Corrie
van Binsbergen
Self Portrait In Pale Blue
(Brokken Records)
Fu
davvero una bella sorpresa, qualche anno fa, ritrovarsi del tutto casualmente a
scoprire l’espressiva chitarra di Corrie van Binsbergen. Anche se da lì a
qualche giorno, grazie a un amico al quale cercavamo di comunicare confusamente
via telefono l’identità della musicista – "Si chiama Corrie van…
Qualchecosa.". "Intendi dire Corrie van Binsbergen?" – ci
rendemmo conto che quella che per noi era una "scoperta" per altri
era già da tempo un’entità acquisita.
Il tutto
grazie a For A Dog, album di un quartetto chiamato Cram. L’abbiamo riascoltato
in questi giorni, "tanto per essere sicuri", e ci sentiamo di
confermare la buona impressione di allora: trattasi di "fusion" lieve
e non volgare, assolutamente non-virtuosistica (un non piccolo merito, dato il
"genere"), con la chitarra della leader a ricordarci talvolta il
lirismo e l’angolarità di Frank Zappa e Jeff Beck.
Diciamo
subito che l’album di cui qui ci occupiamo è: a) completamente diverso; b) di
gran lunga migliore. Self Portrait In Pale Blue è innanzitutto un album per
sola chitarra che vede quale protagonista assoluta l’improvvisazione.
Un’improvvisazione decisamente "teleologica" ed estremamente
"consonante" che si muove lungo coordinate a tratti modali con più di
un aroma di "raga rock". Detto in termini più diretti, un gran
bell’album la cui malinconica e serena bellezza ben si presta a essere indagata
anche da un orecchio analitico.
A ben
considerare, The Lake Isle Of Innisfree – il pezzo che chiudeva in solitudine
For A Dog, con la chitarra con le corde di nylon ad arpeggiare, quasi
trascrizione di un brano per chitarra classica, e a spegnersi, con tinte di
serena malinconia – potrebbe essere considerato un ponte verso il nuovo album;
album che però nasce con intento progettuale deliberato e – stante la varietà
delle situazioni sonore – come un tutto organico.
La
gestazione di Self Portrait In Pale Blue è illustrata dalle note di copertina
che accompagnano il CD. Bella registrazione, curata da Chris Weeda nello studio
tedesco che curiosamente prende il nome di Fattoria Musica. Se quattro brani
presentano un andamento "a due piste" – con una pista precedentemente
creata sulla quale la musicista ha sovrainciso in tempo reale – il resto offre
musica creata "in the moment" con il solo ausilio di
quell’armamentario "pedaliero" che, da Robert Fripp a Elliott Sharp,
ben conosciamo.
Tredici
brani per una durata che diremmo ottimale – 41′ – da LP in vinile. Va notato
che nessuno dei brani ha un titolo – c’è solo una progressione numerica – quasi
la musicista avesse voluto evitare di imporre dall’esterno un
"contenuto" a una materia che si presenta come deliberatamente
sfuggente.
Non
impossibile scorgere a tratti echi di già noto: mentre gli armonici del secondo
brano ci hanno rimandato a Jeff Beck, l’arpeggio posto in apertura del terzo
brano ci ha ricordato Robert Fripp; ma dobbiamo confessare che la natura
meditativa e introspettiva di quanto ascoltato ci ha riportato alla mente i
momenti più introversi dell’album solista di Peter Green, un tempo celeberrimo,
intitolato The End Of The Game: su tutto Timeless Time e, ovviamente, la
title-track.
Con
l’eccezione dei due brani posti in apertura e chiusura, ogni cosa ha una durata
contenuta. E’ un lavoro che comunque va fruito e apprezzato come un tutto.
Proveremo
a dare una descrizione di massima della musica di quest’album, mai come
stavolta povera sostituta di un ascolto diretto.
1) inizia
come una meditazione modale su un pedale "alonato" e un’esecuzione
sulle corde basse che poi va brevemente verso quelle acute. Ha qualcosa del
"raga rock". A partire da 3′ veniamo immersi in una meditazione per
"nastri rovesciati" (ovviamente frutto dell’impiego di pedali). Da
circa 4′ 50" si torna all’atmosfera meditativa dell’inizio, mantenendo in
sottofondo i "nastri rovesciati" della sezione B e trasferendo
l’esplorazione alla gamma acuta.
2)
ricorda il Jeff Beck di cose quali Where Were You, con armonici con leva,
accanto a wha-wha e strofinamento delle corde.
3) è un
brano "a due piste", con un lato "rumoristico" e l’altro
con chitarra arpeggiata pulita, a ricordare il Robert Fripp dell’incipit di The
Letters.
4) è
luminosa, serena, modale, termina su un accordo.
5) è
quasi una giga con basso continuo ed eco che rimanda al brano 9).
6) ha un
arpeggio "tenuto" e memorizzato su cui si innesta una solista di
tenue e serena malinconia; chiude "ribadendo" l’arpeggio
"registrato".
7) è
"a due piste": wha-wha su un canale, con atteggiamento ritmico
"techno/etnico", e una sequenza di armonici sull’altro canale, con
eco.
8) a due
piste, è una composizione "in the moment", acustica, pulita, con
linea melodica distesa e buon uso del pedale del volume.
9)
riporta alla giga con basso continuo ed eco del brano 5).
10)
inizia con i "nastri rovesciati": serena, tranquilla, meditativa,
passa senza soluzione di continuità a
11) che è
quasi uno studio per chitarra classica.
12) a due
piste ha una presenza "aspra e rumoristica" su un canale, con
sfregamenti di corda, e un arpeggio con bella dimensione melodica
sull’altro; inattesi squarci melodici a stagliarsi sull’arpeggio.
13)
ritorna l’atmosfera "raga" con pedale eco, melodia, arpeggio,
armonici; bell’uso del pedale di volume, assolvenza, armonici; fa poi seguito
un episodio per "mandolino elettronico" con evidente funzione
"cinetica" sul quale a partire da 4′ 30" si staglia una
solista con pedale di volume, poi il brano chiude.
Tocco
nitido ed espressivo, bel suono d’insieme che invita ad alzare la manopola del
volume sull’amplificatore di casa, un album che – e qui ci dispiace davvero
sembrare la pubblicità – potrebbe godere di un gradimento ben più ampio
di quello solitamente riservato alle musiche del "genere" (?).
Beppe Colli
© Beppe Colli 2014
CloudsandClocks.net
| Jan. 19, 2014