Pensieri spiacevoli
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di
Beppe Colli
March
17, 2006
Certe cose, a ben vedere, si sanno già.
Ma venirle a sapere, per così dire, di nuovo non può certo
fare piacere. Caso concreto: lo stato di salute dell’editoria – nel
senso di libri – che si occupa di musica. Riceviamo una lettera da un
amico e collega che vive e lavora negli Stati Uniti, e il quadro che
ci dipinge sulla scorta di fatti e cifre noti per conoscenza diretta
non è certo definibile come incoraggiante. Nel caso specifico
di libri di natura prevalentemente "tecnica" – cioè
a dire, che si rivolgono principalmente, ma in maniera niente affatto
esclusiva, a chi la musica la fa – la situazione pare oggi essere la
seguente: che i titoli che nutrono una qualche ambizione "sistematica"
– o che quanto meno hanno come scopo quello di offrire un quadro di
insieme – vendono di regola incomparabilmente meno di quelli che affrontano
un solo, piccolo, argomento in modo terra terra e il cui scopo è
eminentemente pratico. Con frase cruda ma indubbiamente efficace, il
nostro amico ci scrive che "se è qualcosa che non si può
leggere al cesso, allora non venderà".
In effetti
la tendenza era chiara da tempo. Basta considerare il profondo cambiamento
subito da testate statunitensi quali la defunta Musician o Keyboard.
Le "prove tecniche su strada", ovviamente, ci sono sempre
state; ma pur considerando la diversità intercorrente tra una
tecnologia nuova e tutta da indagare (la sintesi in FM o il campionamento)
e la descrizione del funzionamento di un plug-in, è soprattutto
il campo delle interviste a essere profondamente mutato: laddove le
lunghe conversazioni di un tempo – avessero per protagonisti Wendy Carlos
o Thomas Dolby, Wayne Horvitz o Laurie Anderson – ponevano l’elemento
tecnico a interagire con il processo creativo (un processo di cui, com’è
ovvio, esso può anche costituire il primo motore) le tre paginette
di oggi sono spesso destinate a una mera illustrazione del software
usato.
Effetto
del sempre crescente imbarazzo del lettore nei confronti del linguaggio
scritto? Delle pressioni degli inserzionisti? Di un restringersi degli
orizzonti del musicista che legge? Di quello di chi oggi i dischi li
fa? Certo, è estremamente istruttivo (oltre che, almeno per chi
è affetto da simili perversioni, altamente stimolante) leggere
le puntate della rubrica intitolata Classic Tracks che appaiono (anche
in Rete, e gratuitamente) sulla rivista made in UK chiamata Sound On
Sound: merito della descrizione, o merito della musica, si ha spesso
l’impressione di leggere della costruzione di un’antica cattedrale gotica
– e non di un moderno mall.
Nel frattempo è innegabile che le
vendite di musica in Rete – primo fra tutti il sistema iTunes della
Apple – siano ormai esplose. Prima conseguenza pratica: decrescono le
vendite dei CD. (Ci saremmo mai potuti aspettare qualcosa di diverso?)
Il nuovo problema pare essere il seguente: che molti acquistano solo
i brani "di punta" (venduti a 99 centesimi di dollaro cadauno)
invece dell’intero CD da cui (ormai solo teoricamente) provengono. Logica
conseguenza: crollo del fatturato – e dei profitti – dell’industria
discografica. La soluzione?
Copertina del # 994 (datato February 23,
2006) del quindicinale statunitense Rolling Stone. A rivaleggiare con
una Mariah Carey intenta a incarnare le virtù salvifiche di Photoshop
c’è il seguente titolo: Teens Save Classic Rock – New Life For
Hendrix, Floyd & Zeppelin. Pressoché obbligatorio andare
a pag. 11, dove ci aspetta l’articolo di Brian Hiatt intitolato Classic
Rock, Forever Young. Il succo è chiaro: una crescente preferenza
da parte dei teenager per nomi quali Led Zeppelin, Pink Floyd, Jimi
Hendrix e Beatles. Anche le cifre sono chiare: durante il triennio 2002-2005
i ragazzi dai 13 ai 17 anni hanno acquistato il 20% dei CD venduti da
Led Zeppelin e Pink Floyd e il 17% di quelli venduti da Hendrix e i
Queen (ma solo il 3% di quelli dei Creedence Clearwater Revival, il
6% dei Rolling Stones e l’1% di Cat Stevens). Anche gli ascolti delle
emittenti radiofoniche specializzate nel formato Classic Rock dicono
la stessa storia. Ma il trend – che non va certo sopravvalutato – è
indubbiamente di difficile decifrazione. Forse chi passa la sua giornata
al mall trova stimolante, di tanto in tanto, dare un’occhiata a una
cattedrale gotica?
E’ con grande piacere che ci accorgiamo che
Phillip Johnston con il suo Transparent Quartet suonerà a due
passi da casa nostra. Quello di Johnston non è certo un nome
di grande notorietà – il suo lavoro con il gruppo denominato Microscopic Septet, negli anni ottanta, è certamente
l’episodio più noto della sua carriera, che diremmo essere poi
proseguita soprattutto nell’ambito di cinema e teatro. La pubblicazione,
lo scorso anno, del bell’omaggio beefheartiano inciso come Fast ‘n’
Bulbous sotto il titolo di Pork Chop Blue Around The Rind (la formazione
– il cui co-leader è il chitarrista Gary Lucas – vede la presenza
di due ex membri del Microscopic Septet, il batterista Richard Dworkin
e il sax baritono Dave Sewelson) ci aveva dato la possibilità
di intervistare Johnston via e-mail. Giunto in città, il sassofonista
e compositore ci ha invitato a fare due chiacchiere nel suo albergo
all’ora del breakfast.
Pur
nella sua natura dichiaratamente informale, la conversazione ha visto
emergere con estrema chiarezza tratti poco piacevoli – dalla crescente
carenza di fondi per le compagnie teatrali alle vendite sempre più
magre di qualunque cosa sia di ascolto minimamente difficile alla crescente
importanza della parola parlata a spese di quella scritta (Johnston
ci anche ha citato il caso del numero di notizie "filmate e parlate"
presenti sul sito del New York Times – un fatto reputato scandaloso
dal batterista Richard Dworkin, che sfoggia una laurea in giornalismo).
Johnston ci ha poi confermato la ristampa (a novembre) nel formato CD
di tutti gli album del Microscopic Septet; e pare che il gruppo farà
anche qualche concerto. Lo salutiamo augurandoci che dopo Down Beat
e il Village Voice ci sia spazio anche per un’intervista a Clouds And
Clocks.
La
musica del quartetto – in quest’occasione destinata soprattutto a fornire
un puntuale accompagnamento a una serie di cortometraggi degli inizi
del secolo scorso – ha incarnato una cura certosina, innanzitutto nel
bel suono che un sound-check oltremodo meticoloso è riuscito
a estrarre da una sala notoriamente impossibile. Il pubblico ci è
parso gradire non poco, ma non si può certo affermare che a fine
concerto il banchetto dei CD sia stato preso d’assalto. Il pensiero
corre, forse scaramanticamente, alle previste ristampe del Microscopic
Septet.
Un
paio di giorni dopo la pubblicazione della nostra recensione del concerto
dell’Absolute Ensemble abbiamo avuto la sorpresa di veder giungere una
letter@ inviataci da Gianni Morelenbaum Gualberto, che tra le molte
cose che occupano il suo tempo (alcune delle quali vengono puntigliosamente
elencate nella lunga firma elettronica posta a chiusura della letter@
che ci ha inviato) è anche Direttore Artistico della rassegna
di cui il concerto in questione era parte. Ci è stato fatto osservare
che il Teatro Sangiorgi contiene 450 posti, in luogo dei 220 che chi
scrive aveva creduto di contare. Preso l’appuntamento con l’oculista,
ripassate le tabelline, resta immutato il problema: a fronte dei 50.000/70.000
euro da noi stimati quale costo del concerto abbiamo 450 (posti) per
6 (euro) in luogo dei 220 per 6. Cioè a dire, 2.700 euro di incasso
invece di 1.320. Non diremmo cambi molto.
E’ una questione che ci siamo posti spesso, per esempio nei confronti
dei concerti che avvengono nel newyorkese Lincoln Center. Ricordiamo
che anni fa, dopo aver letto di concerti per più versi mediocri
che nelle intenzioni avrebbero dovuto celebrare – e far conoscere –
la musica di Charles Mingus pensammo: ma perché – visto che i
dischi incisi da Mingus sono tuttora disponibili – invece di spendere
una barca di soldi per "omaggi" che poi per molti motivi (prove
affrettate, personalità poco compatibili, strumentisti che pronunciano
"al futuro") lasciano a desiderare non si regalano i dischi
di Mingus? Costerebbe meno, ed eliminerebbe alla radice il problema.
(Ovviamente se lo scopo è quello di far conoscere la musica di
Mingus, e non "una rilettura personale della musica di Mingus",
nel qual caso il discorso si complica un poco.) Applichiamo qui la stessa
logica: assumendo la nostra stima conservativa (50.000 euro) e dividendo
per 20 (il normale prezzo al consumo di un CD a prezzo pieno), abbiamo
2.500 CD di Zappa che potrebbero essere regalati a chi fosse interessato
a fare la conoscenza della sua musica. (In realtà i CD sarebbero
2.365, visto che dovremmo sottrarre il mancato incasso dei 2.700 euro.)
E
in effetti è una questione che contiene al suo interno un dilemma
non esplicitato: dobbiamo salvare la musica (di Mingus, di Zappa ecc.)
o i musicisti che la "omaggiano"? Una differenza sottile che
diremmo non andrebbe mai persa di vista.
©
Beppe Colli 2006
CloudsandClocks.net
| March 17, 2006