The Whammies
Play The Music Of Steve Lacy Vol. 2

(Driff Records)

Per la serie "Oh che sorpresa!" troviamo ad attenderci nella cassetta delle lettere un recente CD di un collettivo denominato The Whammies (un’occhiata ai nomi ci dice di una formazione senz’altro promettente, e per anticipare le conclusioni possiamo dire di un lavoro decisamente riuscito) intitolato Play The Music Of Steve Lacy Vol. 2 (da cui deduciamo con assoluta sicurezza l’esistenza di un Vol. 1). La lista dei brani elencati in copertina ci mostra titoli a noi noti – Lumps, Threads, la Shuffle Boil firmata Monk – e materiale che non ricordiamo affatto, circostanza che diremmo tutt’altro che inusuale quando si tratta di Lacy: se la quantità degli album a suo nome in nostro possesso può essere considerata "rispettabile" qualora espressa in numero assoluto, essa diventa "minuscola" qualora rapportata alle centinaia di dischi da lui registrati (andando a memoria, ci pare di ricordare una conversazione in cui, rispondendo a una domanda in proposito, Lacy si diceva speranzoso che i suoi lavori fossero facili da trovare almeno nelle nazioni in cui erano stati pubblicati!).

Ma la composizione il cui titolo ci salta immediatamente all’occhio è Art, e proprio perché ricordiamo distintamente la versione da noi ascoltata e il momento in cui l’ascoltammo. L’album era Momentum (1987), il bel debutto di Lacy per una major quale la statunitense RCA/Novus dopo anni di incisioni effettuate per etichette europee di piccole o non grosse dimensioni, e la versione era quella così ben cantata da Irene Aebi che al primo ascolto accostammo a climi targati News From Babel che vedevano la partecipazione vocale di Dagmar Krause e Robert Wyatt. La copertina interna vedeva un bel saggio a firma Robert Palmer in cui il critico si trovava nella poco invidiabile posizione di spiegare al pubblico statunitense chi fosse Steve Lacy (cosa che tutto sommato era relativamente facile) e perché il suo nome dicesse così poco a tale pubblico: Lacy "is Paris-based" (…) "and has been heard only rarely in the U.S., where jazz reputations are still media-made".

Il che era un po’ buffo da leggere vivendo nell’Europa continentale, dove per un paio di decenni Lacy fu uno dei nomi dei quali era più facile seguire l’evoluzione nel mutare dei contesti sonori che il musicista presentava al pubblico. Da parte nostra, pur con bellissimi ricordi di concerti in solo, in sestetto e in quartetto, riserviamo un posto d’onore alla formazione (che compare su Dutch Masters, registrato nel 1987 ma pubblicato quattro anni più tardi) che portò in giro il materiale di Herbie Nichols e Thelonious Monk: Lacy al soprano, Misha Mengelberg al pianoforte, George Lewis al trombone, Ernst Reÿseger al violoncello e Han Bennink alla batteria.

E ci pare che la storia di Lacy – quella "detta", ovviamente, non quella "suonata" – sia stata ben raccontata dall’esaustiva raccolta di interviste curata da Jason Weiss e pubblicata nel 2006 dalla Duke University Press che porta il titolo di Steve Lacy: Conversations. Un volume che solo la circostanza di averne ignorato l’esistenza per circa un anno dopo la pubblicazione ci impedì di recensire. Riprendere in mano quel volume ci ha fatto riflettere su una circostanza: che nel 2014 cade il decimo anniversario della morte del musicista. Il che, riflettendo ex post, potrebbe almeno parzialmente spiegare il rombo da riscaldamento motori che da almeno un annetto ci pare di sentire e che, da sempre in difficoltà con gli anniversari di morte, non sapevamo spiegarci.

Ognuno deciderà in piena autonomia se la musica di Lacy necessiti di essere reinterpretata e quanto le eventuali reinterpretazioni aggiungano o tolgano a un repertorio di tutt’altro che facile accessibilità. Il contratto con la RCA/Novus si concluse nel ’92, dopo cinque album e un nulla di fatto. Inariditesi le fonti europee, nel 2002 Lacy accettò una cattedra nel New England Conservatory di Boston. La sua musica fu reinterpretata in tempi non sospetti attraverso prismi che ci pare appropriato definire braxtoniani-mitchelliani dal ROVA Saxophone Quartet sull’album intitolato Favorite Street: ROVA Plays Lacy (1984). E’ buffo pensare che Lacy, tra i primi a perorare la causa di Monk compositore, si sia trovato a proporne l’approfondimento da una posizione di assoluta debolezza commerciale quando il pianista era già apparso sulla copertina di Time. Ma a quel tempo non era la conoscenza di Monk a essere in gioco, quanto la sua banalizzazione ad autore di temi-pretesto per jam-session in chiave be-bop.

E’ con più di una punta di imbarazzo che ci siamo accorti che i musicisti dei Whammies (tra parentesi, il nome deriva da una composizione di Lacy) con i quali abbiamo minore familiarità sono proprio i due leader, tra l’altro gli attori dietro l’etichetta "artist-run" Driff Records: il sax alto Jorrit Dijkstra, che studiò con Lacy nel periodo in cui quest’ultimo si trovò a insegnare a Boston; e il pianista Pandelis Karayorgis. La nostra prodigiosa memoria ricorda Karayorgis insieme a Mat Maneri su qualche CD della Leo di metà anni novanta, senza però ricordarne, ahimé, una sola nota. Non va meglio a Dijkstra, che ricordiamo solo per un CD a nome Tone Dialing, da noi recensito in termini che diremmo favorevoli, e basta. Un’occhiata in Rete ci dice che è colpa nostra, e che questi due baldi cinquantenni hanno inciso un sacco di cose.

Senz’altro colpa della nostra ignoranza se continuiamo ad associare il nome del bassista Nate McBride e del trombonista Jed Bishop a quello di Ken Vandermark. Completano la formazione il batterista Han Bennink e, al violino e alla viola, Mary Oliver, ben nota per far parte della Instant Composers’ Pool Orchestra. E in effetti una certa aria "olandese" aleggia su questi esiti sonori (anche Dijkstra è olandese), quanto meno in termini timbrici, ché poi la mano di Mengelberg avrebbe portato a risultati ben diversi. La particolarità sonora del sestetto è da ascrivere al lyricon, vecchio strumento a fiato intefacciato a un sintetizzatore analogico usato dal sassofonista con esiti che diremmo felici. L’unico appunto che ci sentiremmo di rivolgere all’album è una certa "congestione sonora" nella gamma medio-bassa che, particolarmente su Skirts, Lumps e Threads, rende poco agevole individuare i fili della musica quando l’intero collettivo è in azione.

Un’occhiata ai brani:

Skirts. Apre con una frase chiara, rilanciata tra alto, violino, piano. Stacco, entra l’ensemble, bellamente "swing". Sez. B con viola, permutazioni per ensemble, Han Bennink! Uscita solistica del sax alto, che ci ha ricordato decisamente Steve Potts, eccellente 4/4 di contrabbasso, batteria, violino. (Come in altre parti dell’album, dopo i 3′ ci è parso di cogliere una sovraincisione sassofonistica.) Assolo di violino con base di piano, batteria, contrabbasso. Chiude il tema "swing".

Pregnant Virgin. Apre il piano, con piatti e rullante con le spazzole. Tema per piano con trombone sordinato e il lyricon a produrre un acuto "spaziale". Solo trombone, con un quasi "Theremin" e ottima base di Bennink. Assolo di piano angolare-percussivo, un po’ alla Mal Waldron.

Lumps. Arpeggio minimale, insistito. Sviluppo per ensemble. L’insieme risulta forse un po’ cacofonico. Tutti! Più di un’ombra I.C.P.

Art (un "Madrigale"?) è il brano di stampo europeo che accostammo ai News From Babel con Krause e Wyatt. Piano e sax alto all’unisono. Assolo lenti. Sax che sentiamo su due canali, con battimenti.

Somebody Special. Tema, tutti, qui la viola è lo strumento solista, spazzole. Tutti, e piatti esplosivi (echi della ellingtoniana Caravan?). Assolo di trombone che è molto Roswell Rudd, ben sorretto da contrabbasso e percussioni.

The Oil. Tema insistito, angolare (due sassofoni?), con unisono di sax e violino; sviluppo per ensemble, risulta forse un po’ ossessivo.

Feline ha un’apertura di piano cristallina, il lyricon si unisce a enunciare il tema in parallelo, con la parte del synth sui sovracuti. Il violino ad affiancarsi con soluzione timbricamente ambigua. Il lyricon qui è quasi un clarinetto, una bella soluzione timbrica. Arpeggio minimale della destra. Ottimo!

Saxovision mostra due sax alto sovraincisi per un tema tipicamente lacyano e ricorda i duetti Lacy-Potts. Sfrutta brillantemente gli estremi della gamma dello strumento (echi di Braxton?). Bella chiusa, tema.

Threads ha un bell’attacco dell’ensemble, con violino e lyricon come "disturbo" sotto l’assolo di pianoforte. Assolo di trombone, qui maggiormente nello stile di George Lewis. Tema con lyricon.

Hanky-Panky. Cha cha cha. Tema "minimale" (ricordiamo Thelonious). Trombone in evidenza, poi entra un’orchestrina danzante. Bel procedere parallelo di trombone e alto (diciamo Roswell Rudd + Steve Lacy). Con bel contrabbasso, poi in nitido assolo, pizzicato su accordi, e rullante. Tema swingante in chiusura.

Wickets risolve il tema in senso percussivo, con uso generoso dei pedali. Non lontanissimo dal primo Cecil Taylor.

Shuffle Boil. Si chiude con Monk. Introduzione con contrabbasso, piatto, il tema affidato al contrabbasso. Entra l’ensemble, con Bennink scatenato. Esce il trombone, bel contrabbasso in 4/4, walking, uscita dell’alto sul registro acuto, che fa un po’ Lacy, e bell’assolo di piano, tra Monk e Mal Waldron. Tema. Han Bennink fa ovviamente i fuochi d’artificio.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2013

CloudsandClocks.net | Aug. 19, 2013