Tempo di vacanze
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di Beppe Colli
June 20, 2010
Finalmente scocca l’ora delle vacanze, mai come quest’anno tanto lungamente
sospirate e attese.
Non abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere
che gli ultimi due anni sono stati davvero pesanti, qui a Clouds and Clocks,
per tutta una lunga serie di motivi (alcuni del quali, visti dall’esterno,
o ex post, potrebbero apparire quasi divertenti). Di qualcuno (si veda
l’episodio che ha avuto quali protagonisti indiscussi i lunghi e rumorosi
lavori di rifacimento dell’appartamento situato sopra le nostre teste)
abbiamo scelto di riferire per esteso, anche a costo di oltrepassare per
un momento quella barriera che in un’iniziativa editoriale dovrebbe sempre
dividere la sfera
"pubblica" da quella "privata". Semplice la logica alla
base di quel gesto: in assenza di un aspetto di lucro propriamente detto,
e avendo chi scrive da sempre rifiutato la concezione del mezzo quale
"megafono", ci premeva segnalare come una periodizzazione più larga
fosse da ascrivere a "difficoltà obiettive", e non a
"stanchezza" o dubbi sul "ruolo". O quanto meno, non
a stanchezza o dubbi in misura superiore a quella che diremmo fisiologica
per questo tipo di imprese.
Com’è ovvio, la pausa va sottobraccio ai
bilanci. Ma tutti gli aspetti che diremmo "sgradevoli e scuri" ci
appaiono sintomo di problemi più ampi e di portata sovranazionale, e come
tali da mettere in debito conto quale sfondo inevitabile. Primo esempio,
una certa
"aridità dei sentimenti" che porta oggi i più a rapportarsi con
quanto esiste in una cornice "predatoria" (se il termine pare eccessivo,
potremmo definirla come "predatoria di tipo soft") dove neppure
ci si pone il problema delle ragioni che danno senso a quella che potremmo
(ancora) definire come "un’offerta culturale". Ci si limita un
po’ distrattamente a coglierne i frutti, se e quando interessano, con modalità
che sono un evidentissimo lascito del modello consumistico prevalente, laddove
la gratuità di qualcosa trova un senso – e una potenziale remunerazione economica
– in una cornice pubblicitaria.
Frattanto, notizie disperanti giungono dal fronte statunitense. Si
parla di concerti annullati, di biglietti venduti con fortissimo sconto
quando non addirittura regalati allo scopo di non far scorgere i notevolissimi
vuoti, di date in forse. E qui solo settembre potrà darci il senso completo
della vicenda, e dirci se essa sia da ascrivere alla "crisi economica" (in
questo senso ci pare si sia pronunciato il Wall Street Journal) o a una
disaffezione più specifica e di tipo non strettamente "contabile".
Ma quando i nomi tirati in ballo a vario titolo sono quelli di Christina
Aguileira, Lady Gaga, Sting, gli Eagles (con le Dixie Chicks), il Lilith
Festival e perfino un’istituzione live come i Phish, allora è chiaro che
i conti cominciano a non tornare. Non parliamo poi di piccoli gruppi o
artisti di tipo
"alternativo", ché qui è prevedibile il resoconto di viaggi sul
pulmino e di concerti su palchi a stento in grado di contenere uomini e mezzi.
Da parte nostra abbiamo sempre ritenuto scarsamente
credibile uno scenario in cui a un crollo delle vendite di musica registrata
potesse accompagnarsi una propensione durevole all’acquisto di biglietti
e magliette, singole eccezioni essendo ovviamente sempre (temporaneamente)
possibili. Ma può tale imprevedibilità essere possibile (pre)condizione
di un’attività di tipo "industriale"? Ne dubitiamo fortemente.
E se è vero che un album la cui riuscita artistica necessita di un grosso
investimento economico è concepibile solo in una cornice industriale, lo
stesso è vero di un album per solo piano e voce, laddove il pianoforte
va tenuto in ordine (e accordato), e così i microfoni, i preamplificatori,
il mixer e lo studio. E diremmo intuitivo che in assenza di una cornice
siffatta sia altamente improbabile che il musicista punti a una "superba
padronanza" dello strumento, laddove la scelta di perseguire il
"sufficientemente buono" si porrà senz’altro come "maggiormente
ragionevole".
Qualunque la ragione
(ci viene subito in mente un bel mix di motivi), diremmo indubitabile un
crollo della qualità di gran parte delle cose nuove che vengono pubblicate
oggi. E si noti che, per motivi quasi del tutto casuali, sol che lo vogliamo,
abbiamo la possibilità di ascoltare gran parte delle cose nuove che hanno
un discreto spazio sui mensili "più diffusi" (qualunque cosa ciò
voglia dire). E’ ovviamente possibile sostenere che il nostro non è che un
parere
"soggettivo". Com’è anche possibile che un giudizio e una scelta
derivanti da completa ignoranza o da insufficiente comprensione di quello
che è venuto prima (ascoltare non vuol dire comprendere) spieghino quei giudizi
avventati che ci ritroviamo così spesso a leggere. E’ la stessa scarsa competenza,
a pensarci bene, che ci caratterizzava all’età di diciassette anni. Ma a
quell’epoca quel grado di competenza non consentiva certo di scrivere sui
giornali!
Dopo aver ascoltato l’ennesima cosetta scialba e derivativa
propagandata come "capolavoro indubitabile" ci capita di pensare
che sarebbe mille volte meglio riascoltare un vecchio disco. "Ma non
si può sempre riascoltare la solita roba che già conosciamo a memoria!",
è la prevedibile replica. Qui occorre operare una distinzione importante,
che ci porta dritti a un piano di decisione "pragmatica". Chi,
alle condizioni correnti (sulle quali non ci dilungheremo), si trova a dirigere
una rivista o a gestire un negozio deve giocoforza considerare le nuove uscite
in una cornice "contemporanea"; non per nulla parliamo di "migliori
titoli dell’anno" e non di "migliori titoli dell’anno paragonati
ai migliori titoli della storia del rock".
Ma entriamo in una dimensione "pragmatica" e supponiamo
di avere un pomeriggio libero e di dover scegliere cosa fare: la nostra scelta
sarebbe davvero limitata al "capolavoro indubitabile" e a un vecchio
disco? Pragmaticamente, ecco la rosa in cui si effettuerebbe oggi la nostra
scelta. Leggere quel dialogo sui giardini tra Claudio Abbado e Renzo Piano.
Rileggere La veduta corta, il bel libro di Padoa-Schioppa sulla crisi economica.
Rivedere Wendy & Lucy. Vedere la nuova versione (restaurata) in DVD-V
di 200 Motels di Frank Zappa. Cercare in Rete materiale sulla coppia di architetti
Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa/SANAA (vincitori del Pritzker Prize di quest’anno).
Rileggere Conditio Humana di Ulrich Beck. Completare la lettura del nuovo
numero dell’Economist. Rileggere Il lavoro non è una merce – Contro la flessibilità
di Luciano Gallino (e recuperare il suo Con i soldi degli altri). Tutti "oggetti" derivanti
da un processo di selezione il cui punteggio delle performance passate ci
assicura un grado (pragmatico) di affidabilità di gran lunga superiore a
quello del "filtro" che ci ha suggerito l’ennesimo "capolavoro
indubitabile".
Di recente ci è stata
rivolta una domanda che ci ha messo in grave imbarazzo. La domanda, apparentemente
semplice, seguiva a una lunga discussione su meriti e demeriti di versioni
originali, ristampe in CD, ristampe in vinile di origine incerta, con annessi
molteplici dubbi e pareri, e suonava pressappoco così: "Ma un ragazzo
che oggi si trovasse a entrare in un negozio, nulla sapendo, cosa dovrebbe
fare"? Questione complessa, che ci ha riportato a una risposta altrettanto
paradossale che abbiamo avuto modo di leggere una ventina d’anni fa.
La rivista sicuramente il mensile statunitense Keyboard, il
destinatario crediamo fosse Jim Aikin (o forse era Dominic Milano?). La domanda
suonava così: "Tutti mi raccomandano di ‘tenermi al passo’ (‘stay current’),
ma poi nessuno mi specifica cosa vuol dire". Dopo una serie di consigli
pratici di buona utilità, la risposta chiudeva così (andiamo a memoria):
"’staying current’ means knowing what ‘staying current’ means".
Cioè a dire, "requisito primo di ‘tenersi al passo’ è conoscere il contenuto
(sempre variabile) dell’espressione ‘tenersi al passo’".
Se dovessimo prendere un esempio concreto per il
"ragazzo" di cui sopra, dando per scontato che qui non si parla
di un ascolto in auto o sotto la doccia, scegliendo quasi a caso un titolo
quale After The Gold Rush di Neil Young avremmo a disposizione queste alternative
concrete:
a) versione corrente in CD, €9.90
b) seconda stampa Reprise UK del 1971, NM, £16
c) ristampa 2009 in vinile 140 gr, €24
d) ristampa 2009 in vinile 180 gr, €34
Come fare a scegliere? Ecco, a mo’ di esempio, il succo di
una recente discussione in Rete sulle differenze "in generale" tra
vecchie e nuove stampe in formato CD:
a) devi procedere a confronti
b) la cosa va vista caso per caso
c) una volta dicevo caso per caso (…) ma
ora so esattamente che tipo di suono mi piace e quali CD lo hanno; nel
caso di quelli più nuovi si tratta di meno del 10%, il che li rende l’eccezione
alla regola, e non un procedere caso per caso
d) caso per caso; per quanto riguarda i Beatles
(…), il box mono del 2009 suonava quasi corretto, ma è privo di quella
magia che posseggono gli album originali in vinile, se ben fatti e ben
tenuti
Cioè a dire, si necessita innanzitutto dell’ascolto
prolungato e comparato della "stessa cosa". Facile, no?
Come prevedibile, ci
troviamo dentro la classica cornice "edonistica" con la quale si
è costretti a fare i conti da più di un trentennio. Messa semplicemente,
i soggetti hanno scelto di privilegiare quelle attività che hanno a che fare
con il corpo e con la sua percezione esterna (da cui la crescente diffusione
di pratiche di chirurgia estetica, lo sbiadire del confine tra trattamento
estetico e piccola chirurgia, l’aumento esponenziale di "aggiunte"
quali le estensioni, la crescente equiparazione di parti del corpo a capi
di abbigliamento caratterizzati da temporaneità e mutevolezza) e quelle per
le quali è agevole presentarsi sotto l’aspetto della "sommatoria" (per
esempio, il viaggio quale mero spostamento di un corpo da un luogo all’altro).
Ovvio corollario, il possesso di "personal gadgets" sempre più
moderni – e frequentemente rimpiazzati – che fungono da "estensioni"
del corpo e da mezzo di "interconnessione".
Per contro, qualità come alfabetizzazione, capacità di concentrarsi
a lungo, facilità di cogliere legami nel complesso, ragionamento astratto,
battono sempre più in ritirata, come facilmente dimostrato da una crescente
incapacità di rendere verbalmente anche il suntino di un film già visto.
Se ci voltiamo indietro, ci accorgiamo che è stata proprio
la capacità di concentrazione dei fan del rock "classico" (unitamente,
è ovvio, a un amore auto-motivato per la musica) l’elemento in grado di aver
ragione di apparecchiature di ascolto primitive (e, in certi paesi, di pressaggi
non di rado fallosi), mentre oggi un tale tipo di "impegno"
viene vissuto come irragionevole costrizione e modo alquanto bizzarro di
impiegare il proprio tempo. Con curioso ribaltamento di prospettiva, impegni
"oggettivamente" gravosi quali la frequentazione intensiva di palestre
e il dedicarsi allo jogging in qualunque rettifilo cittadino lo consenta
vengono oggi percepiti come attività a "sforzo zero".
© Beppe Colli 2010
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20, 2010