Il
valore della musica
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di Beppe Colli
Jan. 19, 2003
Come di consuetudine, a ridosso della fine
dell’anno sono state diffuse negli Stati Uniti le stime riguardanti
l’andamento del mercato discografico. Stime che, com’è ovvio,
sono ampiamente passibili di correzione (e dal conteggio mancano le
vendite del periodo natalizio, che tipicamente costituiscono circa un
terzo del fatturato complessivo) ma che quest’anno erano attese con
particolare attenzione dopo il drammatico calo delle vendite verificatosi
nel corso del 2001. Un articolo di Jeff Leeds apparso sul Los Angeles
Times del 29 dicembre scorso così quantificava le stime degli
analisti del settore: –8% per ciò che concerne il fatturato
globale e –11% per quanto riguarda le vendite degli album negli
Stati Uniti.
Ovviamente è
a questo punto che immancabilmente si aprono i dibattiti sui perché,
si discute sul prezzo dei CD e ci si interroga sui problemi di natura
tecnica e giuridica posti dall’avvento della musica scaricabile. Un
copione, diciamolo pure, ampiamente prevedibile e che ultimamente pare
essere venuto a noia un po’ a tutti. Anche perché è sempre
più forte l’impressione che la realtà si dispieghi secondo
dinamiche che – a meno di imprevedibili sconvolgimenti – sembrano aver
raggiunto il punto di fuga.
Un intervento che
si distingueva per l’originalità dell’approccio – se non per
praticabilità delle soluzioni prospettate – era quello intitolato
Why You Shouldn’t Upload Independently Produced CDs: la relazione che
Chris Cutler ha presentato a Budapest durante un convegno organizzato
nel 2001 dal Big Ear Festival. Facilmente
reperibile in Rete, lo scritto offre numerosi e interessanti motivi
di riflessione.
E
proprio agli inizi di quest’anno ci è capitato di imbatterci
in un dibattito intitolato The Value of Music. La discussione ha avuto
luogo all’interno del Forum il cui moderatore è George Massenburg
(produttore, tecnico del suono, inventore e quant’altro) e che solitamente
ospita discussioni dedicate ad argomenti "tecnici". E’ stato
quindi prezioso confrontarsi con punti di vista meno soliti, pur all’interno
di un dibattito dall’andamento decisamente altalenante.
Il cui
punto di partenza era grosso modo il seguente: se è vero che
la musica delle grosse case discografiche perde progressivamente valore,
come possiamo noi – artisti e discografici indipendenti – impedire che
questo avvenga anche per ciò che riguarda le nostre produzioni?
Indipendentemente
dalle conclusioni cui (non) si è pervenuti, questo è un
punto di enorme importanza che viene spesso oscurato dalla natura "ideologica"
della maggior parte dei dibattiti, con le major nel ruolo dei "cattivi"
(ruolo che – va detto – interpretano benissimo e senza particolari sforzi).
Infatti la contrapposizione major/indipendenti – insieme a quella che
corre in parallelo: interessi delle major/dei consumatori – ha il pessimo
effetto di mascherare alcune caratteristiche decisive delle odierne
modalità di consumo. Consumo di musica, certo, anche in virtù
di quelle possibilità tecniche che risultano oggi di semplicissima
fruizione per qualunque utente. Ma caratteristiche proprie alle moderne
modalità di consumo inteso in senso generale. Una serie di "trend"
ben noti alla letteratura sociologica che sarà forse utile richiamare
lestamente – e senza alcuna pretesa di completezza – sperando di portare
in primo piano fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti ma che non
per questo sono necessariamente oggetto di consapevole riflessione.
Una
stanzetta, un album in vinile, la copertina e i testi esaminati con
cura certosina, un giradischi che era sempre il migliore possibile (a
volte, quindi, anche una fonovaligia mono). Il tutto come attività
esclusiva. Proprio la sostanziale irrealtà di questo quadretto
(che forse oggi si caratterizza anche per un che di ridicolo) illumina
– a contrario – quanto siano mutate le condizioni di ascolto. Erano
queste le condizioni allora più comuni? Sì e no. Se il
consumo numericamente più diffuso era del tipo "distratto"
molto diverso era l’ascolto "rock" – il cui pubblico, lo ricordiamo,
era allora estremamente minoritario e altamente auto-selezionato.
Elenchiamo
lestamente alcune caratteristiche tipiche di quella situazione: innanzitutto
una visione dell’album come di un bene "durevole" (un LP non
è "cancellabile"), il cui acquisto era faccenda da
ponderare con cura; poi, una confidenza con i materiali che veniva fuori
durante gli immancabili dibattiti collettivi a fine concerto, che a
volte si protraevano per ore; in ultimo, una eventuale – ma decisamente
non troppo rara – "maturazione" dell’ascolto (e se in questi
tempi cosiddetti postmoderni il termine dovesse sembrare troppo pesantemente
valutativo è agevole tradurre il fatto in termini puramente descrittivi),
per cui le ore passate ad ascoltare, poniamo, i Beatles venivano utili
ad apprezzare prima i King Crimson e poi gli Henry Cow. Fermo restando
che a quel punto si potevano benissimo riascoltare i Beatles alla luce
di una nuova consapevolezza, riuscendo a trovare nei vecchi album qualcosa
che non si era stati in grado di scoprire in precedenza.
Caratteristico
del consumo odierno è il privilegiare l’accumulo di esperienze
in una cornice temporale estremamente compressa, dove dedicare tempo
a qualcosa implica necessariamente perdersi tutte le altre potenzialmente
disponibili. Dove quindi un investimento temporale rivolto in modo esclusivo
a un oggetto appare non come un potenziale fattore di arricchimento
ma come un irragionevole meccanismo di autopreclusione. Va da sé
che se hanno da essere il più possibile numerose le singole esperienze
devono lasciare il minor numero possibile di memorie (il che non implica
certamente che esse non possano essere di forte intensità).
Alcuni esempi possono
forse essere d’aiuto. Immaginiamo un fine settimana trascorso in casa
a leggere un libro. Per contro, durante la sola giornata di sabato potremmo:
andare al maneggio, fare un salto in palestra, incontrare gli amici
per un aperitivo, andare in giro per negozi, quindi al cinema, poi in
pizzeria e infine chiudere la giornata trascorrendo qualche ora in uno
dei tanti club dove di certo incontreremmo tanta gente. Un gran numero
di esperienze che pare difficile accettare di barattare con la lettura
di un solo libro. Allargando minimamente il discorso, basta pensare
al vecchio concetto di "cena fuori" – alcuni amici insieme
al ristorante per qualche ora – assolutamente limitante se paragonato
all’infinità di incontri che è possibile fare trascorrendo
qualche ora in un posto dove la gente entra ed esce di continuo o passando
da un club all’altro in una di quelle strade che ne ospitano un buon
numero. Parimenti, un CD che per essere apprezzato appieno necessita
di molta attenzione e di numerosi ascolti costituisce un impiego del
tempo assolutamente irragionevole qualora paragonato ai dieci CD che
potremmo conoscere in un tempo equivalente mentre facciamo anche dell’altro:
lavorare al computer, navigare in Rete, parlare al telefono, cucinare,
dare un’occhiata ai notiziari televisivi e così via (e non è
assolutamente necessario supporre che il CD in questione sia "difficile";
è sufficiente che sia "sottile").
La possibilità di scaricare musica
dalla Rete è il fattore reso possibile dalla tecnologia che ci
consente di ovviare al principale ostacolo al moltiplicarsi delle nostre
esperienze: l’inadeguatezza del reddito disponibile (ricordiamo che,
a differenza del cibo, non esiste un limite "fisiologico"
al consumo culturale). La scadente qualità sonora dei file –
di solito letta come "adeguata rispetto alla spesa" – potrebbe
invece esser vista come "proporzionata all’attenzione prestata".
Va da sé che in questa cornice interpretativa il sistema dei
media non è il colpevole intento a plagiare persone inconsapevoli
– concetto alquanto difficile da accettare – bensì il sistema
che produce quei beni (dai video ai CD dai master supercompressi) che
risultano essere adeguati all’attenzione che i fruitori sono disposti
a concedere. Supponendo il non mutare delle condizioni tecniche, il
numero degli "scaricafacile" tenderà comunque ad aumentare
man mano che si compie il tragitto da 1) una musica che si paga e che
si ascolta con attenzione a 2) una musica che si paga e si ascolta distrattamente
a 3) una musica che ci si chiede perché acquistare visto che
dopotutto possiede un "valore" così basso.
Notiamo che – a differenza
che in passato – sempre più raramente artisti "difficili"
o "sottili" intercettano ampie fasce di pubblico insoddisfatte
dei generi musicali che hanno "superato"; molto più
comune spostarsi "lateralmente", cambiando lo stile di musica
frequentato, a parità di accessibilità.
Data la cornice, sarebbe interessante provare
a ragionare su quali siano le caratteristiche degli stili musicali che
potremmo oggi classificare come "perdenti" o "vincenti"
(beninteso, al di fuori dalle classifiche). Sviluppo lineare e narrazione
non sembrano passarsela troppo bene. Per contro, indeterminatezza, rumore
e ciclicità risultano congrui con le caratteristiche d’ascolto
di cui s’è detto. Il che – meglio chiarirlo – non implica affatto
che quelli delle "brigate laptop" diventeranno nomi da classifica.
Ma che forse quelle caratteristiche di indeterminatezza e impermanenza
che trent’anni fa caratterizzavano parte dell’avanguardia in opposizione
alla tradizione si trovano oggi ad adempiere una funzione alquanto diversa.
Quanto inconsapevolmente?
© Beppe Colli
2003
CloudsandClocks.net
| Jan. 19, 2003