Tim Bogert
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di Beppe Colli
Jan. 21, 2021



Giusto un paio di mesi fa, mentre scrivevamo un breve profilo dei Jefferson Airplane, riflettevamo su quanto poco uno dei nostri bassisti preferiti di sempre, Jack Casady, fosse conosciuto oggigiorno. Il che è assolutamente normale, data la distanza che ci separa da quei tempi (mezzo secolo!).

I motivi per cui uno strumentista è conosciuto sono solitamente due: perché fa parte di un gruppo che va per la maggiore in un dato momento, a prescindere dai suoi meriti reali (che è il motivo per cui i musicisti inglesi dei gruppi più famosi si classificavano sempre tra i primi dieci nel referendum di fine anno del Melody Maker); o perché è un musicista realmente innovativo, nel qual caso sarà famoso e stimato innanzitutto tra i suoi pari, ovviamente per il periodo, solitamente breve, in cui le sue innovazioni non saranno ancora state sopravanzate da un successivo innovatore. Resta immutata la possibilità di un apprezzamento "in senso storico".

Ma quando la musica del gruppo in cui il nostro musicista suonava va a fondo, allora il discorso è chiuso. E’ triste ma è così.

Ci accorgemmo davvero di quanto poco Jack Casady veniva citato il giorno in cui ci trovammo a leggere un’intervista a Anthony Jackson (il lettore è invitato a richiamare alla memoria il groove con cui ha inizio Glamour Profession degli Steely Dan, brano tre facciata uno di Gaucho) nella quale il prodigioso bassista così definì le sue influenze: Messiaen, e Jack Casady. Ci trovammo a fare un salto sulla sedia: era la prima volta che qualcuno citava Casady, il suo timbro e la sua audacia armonica. (La memoria ci dice: Spring, 1990. Ai suoi inizi Bass Player, guidato da quel brav’uomo di Jim Roberts, partì prudentemente come trimestrale, e quello era il numero 2.)

Un pensiero analogo ci era passato per la mente la scorsa settimana, dovendo scrivere dei Moody Blues. Perché da tempo immemore sono due i gruppi che riteniamo "improponibili": i Moody Blues e i Vanilla Fudge. Inattuali, superati, sgraditi, fuori moda, di dubbio gusto, pomposi… e quei cori!

Dato che Moody Blues e Vanilla Fudge fanno parte del breve elenco delle nostre influenze formative… diciamo che ci dispiace.

E dato che ormai esiste Internet, per associazione di idee, abbiamo deciso di dare un’occhiata a Wikipedia per vedere come stava Tim Bogert, bassista dei Vanilla Fudge in forzato riposo da tempo per motivi di salute, per scoprire che era morto qualche giorno prima.

In una bizzarra replica di quanto ci era accaduto con Hans Reichel, del quale non avevamo notizie da tempo, la cui morte scoprimmo per caso nella voce di Wikipedia.

Che fare? Fatto un bel respiro, tocca indossare il famoso "cappello dell’obbiettività" e cominciare a scrivere.

Molti i momenti musicali che è possibile dire caratterizzano il 1967: Sgt. Pepper’s…, Light My Fire, A Whiter Shade Of Pale, Nights In White Satin… e una strana riproposizione, rallentata e decisamente "lisergica", di un hit delle Supremes di qualche tempo prima, You Keep Me Hanging On; un originale rifacimento dal bel successo mondiale nella versione breve del singolo, punto focale nella versione lunga, oltre sette minuti, sull’omonimo album di esordio di questo nuovo gruppo statunitense: i Vanilla Fudge.

Due i gruppi che i Vanilla Fudge dell’epoca citano come influenze importanti: i Vagrants, formazione nella quale militava un giovane Leslie West (il chitarrista ci ha lasciato da poco); e gli Young Rascals, gruppo ricco di cognomi italiani dal buon successo internazionale.

E’ oggi possibile vedere in Rete video di apparizioni televisive in cui i Vanilla Fudge suonano il loro hit. Si nota Carmine Appice, il batterista, "far girare" le bacchette: un gesto che contraddistingueva Dino Danelli, batterista degli Young Rascals.

Ottimi strumentisti, tutti cantanti – l’organista Mark Stein è la voce principale, il bassista Tim Bogert quello che nei cori ha il vibrato "ampio" che tende al gospel – i quattro hanno un ottimo batterista e un chitarrista, Vince Martell, che per l’epoca è allo stesso tempo "eccellente" e "limitato" (non sembri un’assurdità: si controlli "la concorrenza").

L’album di esordio si ascolta con piacere tutt’oggi. Il gruppo estende a brani dei Beatles, Zombies, Curtis Mayfield, il trattamento riservato all’hit delle Supremes. La registrazione dell’epoca mette in risalto le voci, l’organo e il basso, mentre rende poco percettibile la nascita della coppia ritmica Bogert-Appice, destinata a fare faville.

Ticket To Ride, You Keep Me Hanging On e Take Me For A Little While sono i punti di forza bassistici per brani che sono eccellenti "a prescindere".

Detto che l’organo è usato in modo "psichedelico", per sottolineare momenti e stati d’animo, è innegabile che soul e gospel vanno a rinvigorire l’atmosfera complessiva, e anche i cori dicono in tal senso.

Rimane forte, ripetiamo, l’impronta psichedelica. Sì che quando la radio trasmise "il nuovo singolo dei Vanilla Fudge, quelli di You Keep Me Hanging On: Where Is My Mind" ci trovammo a guardare la radio, assolutamente atterriti.

L’assenza di brani originali mette subito in chiaro il limite dei Vanilla Fudge: ottimi strumentisti, i quattro non saranno mai "autori", con le conseguenze che è facile prevedere.

Il successivo The Beat Goes On (1968) è un album semplicemente orrendo frutto di una direzione incoraggiata dal produttore del gruppo con ambizioni che risultarono a dir poco velleitarie. Dal che, un terzo album – Renaissance (1968) – che cerca il riscatto fin dal titolo.

E’ l’apice del periodo "scuro-psichedelico" del gruppo, con brani quasi tutti composti dai quattro e una direzione che prevede lunghi silenzi e momenti corali la cui valutazione dipende dalla sensibilità di ognuno.

(Va detto che i Deep Purple degli inizi si modellano coscientemente sull’esempio dei Vanilla Fudge; e nonostante Jon Lord ci sembri tecnicamente più dotato e dal retroterra più solido di Mark Stein è innegabile che il primo porti con sé le tracce del secondo anche nel periodo in cui il chitarrista Ritchie Blackmore dettava le regole del gioco, da In Rock a Machine Head.)

Renaissance mostra le cose migliori in Thoughts, Paradise, That’s What Makes A Man, Faceless People, con un brano quale The Spell That Comes After a riproporre incubi psichedelici. Tim Bogert fa un figurone ovunque, la batteria di Appice è nitida ma resta sullo sfondo.

Impossibile sottovalutare lo sconquasso e i rivolgimenti portati dai Cream in perenne tour negli Stati Uniti nel biennio 1967-68. E dalle sezioni ritmiche partì un solo interrogativo: "E noi?".

E fu così che la sezione ritmica dei Vanilla Fudge semplicemente esplose, rendendo Near The Beginning l’album che è. Con mossa azzeccata, il gruppo sceglie l’autoproduzione, con la facciata A a presentare solo tre brani – due rifacimenti, un originale – e quella B a illustrare la tenuta dal vivo dei quattro, con un brano – celebratissimo all’epoca, oggi i costumi ci sembrano non poco mutati – che presenta sostanzialmente quattro lunghi assolo.

Penne più dotate della nostra sarebbero in grado di far intendere meglio la bellezza e l’ingegno degli incastri ritmici basso-batteria nei Vanilla Fudge. Detto che Carmine Appice è un innovatore nell’uso della doppia cassa, Tim Bogert porta alle estreme conseguenze uno stile "Motown" – James Jamerson, Bob Babbitt – sparando il volume a mille e portando lo strumento a un ruolo solista assolutamente originale.

La presenza vocale e bassistica di Tim Bogert rende l’iniziale Shotgun un momento imperdibile. La coppia ritmica aveva nel frattempo sviluppato una serie di "esplosioni in tandem" che qui trovano una perfetta illustrazione. Si vedano quei momenti "insistiti" che poi vedono il "decollo" della rullata batteristica con un concitato "rullare di corde" a seguire stretto.

(In Rete è oggi possibile vedere i Vanilla Fudge eseguire dal vivo in televisione Shotgun completa di assoletto di basso. L’esecuzione è a colori, sui quattro minuti e mezzo.)

Con il rifacimento di Some Velvet Morning si torna all’atmosfera psichedelica di Renaissance, ma con una nuova secchezza. Dato il tempo trascorso da allora, siamo costretti a sottolineare il carattere "psichedelico" del pezzo. Si ascoltino quelle frasi di organo che si perdono nel vuoto, e quei momenti che sulle prime passano non notati, un buon esempio essendo la voce che sul canale destro, dopo i versi "Some velvet morning when I’m straight/I’m gonna open up your gate" a basso volume fa "tàààà…" immersa nel riverbero.

Where Is Happiness, firmata Appice (se ben ricordiamo, il batterista era l’unico ad aver ricevuto un’istruzione formale), è una delle vette del gruppo. Organo dall’arpeggio ossessivo, ottima chitarra solista, batteria a dettare i cambi d’atmosfera, il basso un po’ sacrificato in sede di missaggio, ma eccellente.

La Break Song della seconda facciata, dal vivo, vede Bogert suonare l’impossibile: fraseggi jazz, "tapping" (nel 1969!), corde fuori tastiera, e un ingresso di distorsore (crediamo un Mosrite) a portarci su climi hendrixiani.

La coesione interna va a farsi benedire, il gruppo si sfascia, e il successivo Rock’n’Roll vede i quattro suonare con i bagagli già fatti. Vennero in Italia a eseguire I Need Love in playback al programma per ragazzi Chissà chi lo sa, e arrivederci. L’album presenta comunque un brano colossale come Street Walking Woman, cantato da Vince Martell. Inizio con un piatto che sembra un gong e una cassa che è in grado di spegnere i fiammiferi a 20 cm (canale destro), e Bogert a suonare l’impossibile (canale sinistro) su tutto il brano: si ascolti il passaggio da 2’52" a 2’57", e la nota su cui la frase "atterra". (Abbiamo controllato su YouTube, il minutaggio coincide.)

(Ci siamo da poco imbattuti in una versione di I Need Love – non il migliore brano del gruppo – in un’ottima esecuzione dal vivo per una televisione statunitense. Bogert è inquadrato pochissimo ma suona moltissimo.)

Tempo per un piccolo aneddoto. Nel settembre del 1969 i Vanilla Fudge vennero a suonare dal vivo alla Mostra di Venezia il loro singolo Some Velvet Morning, ma nella versione dell’album (sui nove minuti). Lo shock fu enorme, le conseguenze durevoli. Potrà sembrare poco, ma vedere il suono mentre veniva prodotto fu un momento spartiacque per tanti, grandi e piccini. (E dato che avevamo portato in classe alcuni dischi dei Vanilla Fudge per la lezione d’inglese molti mesi prima, quando nessuno ancora li conosceva, per un momento fummo degli eroi.) Con sorpresa di tutti, i Vanilla Fudge vinsero, e li vedemmo per due sere. Da qualche parte in Rete dovrebbe esserci il sonoro di quell’esibizione.

Con chi si combina una coppia ritmica eccellente per fare le scarpe ai Led Zeppelin? Con Jeff Beck, of course.

(Jeff Beck ai tempi era molto più irascibile e umorale dell’uomo maturo che tutti oggi conosciamo, e crediamo nutrisse l’idea che Jimmy Page si fosse fatto la fama copiando il Jeff Beck Group. Da cui, vendetta.)

Solo che Jeff Beck ebbe un incidente d’auto di quelli seri.

E alla coppia Bogert-Appice non rimase che ingannare il tempo formando i Cactus con il cantante Rusty Day (un tipo, diciamo così, originale) e l’ottimo chitarrista Jim McCarty.

All’epoca dei fatti non capimmo che la copertina di Cactus (1970), per quanto modificata su richiesta di un’atterrita casa discografica, era una "parodia" dell’esordio dei Led Zeppelin.

Il discorso sui Cactus è tanto semplice quanto quello sui Vanilla Fudge era complicato: trattasi di "rock-blues" di marca statunitense, prendere o lasciare. All’epoca l’album di esordio ci lasciò un po’ perplessi: la caratura strumentale non si discuteva, ma con quei mezzi gli orizzonti ci sembravano un po’ ristretti. Suono secco e poco "prodotto", l’album offre brani come il rifacimento della Parchman Farm di Mose Allison, Let Me Swim, Oleo ("Grease it down, Timmy", prima dell’assolo di basso), Feel So Good e la cover di You Can’t Judge A Book By The Cover, con un’introduzione di basso che dimostra una musicalità eccellente.

L’apporto tecnico di Eddie Kramer rende One Way Or Another timbricamente multiforme (e non sorprendentemente quasi-hendrixiano). La title-track e Song For Aries bastano a dare un’idea.

Restrictions porta la storia in direzione della fine. La cover di Evil è spettacolare, Alaska abita climi inusuali, e Restrictions mostra un diverso atteggiamento nei confronti del suono da parte del gruppo.

Le solite tensioni, tutti a casa, mentre si rivede… Jeff Beck!, perfettamente ripresosi dall’incidente e reduce da due album non male: Rough And Ready (copertina in bianco e nero) e Jeff Beck Group ("l’album con l’arancia", prodotto da Steve Cropper).

Il trio finalmente incide, e l’album è… scadente. Tre non-autori senza repertorio che provano a scrivere, e ovviamente il brano migliore risulta essere la Superstition firmata da Stevie Wonder, mentre Lady mostra Tim Bogert al suo meglio. Ma anche il suono, e il concetto, avevano fatto il loro tempo (West, Bruce & Laing soffrivano dello stesso problema, ma Jack Bruce era anche un ottimo cantante, autore e pluristrumentista, e i due album di studio della formazione, pur non memorabili, di fatto reggevano). Jeff Beck sembrava anche non poco riluttante a fare la sua parte, con gli altri due a guardarlo attendendosi un’esplosione che non arrivava (una bella esecuzione di Superstition reperibile in Rete dice tutto, oltre a mostrare un ottimo Tim Bogert al microfono).

Un esito infelice che lasciò la bocca amara a molti. Ognuno per la sua strada.

E mentre Carmine Appice si adattò benino – prima Rod Stewart, e poi Appice quale "precursore del metal" – Tim Bogert non trovò più un gruppo al quale dare un apporto di qualità.

(Si stenda un velo pietoso sulle riunioni dei Vanilla Fudge, con e senza parrucche corvine.)


Tim Bogert: musician. August 27, 1944 – January 13, 2021


© Beppe Colli 2021

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