Un mondo di fatti
—————-
di Beppe Colli
Jan. 1, 2013
Dobbiamo ammettere
di avere la – sgradevolissima – sensazione che il 2013 sarà per l’Italia
un anno decisamente memorabile, anche se avremmo grandi difficoltà a spiegare
chiaramente in poche parole il perché.
Ma crediamo che una piccola discussione – ovviamente non troppo
approfondita – su un paio di circostanze non sia del tutto inutile. E il
punto di partenza potrebbe essere questo:
"I fatti sono costosi, le opinioni no". Una frase un po’ criptica,
che forse potremmo esprimere meglio dicendo che "L’accertamento dei
fatti è una cosa complessa e quindi costosa, mentre l’espressione delle opinioni
lo è molto meno".
"Facts are expensive, opinions are cheap", nella
sua secchezza, non è male, anche se quel
"cheap" sembra suggerire un significato di "economico" che
sconfina in un (beffardo) "senza valore", cosa che se è vera di
una enorme quantità di opinioni non lo è di certo di tutte.
Un’avvertenza non inutile è che stavolta non ci occuperemo
di credenze quali "non esistono fatti, ma solo opinioni" e cose
del genere, se non in un senso "derivato"
da questa piccola conversazione.
E ora facciamo un bel respiro.
Alcune settimane fa
fonti statunitensi ci hanno informato di un nuovo fenomeno di "de-delocalizzazione".
Si intende dire dell’accertamento di una tendenza da parte di aziende statunitensi
a riportare in patria fasi della produzione che in (un recente) passato erano
state delocalizzate in nazioni quali la Cina e in generale in paesi del sud-est
asiatico.
E’ qui scattata la discussione sul "perché", che
ha visto – ovviamente! – in prima linea le testate italiane. E’ del tutto
comprensibile che l’argomento susciti grande attenzione, dato che la "rilocalizzazione" si
tradurrebbe in posti di lavoro. Ed è ovvio che questo è il momento in cui
rispuntano le famose
"argomentazioni circolari", che ci "spiegano" perché
una cosa è così facendo diventare la cosa da spiegare prova di se stessa
(non sarebbe certo male se ognuno di noi, prima di addentare il maritozzo
o il tramezzino della prima colazione, rinnovasse il fermo proposito di diffidare
delle asserzioni circolari).
Ovviamente l’accertamento di una tendenza di quel genere si
basa sulla raccolta di un elevato numero di dati, cosa che ha un costo e
che presuppone una struttura atta alla raccolta. E’ ovvio che di norma "ci
fidiamo" dei dati, anche se in concreto abbiamo dei dubbi su dei casi
specifici – i dati dei petrolieri, per esempio, o quelli che riguardano il
riscaldamento del pianeta quale materia ancora
"troppo nuova e complessa", quindi di difficile decidibilità.
Se però guardiamo al panorama italiano la nostra impressione
è quella di uno scenario in cui, con pochissime eccezioni, tutti esprimono
opinioni su fatti accertati altrove. Un corollario doloroso è la facilità
con cui chi esprime un’opinione dice qualcosa di solo apparentemente sensato
e la pari disinvoltura di chi pone la domanda e senza discutere porta poi
tutto in pagina o in video, ma questa è una questione che tira in ballo la
caratura professionale di chi lavora nel settore dell’informazione, che diremmo
purtroppo sempre più simile alla rappresentazione di quella vignetta di Altan
dove l’intervistatore porge il microfono all’intervistato dicendogli "Mi
dica quello che vuole".
Va da sé che – pur se esiste un ineliminabile margine di incertezza
nell’accertamento dei dati (distinto da quello riguardante l’interpretazione
dei dati stessi) – più sono i fatti accertati "altrove" (un "altrove" che
in questo caso non comprende comunità "larghe" ma strettamente
interconnesse come quella scientifica – si pensi al controllo di fatti riguardanti
vaccini e neutrini) e più ci vediamo costretti a prendere decisioni "al
buio", a "fidarci" dei fatti.
Chi oggi assiste al
dibattito sui (famosi)
"costi della politica", se di giovane età o di scarsa attenzione
a questo tipo di problemi, non potrebbe neppure immaginare che un tempo il
"costo della politica" sia stato collegato all’accertamento dei
fatti. Va infatti notato che l’accertamento dei fatti è un prerequisito necessario
per prendere decisioni "sensate", e non "alla cieca".
Questo ha un costo, e presuppone una struttura.
Al tempo del dibattito sulla "centralità del Parlamento",
ci fu chi – ricordiamo il Prof. Stefano Rodotà – fece osservare che il Congresso
degli Stati Uniti disponeva di un ingentissimo budget che consentiva a quest’organo
di avere ed elaborare dei dati propri, quindi dotati di affidabilità maggiore
rispetto a quelli prodotti da soggetti non terzi, fortemente sospetti di
piegare i loro dati in una direzione voluta.
Il lettore capirà da sé che spendere per produrre dati affidando
la spesa a un organo centrale non è esattamente la stessa cosa di attribuire
una fetta di un tot a ogni singolo parlamentare perché la impieghi a sua
piena discrezione, per esempio assumendo collaboratori personali.
Ma non sembra che la crescente "cecità" degli organi
politici – e il fenomeno ovviamente investe anche soggetti quali sindacati
e partiti della sinistra, le cui finanze un tempo floride consentivano il
mantenimento di ferratissimi "uffici studi" – venga oggi percepita
come un problema; forse essa non viene più neppure percepita.
Se quanto detto finora
ha un senso, diremmo che non possiamo non chiederci cosa voglia dire (nel
senso di: cosa implichi) una piattaforma (politica!) che mette in posizione
di rispetto "abbattere i costi della politica". E’ ovvio che quello
che si intende(rebbe) dire è
"abbattere gli sprechi della politica". Ma è davvero questo il
senso? Diremmo di no, se il corollario della "politica di servizio" è
un’attività esercitata con spirito francescano a costi da svendita.
Va da sé che in tempi in cui la legittimità del ruolo del
politico è giunta a livelli tanto bassi una formazione che proponesse di "alzare
enormemente i costi della politica" verrebbe massacrata a colpi di risate
in televisione, prima ancora che nell’urna.
Ma dato che siamo alquanto restii a ipotizzare un impazzimento
di massa o di ceto non possiamo non chiederci quale sia un fatto che possa
rendere "congruo" il comportamento di rimpicciolirsi e proporsi
come umili prestatori d’opera a basso costo. E qui la cosa migliore che riusciamo
a pensare è che buona parte del ceto politico abbia interiorizzato l’idea
che "i fatti" vengono prodotti altrove, e che davvero non ci si
può più fare niente.
(La nostra ipotesi può sembrare troppo semplicistica. Possiamo
arricchirla con la circostanza accessoria che – a differenza di altri paesi
– l’Italia non si è mai molto preoccupata di capire da dove potesse giungere "il
prossimo pasto": svalutazioni a scopo competitivo per l’industria, debito
pubblico usato come
"elemosina di massa" e una collocazione geopolitica che – almeno
finché c’era la guerra fredda, cioè a dire (si credeva) per sempre – impediva
il fallimento della nazione non sono certo precondizioni favorevoli a fare
quattro conti o a ricordarsi che il resto del mondo esiste.)
E’ giunto il momento
di ritornare a quella circostanza di "de-delocalizzazione/rilocalizzazione" di cui si è detto poc’anzi.
Il lettore è senz’altro consapevole del lungo dibattito sull’automazione
e sulle sue conseguenze sull’occupazione.
Un tassello recente del dibattito è il piccolo libro – un
e-book acquistabile in Rete – scritto da Erik Brynjolfsson e Andrew P. McAfee,
due ricercatori del Massachusetts Institute of Technology. Intitolato Race
Against The Machine, è uno studio che ha quale tema centrale l’automazione
di sempre maggiori quantità e tipi di lavoro in precedenza svolti da esseri
umani.
Al tempo della sua pubblicazione, all’incirca un anno fa,
il libro è stato al centro dell’attenzione dei media statunitensi (siamo
sinceri: non riusciamo a ricordare se in Italia qualcuno se ne sia occupato,
ma l’eco del dibattito dev’essere stata davvero debole), un punto di riferimento
oggi agevolmente accessibile essendo l’articolo a firma Steve Lohr apparso
in data October 23, 2011 sul New York Times con il titolo di More Jobs Predicted
For Machines, Not People.
Ed è uno studio di cui non pochi – Paul Krugman tra gli altri
– si sono ricordati al momento di commentare questo "ritorno del manifatturiero" al
paese d’origine. C’è infatti chi ha argomentato che la quantità di valore
proveniente da macchine incorporata nel prodotto finito è ormai prevalente
rispetto al costo del lavoro umano, circostanza che rende quindi quasi irrilevante
il luogo in cui il bene viene prodotto; e se questo è vero, l’attesa di una
crescita di occupazione nell’industria manifatturiera è destinata a rivelarsi
illusoria.
(Circostanza dolorosa, in parallelo al dibattito italiano
sul miglioramento dei titoli di studio quale chiave per accedere a un migliore
livello di reddito, tabelle statunitensi su reddito e occupazione definivano
il titolo di studio un predittore ormai inadeguato del reddito futuro.)
Un altro aspetto drammaticamente
attuale è la necessità di lasciare il lavoro più tardi quale risposta alla
crescente aspettativa di vita. "Si vive di più", si argomenta, "quindi
è logico che si vada in pensione più tardi".
Lasciamo da parte l’adeguatezza della soluzione al problema
visto nel suo aspetto contabile per considerare i fatti: è vero che si vive
di più? Le fonti statunitensi a nostra disposizione ci dicono di un aumento
medio e di uno spettro decisamente ampio in correlazione a reddito e occupazione
(che è qualcosa di molto più complesso della discussione sui "lavori
usuranti"). Le più recenti tabelle ci dicono di un’aspettativa di vita
enormemente aumentata per i soggetti ad alto reddito. Possiamo ragionevolmente
sostenere che l’aumento dell’aspettativa di vita non è qualcosa di acquisito
una volta per tutte e di per sé garantito automaticamente anche per il futuro,
ma un dato da mettere in correlazione con le prestazioni tipiche del moderno
stato sociale.
Ma non è per nulla ragionevole postulare che l’aumentata aspettativa
di vita prolunghi in modo automatico l’efficienza dei "momenti migliori" della
maturità di un individuo. Il nudo fatto di vivere cinque anni di più non
prova che lo stato di efficienza di un individuo tra i sessantacinque e i
settant’anni sia la fotocopia di quello tra i sessanta e i sessantacinque.
Ribadiamo quanto appena detto, e cioè che lo stato di salute di un individuo
è anche il prodotto di forme di assistenza proprie dello stato sociale, forme
che per tutta una serie di ragioni ci si appresta ora, almeno in parte, a
revocare.
Non può quindi non colpire la disinvoltura con cui durante
i dibattiti televisivi nelle "trasmissioni di approfondimento" i
fatti vengono stirati a proprio uso e consumo, dando per scontate cose –
quali l’allungamento della vita umana a prescindere dalle condizioni sociali
– tutt’altro che vere. Notiamo inoltre il diffondersi di modi di dire – "ci
tocca mantenerli altri vent’anni finché non muoiono" – che rivelano
l’estendersi di una mentalità che definiremmo "Repubblicana"
(nell’accezione statunitense) e che segnalano il pericolo di una guerra di
poveri che si contendono quella fetta decrescente del PIL loro rimasta.
(E’ il momento di un piccolo quiz che riserviamo ai lettori
appassionati di cose italiane. Chi ha detto "In Italia si vive più a
lungo; è naturale andare in pensione più tardi. La riforma Fornero, su questo
punto, non può essere messa in discussione; i giovani non ce lo perdonerebbero"?)
Che il dibattito italiano
si sia ridotto a una polemica sulla "rottamazione" crediamo non
sia cosa che può sorprendere più di tanto.
Quello che ci sorprende è invece il crescente carattere di
autoreferenzialità della stampa italiana. Avevamo detto in passato di giornali
sempre più ossessivi nel loro interesse per il particolare quotidiano del
ceto politico, avvenimenti che molto spesso è doveroso classificare alla
voce "fattoidi", cose di cui il giorno dopo neppure i diretti interessati
si ricordano più. Come già detto, è un modo di narrare il mondo della politica
che viene da lontano e che forse aveva una sua ragion d’essere al tempo in
cui, in un’epoca "bloccata", gli spostamenti non potevano essere
che minimi.
Non possiamo non notare con dolore che per i media italiani
ormai è il mondo che costituisce un’entità fantasmatica, con "lo spread" e "i
mercati" quali ectoplasmi di impossibile definizione. Lontanissimi anche
i tempi dei corrispondenti italiani nelle "principali capitali europee",
con le notizie dette da gente che nel leggere rispettava i segni di punteggiatura
quali segni della logica.
Ritorniamo al punto di partenza. "Le notizie costano
tanto, i commenti molto meno." Oggi in Italia tutto pare fatto in economia,
anche da testate largamente in attivo. Se prendiamo quale esempio La Repubblica
(il solo quotidiano italiano di carattere non strettamente locale che leggiamo)
diremmo che è impossibile non provare una sensazione di soffocamento vedendo
che ogni giorno le prime dieci pagine sono dedicate in gran parte a "fattoidi" (il
tutto sotto le solite testatine: Il retroscena, L’analisi e così via), mentre
argomenti di grande importanza (e non in senso soggettivo!, si parla qui
di decisioni della BCE) ricevono un’attenzione residuale e a volte neppure
quella. (E’ toccato vedere la morte di Albert O. Hirschman sbattuta in uno
sciatto trafiletto nella stessa sezione dove si susseguono ininterrotte le
lenzuolate sul destino della Cultura.)
La chiusura di questo
pezzo ci vede costretti a una notazione ulteriore, e non delle più piacevoli.
Ci capita abbastanza spesso di sentirci replicare "non ho tempo"
quando facciamo notare che la complessità dei problemi che abbiamo di fronte
necessita oggi di uno stato di attenzione durevole, costante e metodico.
Se fosse vero che non si ha tempo – e qui precisiamo che il nostro referente
"tipizzato" è una coppia di impiegati con un figlio, non i braccianti
della raccolta del pomodoro o i manovali delle miniere di ferro del Cile
– allora potremmo solo rassegnarci e dedicarci ai nostri passatempi preferiti,
certi che la famosa "istanza di cambiamento" non troverebbe mai
nessuno tanto poco occupato da dedicare a essa la minima attenzione.
Crediamo però che la condizione del "millefacente"
comprenda oggi – oltre alla visione giuliva di quelle "trasmissioni
di approfondimento" che fungono da sostituto dello studio – tante di
quelle attività "ludiche" che si è liberamente scelto di intraprendere
perché più piacevoli delle alternative.
Giunto il momento, non si potrà dire che non ce lo siamo meritato.
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net | Jan. 1, 2013