Un mare di guai
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di Beppe Colli
Sept. 22, 2013
Cattedra alla
prestigiosa università di Princeton, insegnamento nell’altrettanto prestigiosa
London School of Economics, premio Nobel 2008 per l’economia, dal 1999 Paul
Krugman è ospite in qualità di commentatore del quotidiano statunitense The New
York Times: una collaborazione articolata in due interventi a settimana che va
ad affiancarsi a una già abbondante produzione di opere di ampio respiro
alternativamente dirette a chi è già esperto in materia e a un pubblico colto e
curioso ma non necessariamente composto da specialisti.
Gli articoli di Krugman per
il New York Times fanno il punto su questioni economiche e sociali in modo
accessibile ma ricco di profondità. La parte più interessante della sua
collaborazione con lo storico quotidiano è però a nostro avviso costituita dal
blog a cadenza quotidiana che porta il nome di The Conscience of a Liberal. Qui
Krugman svolge per esteso e con generoso ausilio di grafici argomentazioni che
in forma meno ardua andranno poi a confluire nei suoi interventi diretti a un
pubblico più vasto. Le circostanze della crisi economica degli ultimi anni
hanno contribuito a trasformare il blog in un laboratorio di idee il cui
seguito va ben al di là di una cerchia specialistica, facendo di Krugman uno
dei commentatori più letti al mondo.
Vorremmo mettere in rilievo
alcuni aspetti di questa collaborazione e del lavoro di Krugman.
Quel che appare sul blog è
sempre vagliato dalla redazione del quotidiano, che richiede pezze d’appoggio
di natura statistica ed economica ogni volta che ciò appare necessario. Gli
interventi sono quindi ricchi di rimandi ad articoli e lavori quasi sempre
immediatamente accessibili al lettore che rendono quanto detto molto diverso da
"un’opinione", per quanto illustre.
Gli interventi, a volte
decisamente complessi – nei casi di maggiore difficoltà compare nel titolo
l’avvertimento "(wonkish)" – sono in numero giornaliero di tre o
quattro, e tutti "in tempo reale" rispetto a quanto avviene. E ciò,
con pochissime eccezioni, anche quando l’autore è in viaggio per il mondo e in
pieno jet lag.
Il dialogo che oggi ha
luogo tra gli economisti ha mutato i termini della questione per quanto
riguarda "l’autocorrettività" delle ipotesi. Non più anni tra il
formularsi di un’ipotesi e le critiche sul libro a stampa. Una circostanza che
è alla base di molte discussioni di cui è giunta eco anche da noi e che rendono
possibile la correzione degli errori "in corsa". Resta ovviamente
sullo sfondo la questione dell’accettazione di quanto è dimostrabilmente
corretto – si veda tutta la discussione sulla grandezza appropriata perché lo
stimolo stanziato dalla prima amministrazione Obama operasse gli effetti
sperati – da parte della sfera politica.
Ultima, ma più importante, la questione riguardante la
previsione. Il discorso economico di cui si dice è basato sull’esistenza di
"modelli". Dalla "struttura" del modello dipendono le
possibilità di previsione, mentre il confronto tra quanto previsto e quanto si
è poi effettivamente verificato permette di correggere un modello o di gettarlo
via in quanto inutile, oltre ovviamente a rendere possibile una
"classifica" dei modelli.
E questa è un’acquisizione importante soprattutto in un
momento in cui il modo prevalente di "discussione" si articola su
coordinate quali "questo è il tuo parere" e "io non la penso
affatto così": coordinate che mentre danno l’impressione che quello cui si
sta assistendo sia un confronto razionale offrono uguale diritto di
cittadinanza a ipotesi correttamente articolate e a vaneggiamenti da
neurodeliri, il tutto all’insegna della "libertà di opinione". Un
aspetto che è importante non dimenticare quando, tradotta in politica,
un’opinione erronea può produrre milioni di disoccupati.
Chiudiamo il punto citando un recente studio (Donaldson et al.
(May, 2011): "Are Talking Heads Blowing Hot Air? An Analysis of the
Accuracy of Forecasts in the Political Media" – Hamilton Public Policy
Project) che ha esaminato l’accuratezza delle previsioni effettuate da
politici, giornalisti e commentatori dei media trovando quelle di Krugman le
più accurate (quindici volte su diciassette), con l’attendibilità di molti non
diversa da quella ottenibile mediante il semplice lancio di una moneta.
Come il lettore
ben sa, da tempo il dibattito sul "destino dei media" è illuminato da
tinte fosche, con previsioni apocalittiche nei confronti di cinema, musica ed
editoria. Qui ognuno cerca di prendere i provvedimenti che può, con
comprensibili margini di errore. E molti sono ovviamente i punti di vista
possibili.
Da parte nostra puntiamo
sovente il dito in direzione di una carente qualità dei prodotti editoriali.
Sappiamo bene che la nostra è un’opinione spesso accolta da profondo
scetticismo. E però non di rado abbiamo la sensazione che lo scetticismo
mostrato sia mirato a mascherare un’incapacità "tecnica" a produrre
qualità; da cui un’argomentazione di comodo tesa a nascondere quella che è una
inadeguatezza.
E’ ovviamente ipotizzabile
che i costi fissi di una piccola impresa ne rendano oggi impossibile
l’esistenza "fisica". Ma la qualità di quello che appare
sull’immateriale Rete induce a non ritenere quello dei costi quale l’ostacolo
decisivo.
Buona notizia,
leggiamo di recente che il New York Times è tornato in attivo grazie all’ottima
risposta dei suoi lettori alla "opzione digitale".
Com’è noto, quelli del
"superamento della carta" e dell’"approdo al digitale" sono
argomenti scottanti, dove i tentativi di soluzione sono declinati nei modi più
svariati – in un continuum che va dal "paywall" all’accesso libero –
nei vari contesti culturali.
E’ ben noto che al pari di
altre storiche testate anche il New York Times ha dovuto operare tagli
dolorosi, ed effettuare investimenti (e disinvestimenti) la cui reale utilità
apparirà solo con il tempo.
Ma giudicando con l’ottica
del semplice lettore non potremmo dire che negli anni in cui abbiamo avuto
accesso libero ai contenuti "virtuali" del quotidiano questi siano
diventati più scarsi per quantità e qualità, dalla cronaca politica nazionale e
internazionale (un campo, quest’ultimo, non necessariamente
"naturale" per un Paese con ricorrenti tendenze "insulari"
quali gli Stati Uniti) alle scienze, alle inchieste sugli argomenti più vari, alle
arti tutte: musica, cinema, architettura, teatro, letteratura e così via.
In parallelo,
la buona salute del quotidiano inglese The Guardian ci dice che anche qui lo
sforzo sulla qualità ha pagato. In una cornice di "accesso totale"
diversa da quella del New York Times e che forse mostra anche una diversa
filosofia imprenditoriale, valgono le medesime considerazioni fatte per il
"gemello" statunitense: inchieste, sfera politica ed economica (il
Guardian ha un bellissimo blog di economia che in occasione delle recenti crisi
finanziarie su scala europea è stato una preziosa guida con collegamenti in
tempo reale Londra-Bruxelles-qualunque altra capitale, alla bisogna), teatro,
cinema, musica e arti varie, senza rinunciare a quelle "finestre" di
interesse "tipicamente inglese" – le piante, i giardini, gli animali
e le vecchie costruzioni di campagna – che saranno familiari a coloro i quali
hanno avuto dimestichezza con le massicce "edizioni week-end" di
tanti quotidiani di laggiù.
Ma un quotidiano che aspiri
a una posizione di protagonista si distingue anche per la qualità di
"fatti" che "produce". E qui il recente filone di inchiesta
sull’operazione di "infiltrazione elettronica" su media vecchi e
nuovi da parte della statunitense National Security Agency, in pieno svolgimento
mentre scriviamo, con tutti gli addentellati scottanti e le possibili
conseguenze che necessitano di spalle molto larghe, dice chiaramente della
quantità e qualità dell’impegno profuso dalla testata.
Un impegno che – è annuncio
recente – ha visto il numero degli accessi da oltreoceano superare quello
nazionale e che ha fatto da apripista a una trasformazione della testata in un
protagonista "senza frontiere". Qui un buon esempio in ambito
"leggero" è costituito dalla copertura pressoché in tempo reale dal
festival cinematografico di Toronto (e anche quella del festival di Venezia, al
confronto con le testate del paese ospitante, non sfigurava affatto).
Fra i tanti
problemi gravi dell’Italia non mancano le battute, prime fra tutte quelle
concernenti "compiti e priorità del servizio pubblico", con bella
sfilza di impegni e obiettivi.
Ma quale la credibilità di
simili propositi quando gli speaker dei telegiornali e dei giornali radio danno
le notizie con uno spezzettamento delle frasi che non risponde a nessuna
concatenazione logica, rendendo di fatto incomprensibile ogni cosa? E come
spiegare il fatto che – a quanto ci risulta – i soli Piero Ottone e Corrado
Augias hanno ripetutamente segnalato la circostanza?
In
un mondo che si vuole "globale" fare i confronti tra quanto accade
"fuori" e quanto qui da noi è decisamente istruttivo, pur se a volte
per certi versi mortificante.
Parliamo quali lettori del quotidiano la Repubblica, e con
piena competenza, visto che lo leggiamo quotidianamente dai tempi del rapimento
Moro (sono all’incirca trentacinque anni). Dobbiamo dire che ormai da anni
rimaniamo sempre più perplessi per le (per noi) imperscrutabili alchimie che ne
determinano il prodotto editoriale.
Stringendo, i punti chiave di quanto "manca" sono
soprattutto due: scarsa attenzione al mondo, e scarsa presenza della parte
"culturale".
Il primo punto è ben rappresentato dalla assai carente
attenzione dimostrata nei confronti dell’inchiesta riguardante le onnipervasive
infiltrazioni della statunitense National Security Agency in quelle che sono le
connessioni vitali di una moderna civiltà elettronica, di cui si è detto in
precedenza (un affare, sia detto di passata, in grado di stimolare le menti dei
migliori giuristi).
Per quanto riguarda la "cultura", mentre
l’attenzione per i prodotti librari è del tutto spropositata rispetto al loro
"peso" – cosa che ovviamente può essere letta quale non piccolo
merito – quella per arti quali architettura, teatro e balletto è pari a zero;
della musica non vale a pena di dire, posto che i termini di paragone siano
testate quali quelle citate poc’anzi e non un’altra testata italiana. Mentre se
parliamo di cinema la "firma" ha spesso la precedenza su quelle virtù
di competenza stretta che si presuppongono essere la qualità prima di chi di
cinema si occupa. (Lasciamo qui da parte le innumerevoli "lenzuolate"
di tipo "informativo".) Capiamo le eccezioni: non è vero che sul New
York Times è spesso Stephen Holden (che qualcuno ricorderà negli anni settanta
quale firma prestigiosa di Rolling Stone, dove si occupava brillantemente di
musica) a recensire film dal retroterra teatrale o "letterario"? Ma
chi sarebbe lo "Stephen Holden de’ noantri"?
In generale, quello che sembra difettare è la competenza
"specifica". Va da sé che pretendere che due corrispondenti si
occupino di tutto lo scibile umano è pura follia. Ed è parimenti vero che non
si può pretendere che qualcuno in possesso di una Laurea in Legge possa
comprendere le ragioni dello squilibrio produttivo e monetario esistente tra la
Germania e le nazioni dell’Europa del sud. Però se c’è una cosa che oggi è
evidente è che per dire qualcosa di sensato occorre lo studio approfondito e
continuo di "una" cosa.
Più volte Krugman ha messo in evidenza come gli avvenimenti recenti hanno
indotto a correzioni nella modellistica, mettendo in luce come quelli che in
dottrina sono "casi particolari" possono diventare "la
norma" contro la quale si scontrano i nostri tentativi di rimediare ai
guai. E che circostanze inedite spingono a mutare la modellistica acquisita.
In chiusura di punto, vorremmo ricordare che le (supposte)
"spiegazioni" del giorno dopo non sono altro che "argomentazioni
circolari" di contenuto informativo pari a zero.
Il
lettore comprenderà perfettamente che tirare in ballo "i danni del
berlusconismo" equivale a dare inizio a una discussione che è ragionevole
supporre non avrà mai fine. Però crediamo razionale sottolineare un paio di
fenomeni che, pur decisamente meritevoli di attenzione, ci pare non ne abbiano
ricevuta la giusta quantità.
Da un paio di decenni Berlusconi sembra occupare buona parte
dello stato mentale degli italiani. E non è che la cosa sia senza buoni motivi,
tutti facilmente intuibili da chiunque.
Però nutriamo forti dubbi sul fatto che il modo in cui la
stampa se n’è occupata – e il quanto: facciamo grosso modo una mezza dozzina di
pagine al giorno tra cronache, interviste e commenti? – sia stato il modo
migliore.
Lasciamo da parte la questione se la comparsa di Berlusconi
quale attore politico sia stata causa o effetto del fenomeno detto
"personalizzazione della politica". Sta di fatto che la
"figura" Berlusconi si è tramutata in un modo come un altro per
vendere un giornale, allargandosi fino a inglobare – a puro scopo di
"varietà": l’effetto inflazionistico funziona anche qui – tutta una
serie di figure e imprese che, reiterate ogni giorno, hanno finito per
contribuire a rendere gigantesca una figura che andava trattata in termini
molto meno coloriti, brillanti e "simpatici", soprattutto in un
contesto quale quello italiano notoriamente pieno di simpatia per comportamenti
disprezzati in pubblico ma oggetto di ardente ammirazione nel segreto del
cranio.
Il basso grado di "alfabetizzazione" quando si
tratta del modo "corretto" di affrontare i problemi ci lascia adesso
in eredità la ricerca di un "personaggio" che sia "gigante
uguale", impresa ovviamente impossibile. Si potrebbe obbiettare che oggi è
sempre "la persona" (per dire, Obama) che è chiamata a
"vendere" un programma. Ma questo presuppone che un programma ci sia.
Qualcuno l’ha visto? Quel che pare di scorgere è un guazzabuglio di
"desiderata" che non tiene minimamente conto del quadro in cui ci si
muove, il che suscita spesso in chi scrive l’impressione di un paese lasciato
libero di far finta di governare.
La
figura di Berlusconi si inserisce a pieno titolo nella tradizione giornalistica
italiana di presentare tutto come un teatrino. Ci sono ovviamente motivi di
peso alla base di tutto ciò, dall’immutabilità di fondo di un quadro politico
in cui esisteva il famoso "fattore K" di Alberto Ronchey a una
posizione geopolitica che rendeva possibile l’uso di svalutazioni compensative
e sbilanci nazionali di dimensioni tali da far fallire un paese diversamente
collocato.
Ma l’autoreferenzialità della politica italiana per come
appare sui giornali ha oggi qualcosa di sinistro. (E adesso non abbiamo più
neppure Sandro Viola a ricordarcelo.) Il dilagare del pastone quotidiano,
applicato a faccende, figure e orizzonti mentali che è possibile solo
qualificare come risibili, è la perfetta rappresentazione della coltre
mortuaria che avvolge questo paese. E non è che questa sia un’impressione
soggettiva, com’è ben dimostrato dal numero di persone che vanno a svolgere
altrove il loro lavoro – e qui sarebbe interessante fare una bella ricerca a
proposito di cose quali "censo della famiglia di provenienza" e
simili.
Rischiando di ritrovarci iscritti d’ufficio nella categoria
dei "rottamatori" diciamo: posto che non si fanno le nozze coi fichi
secchi, e dichiarando immediatamente la nostra ignoranza a proposito di costrizioni
di bilancio, ecco da dove trarremmo le risorse per rendere realizzabile la
trasformazione di la Repubblica in un giornale serio e al passo coi tempi:
dall’abolizione completa delle pagine della politica per come essa è trattata,
con quegli spazi pieni di aria fritta che portano testatine quali "Il
fatto", "L’analisi" e "Il retroscena", nonché tutte le
interviste "di servizio" che ricordano la vignetta di Altan che
faceva "mi dica quello che vuole".
Per tutti, il consiglio di rendere la prosa
meno simile a quella tipica di un azzeccagarbugli di provincia che crede di
parlare forbito. Un possibile modello in grado di coniugare "stile &
concretezza" non è lontano: proprio sul sito di la Repubblica Kay Wallace
anima un blog intitolato The View from Rome. Sottotitolo: What’s Happening in
Italy in English. E come il lettore potrà agevolmente vedere da sé non è solo
un fattore di lingua.
Il
"quadro generale" non induce all’ottimismo. Mentre il mondo spinge
sull’acceleratore (giorni fa leggevamo di come l’uso delle stampanti in 3D
abbia consentito alla G.E. di abbattere i tempi di sperimentazione sulle pompe
da due anni a poche settimane) noi ripieghiamo sulla valorizzazione di figure
la cui specialità è "l’affabulazione" in senso ottocentesco (Baricco)
e di "nostri pari" messi nelle condizioni di poter affermare senza
temere il ridicolo – e neppure che qualcuno replicasse nei giusti toni: lo
sbarramento dev’essere stato possente – che "Antonioni è noioso" mentre certo cinema leggero italiano
degli anni settanta è "una figata" di cui è sbagliato vergognarsi
(Jovanotti).
Se c’è qualcosa che preoccupa davvero è la quasi completa
scomparsa del mondo del lavoro dalle prime pagine, forse perché in fondo
"noioso", a partire dalle morti per lavoro. E se c’è una cosa che
vorremmo sottolineare è l’irrompere di quelle problematiche legate al
"genere" – di cui il rovente dibattito sul "femminicidio"
non è che la punta dell’iceberg – a rimpiazzare l’identità come derivante dal
lavoro. Una scomparsa preoccupante, se aggiunta all’assottigliarsi delle fila
di coloro i quali conoscono ancora la creazione del valore – e chi è rimasto?
Gallino, Ruffolo… – e che ci sembra annunciare uno smantellamento del welfare
di quelli tosti.
Chiudiamo
con una nota colloquiale. Ci capita spesso di sentir dire, a giustificazione di
un lavoro critico-giornalistico che con un eufemismo possiamo solo definire
"scadente", che "è stato pagato poco" e che "per
quello che ci danno…". Ma a tutti capita di mangiare in posti un po’
così, dove non ci aspettiamo certo ingredienti e arredi paragonabili ai posti
in cui si paga tre/quattro volte tanto. Però saremmo stupiti se qualcuno
tossisse, o peggio, dentro il piatto contenente il cibo che stiamo per mangiare
giustificando la cosa con la paga ridotta che percepisce. Un articolo mal
fatto, o che tratta un argomento con il quale chi ne ha scritto non ha alcuna
dimestichezza, è come una pietanza sulla quale qualcuno ha sputato.
Rifiutiamoci di mangiarla.
© Beppe Colli 2013
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