Time Of Orchids
Namesake Caution
(Cuneiform)
In tempi
ormai lontani imbattersi in un nome assolutamente sconosciuto che non fosse
quello di un esordiente era sempre motivo di un certo stupore; diremmo
che oggi è vero il contrario, e ciò a dispetto della crescita esponenziale
di modi e luoghi atti a favorire la conoscenza. (La mente vacilla al solo
immaginare la proliferazione di nicchie non comunicanti che seguirà alla
scomparsa del supporto fisico; e che ne sarà dei criteri di giudizio, diventeranno
non comunicanti come le nicchie?)
Nessuno
stupore, quindi, nel trovare nella buca delle lettere un CD di un gruppo
a noi ignoto. Un’occhiata al libretto non è di molto aiuto: "Produced,
mixed and mastered by Colin Marston and Time Of Orchids". Niente nomi
dei musicisti, nessun cenno alla strumentazione usata. Potremmo andare
in Rete, ma ci soccorre il materiale a stampa gentilmente inviato a corredo.
Namesake
Caution è il quinto album del gruppo, e fa seguito a quel Sarcast While
pubblicato nel 2005 dalla Tzadik di John Zorn: una circostanza che – stante
la buona notorietà potenziale di qualsiasi cosa venga pubblicata da un’etichetta
di tale fama e prestigio – ci dice che non si tratta né di sconosciuti
né di sprovveduti. I nomi: Chuck Stern a tastiere, voce e chitarra; Eric
Fitzgerald a chitarra e voce; Jess Krakow al basso; David Bodie alla batteria.
L’unico dei quattro con il quale chi scrive ha un pizzico di familiarità
è il bassista: Krakow aveva infatti ben figurato su Pork
Chop Blue Around The Rind, l’omaggio beefheartiano dei Fast ‘n’
Bulbous di Gary Lucas e Phillip Johnston pubblicato tre anni fa. Ma tutti
e quattro i musicisti posseggono curriculum che dicono di una lunga e approfondita
conoscenza dello strumento.
Quel
che appare subito chiaro è che nel corso degli anni il gruppo ha spesso
mutato formazione e stile; cosa peraltro facile da evincere al solo scorrere
la lista di influenze e somiglianze, il cui parziale (!) elenco così recita:
John Barry/Ennio Morricone, Mr. Bungle, Nirvana, Thinking Plague, The Magic
Band, Yes, Oliver Messiaen, Swans, Radiohead, Sleepytime Gorilla Museum.
Wow! Possibile? Procediamo all’ascolto.
Quella
delle "influenze & somiglianze" è sempre questione spinosa,
ma lo è massimamente oggi che la quantità di musica registrata esistente
rende possibile essere influenzati dai Beatles senza averli mai ascoltati.
E lo stesso vale ovviamente per i King Crimson e per tutti i gruppi piccoli
e grandi che hanno esercitato un’influenza su chi ha imbracciato uno strumento
prima di noi.
Il modo
in cui Colin Marston e il gruppo hanno impostato il suono è senz’altro
interessante: batteria "grossa" dietro, con suono dell’ambiente
e ampia disposizione nello spettro sonoro, e chitarre in arpeggio con timbro
spesso pulito (un "ping" che diremmo di stampo Fender) discretamente
in primo piano; di tanto in tanto spunta qualche chitarra più grintosa.
E’ una impostazione che rimanda a molto (cosiddetto) post-rock di impostazione
più rockistica – e infatti le atmosfere discretamente oppiacee di In Color
Captivating, il breve brano strumentale che funge da apertura, e della
successiva, e vocale, Windswept Spectacle, sembrano andare in quella direzione.
Ma con il procedere dell’album emerge una netta sfumatura "metal moderno" –
per intenderci, quello che a torto o a ragione viene apparentato ai King
Crimson più recenti – che non troppo sorprendentemente, su Meant (Hush-Hush),
sfocia in un urlo da "paura negli spazi" che l’esperienza concertistica
ci dice caratteristico degli Sleepytime Gorilla Museum.
Abbiamo
finora taciuto delle voci: in numero enorme, stratificate, dialoganti,
interpretano con naturalezza sia i momenti di "prog" corale che
dei climi che non potremmo che chiamare "pop"; e qui, dopo il
"post-rock" iniziale, Darling Abandon si candida se non proprio
al Top 40 o al tormentone sulla radio in FM quanto meno a diventare un mini-hit
su iTunes.
Quel
che ci ha maggiormente colpito è stato però l’episodico affiorare di un
che di Keneallyano (!), laddove momenti vocali melodici e morbidi si accompagnano
ad arpeggi intricati; e se questo è vero in Parade Of Seasons, è a 39" della
successiva The Only Thing – dopo una melodia strumentale che avremmo ben
visto interpretata dalle Very Wonderful Northettes – che l’attacco vocale,
pronuncia e fraseggio inclusi, ci ha spinto di riflesso a controllare l'(inesistente)elenco
delle
"partecipazioni speciali".
Detto
della lista degli ingredienti (ah! ci sono anche delle tastiere dal sapore
sintetico), resta da esprimere un giudizio. Cosa tutt’altro che facile.
E’ indubbio che l’album è frutto di un elaborato lavoro di studio: su un
piccolo palco, in un locale angusto, senza le sovraincisioni vocali e di
chitarra, con l’imprecisione naturale in queste cose, crediamo che il gruppo
non debba suonare troppo lontano da certo normalissimo indie-rock/post-rock
chitarristico virante verso il metal moderno. Il che, si potrebbe dire,
non è necessariamente un male. E poi, qui il giudizio è sull’album. Ed
è qui che le cose si complicano: fermo restando che il gruppo si muove
con scioltezza, ci siamo ritrovati spesso ad "ascoltare" i gruppi
citati, e non quello che stavamo in realtà ascoltando. Dal che discenderebbe,
more geometrico, che meno cose si conoscono e più si dovrebbe apprezzare
Namesake Caution. Rimane comunque sullo sfondo un che di veramente insipido,
che una volta si chiamava
"mancanza di personalità".
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | Jan. 21, 2008