jorma
Kaukonen, Mike Bloomfield, Peter Green, Jeff Beck, Robert Fripp, e poi di
John McLaughlin e la Mahavishnu Orchestra con tutto il capitolo classificabile
come
"fusion".
E’ quindi ovvio che – a partire dal Miles Davis elettrico
di Bitches Brew – lo spettatore dei concerti zappiani dell’estate del 1973
possiede un largo spettro di esperienze auditive in comune con una platea
che – pur minoritaria – è in grado di decifrare una quantità di eventi
"difficili" – tempi dispari, temi complessi, assolo chilometrici
– senza batter ciglio.
Proviamo adesso a elencare i nomi "rock" di cui
si potrebbe dire che fanno oggi "musica complessa da stadio". I
Radiohead? I Sigur Ròs? I Flaming Lips?
La nostra ipotesi è
quindi che il problema "Zappa" non riguardi affatto il solo Zappa,
ma sia proprio a tutta una classe di "oggetti" che condividono
le medesime caratteristiche peculiari; una categoria di cui Zappa, in virtù
della sua passata celebrità, è solo l’esempio più visibile – e la punta dell’iceberg.
La cosa, va da sé, non si limita alla musica, il livello
di attenzione corrente per quanto riguarda ambiti quali la lettura – e la
capacità di concentrazione in genere – essendo molto basso. C’è inoltre da
considerare la non volontà – che diventa poi giocoforza incapacità – di decifrare
cose con le quali si ha scarsa familiarità, preferendo piuttosto la roba
premasticata.
La parola al lettore.
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | Nov. 19, 2012