James Blood Ulmer Septet with Vernon Reid
Centro Zo, Catania
March 18, 2006
In
quella fertile New York "new waver" che alla fine degli anni
settanta si preparava a (ri)scoprire il blues beefheartiano (e per Captain
Beefheart quella non fu che la prima di molte riscoperte) si affacciò,
tra le altre, l’imponente figura di James Blood Ulmer: chitarra decisamente
fuori moda (una Gibson Byrdland, semiacustica con cassa grande), aspetto
un po’ in stile "bluesman del Delta", credenziali impeccabili
– su tutto, il rapporto "armolodico" con Ornette Coleman.
Una chiave decisamente blues/hendrixiana coniugata con funk e jazz è
quella adoperata nell’articolo più vecchio in nostro possesso
a proposito di Ulmer: firmato da Chip Stern, apparso sulla rivista statunitense
Musician alla fine di quel decennio, un titolo che recita James Blood
Ulmer and Punk Jazz. Di lì a poco, l’articolo di Lester Bangs
intitolato The Punk-Jazz Connection (con foto di un Joseph Bowie allora
Defunkt, e poi David Thomas, Captain Beefheart, James Chance, Lydia
Lunch) tentava una (im)possibile mediazione. Ulmer collabora con nomi
poi celebri quali Arthur Blythe, Oliver Lake e David Murray, incide
titoli oggi ben noti quali Tales Of Captain Black e Are You Glad To
Be In America?, firma prima con la Rough Trade e poi con la Columbia
e nel tempo diventa a suo modo un classico – ma non per il pubblico
di massa.
James
Blood Ulmer Septet with Vernon Reid? Ovviamente si va – e anche se ci
accorgiamo che la sala in questione è quella del Centro Zo, che
ha coprodotto l’evento (il concerto è parte della rassegna della
Provincia di Catania intitolata EtnaFest), il biglietto è preso
senza indugio. Per una volta, lo anticipiamo, ci va bene: a differenza
del suono orribile del concerto di Bobby Previte & Coalition Of The Willing, visto (e sentito!)
solo tre giorni prima, qui evidentemente si è lavorato sodo.
La strumentazione è ampia: piano acustico a mezza coda, piano
elettrico Fender (il programma di sala tenta di trarci in inganno dicendo
"wurlitzer") e organo sintetico Korg, tutto suonato con versatilità
e scioltezza da Leon Gruembaum; il violino elettrico (con pedale wha-wha
Cry Baby), buon complemento solista per Ulmer, è di Charles Burnham;
"di spinta", ma non priva di sottigliezze nascoste, la batteria
di Aubrey Dayle; buona, anche se talvolta non esente da qualche compiacimento
di troppo, l’armonica di David Barnes; al basso, Mark Peterson funziona
(un appunto che ci pare indiscutibile: Peterson suona un Fender Jazz
Bass tenuto sempre sui toni medio-alti, ma dato che tutto il suono del
gruppo è sui medio-alti viene a mancare l’ancoraggio; diremmo
che un bel Precision avrebbe funzionato senz’altro meglio). E’ una formazione
in gran parte coincidente con quella apparsa su Memphis Blood: The Sun
Sessions, album prodotto proprio da Vernon Reid. Ulmer
adopera quella che ci è parsa una Gibson ES-175, semiacustica,
amplificata con un Roland Jazz Chorus 120: tipico approccio-pollice
da Wes Montgomery mutante, ora pulito ora distorto. Vernon Reid va sul
classico che più classico non si può: Hamer più
Marshall (ovviamente testata 100w + cassa 4 x 12).
Cosa è venuto fuori? Diremmo un concerto piacevole. Ulmer
canta in maniera convincente, con una bella ripresa della Evil firmata
Howlin’ Wolf e frequenti passaggi in zona Willie Dixon (Spoonful, Little
Red Rooster e quella I Love The Life I Live che giusto un paio di giorni
prima avevamo riascoltato nell’asciutta versione fattane da Mose Allison)
dimostrando anche buona grinta e fantasia in assolo. Armonica, violino
e tastiere funzionano bene. L’incognita è Vernon Reid: quando
si scorda di essere Vernon Reid funziona, pur senza entusiasmare; quando
se lo ricorda è la fine: scale a velocità pazzesca assolutamente
fuori posto e che cozzano non poco con l’approccio in fondo "rurale"
di Ulmer. Ma è tutto l’atteggiamento di Vernon Reid – qui in
vesti che diremmo senz’altro da MC – che ci pare strano, sia quando
invita il pubblico a battere le mani (in stile "clap yo’ hands,
y’all") che quando inventa un finale ruffiano davvero da avanspettacolo,
con i musicisti – impegnati in una cosetta orecchiabile in stile "finalino"
– che vanno via a uno a uno finché rimane solo l’armonica.
Cos’è mancato? Innanzitutto un po’ di sana imprevedibilità
– fatte le debite proporzioni, era come vedere il vecchio Ray Charles
in versione Las Vegas. Poi una versione meno edulcorata del blues. E
poi, più grinta: e qui non solo il Mike Bloomfield appena uscito
dal Fillmore, ma anche un Derek Trucks avrebbe risollevato la situazione.
Ovviamente pubblico in visibilio, con ultraquarantenni "scatenate
con misura" per un "sabato sera di vero blues senz’altro da
ricordare". Pubblico numeroso: la leggendaria "tribuna estraibile"
al completo, più gente di qua e di là e altre sedie aggiunte
= 350 ca.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2006
CloudsandClocks.net | March 31, 2006