Clouds
and Clocks,
tre anni dopo.
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di Beppe
Colli
Dec. 29, 2005
Sebbene possa forse sembrare un po’ difficile
da credere, il 26 novembre del 2005 Clouds and Clocks ha compiuto tre
anni. (Wow!) E tre anni sono certamente un periodo di tempo sufficientemente
lungo da indurre chi scrive a esaminare una semplice (ma a ben vedere
poi non troppo semplice) questione: abbiamo raggiunto gli scopi che
ci eravamo preposti? (E tra parentesi: quali erano?)
Per quanto
possa suonare strano, il motivo principale alla base della nostra decisione
di fare Clouds and Clocks (e sì, non pochi ci hanno chiesto a
proposito del senso del nome – ma mettiamo da parte la questione per
un’altra volta, d’accordo?) era quello di voler creare un luogo di incontro
fra musicisti/critici/scrittori (da un lato) e ascoltatori/lettori (dall’altro).
Certo, non suona terribilmente originale. Ma c’è una cosa che
ci siamo premurati di rendere immediatamente esplicita: "Niente
Pubblicità". Nel senso che: Qui a Clouds And Clocks è
facilissimo vedere chi fissa la lista delle priorità – e senza
ombra di dubbio siamo noi. Ovviamente è del tutto possibile che
lo scrivente soffra di preconcetti e chiusure come chiunque altro. Ma
è proprio tutto quello che essi sono – e nulla di più.
E dato che a Clouds and Clocks il campo di gioco è perfettamente
livellato ne consegue che tutti hanno esattamente le stesse possibilità.
L’unico
preconcetto del quale siamo perfettamente coscienti – cioè a
dire, è deliberato da un punto di vista editoriale – è
che abbiamo deciso di riferire soprattutto a proposito di quanto accade
oggi. Certo, pubblichiamo anche recensioni di ristampe su CD, o di materiali
d’epoca che appaiono ora su DVD-V. E sì, le nostre interviste
si sforzano sempre di offrire al lettore il "ritratto completo".
Ma è sempre stata nostra intenzione – per quel po’ che possiamo
– dare una mano proprio adesso, in questi tempi fantastici che stiamo
vivendo. Sforzandoci al contempo di evidenziare l’importanza di certe
modalità di ascolto che oggi sono senz’altro da includere nella
lista delle specie "a rischio di estinzione".
Siamo soddisfatti del feedback che riceviamo?
E tra parentesi: ne arriva? Beh, la risposta è "sì"
ad ambedue le domande. Ma è un sì sul quale vale la pena
spendere qualche parola.
E’ ovvio
che pressoché chiunque avrebbe piacere a ricevere un po’ più
di feedback, qualche messaggio e-mail in più, un tipo di reazioni
più profondo e così via. Ma a ben vedere non abbiamo proprio
di che lamentarci. Sulle prime ci sono stati dei fatti che abbiamo trovato
sorprendenti – per esempio (posto che questo tipo di aggeggi sia da
considerare affidabile) per due anni di seguito il numero dei contatti
che giungevano dagli Stati Uniti ha costituito circa il 70% del totale,
mentre la risposta dall’Italia era decisamente sottotono. Se dobbiamo
giudicare dalla nostra (limitata) esperienza personale, la gente degli
USA ha mostrato un atteggiamento molto diverso nei confronti della Rete
– e se parliamo di musicisti anche rispetto al mercato. Più di
una volta abbiamo avuto l’impressione che la gran parte degli europei
(ci riferiamo qui ai soli musicisti) abbia perso le speranze al punto
tale da non scomodarsi più neppure a provarci; a volte abbiamo
avuto la sensazione che alcuni considerino lo stare ad aspettare qualche
tipo di finanziamento pubblico (fondi, commissioni e così via)
come il modo più produttivo di passare il tempo (ma ovviamente
potremmo essere in errore). In qualche occasione musicisti statunitensi
ci hanno sorpreso inviandoci commenti a proposito di cose apparse sul
sito e che non avevano alcuna attinenza con la loro carriera. Per chiudere
questo capitolo aggiungeremo solo che – paragonati alla loro controparte
europea – gli statunitensi appaiono generalmente più propensi
a fare una "ricerca" a proposito di, per esempio, un CD uscito
da poco e a scomodarsi a scrivere un messaggio una volta letta la recensione
(ricordiamo con un certo divertimento un paio di lettere non poco irate).
Abbiamo notato l’apparizione di nuove tendenze
dal giorno in cui Clouds and Clocks ha aperto i battenti? Diremmo di
no. Ma le tendenze prevalenti già tre anni or sono sembrano aver
acquistato ulteriore velocità – il che non dovrebbe sorprendere,
dato che parliamo di tendenze globali e di lungo periodo: un fatto che
non è certamente propizio per considerazioni liete.
I tempi
di attenzione diventano sempre più brevi. La gente sembra sempre
più considerare il fare il maggior numero possibile di cose contemporaneamente
– e tutto quello che è umanamente possibile fare in un giorno
– come cosa che ha valore in sé. Le conseguenze sono visibilissime
ai concerti, dove la maggior parte dei presenti passa la maggior parte
del tempo a parlare, telefonare, salutare gli amici, cercare di "acchiappare"
e forse, di tanto in tanto, sentire la musica. La principale eccezione
a un livello di (mini)-massa è costituita dai concerti di jazz
del tipo "non commerciale".
Due eventi
recenti hanno attirato la nostra attenzione. Il primo è stato
un seminario di tre giorni sulla "Progressive Music" tenutosi
in un’università italiana; ci è stato impossibile partecipare,
ma ci è stato riferito di molte interessanti relazioni a proposito
della "organizzazione interna" dei materiali. Il secondo,
l’apparizione di un numero speciale sul "Prog" pubblicato
in UK da Q/Mojo; naturalmente, come è oggi costume, la maggior
parte dello spazio e dell’attenzione era dedicata a storie & affini
(belle foto, però, alcune delle quali non avevamo mai visto).
Ci siamo ritrovati a pensare che l’elemento cruciale del fenomeno (vogliamo
dire: molte persone cui piaceva un genere che in larga parte possiamo
ben definire come estremamente non commerciale) era la dimensione mancante
dell’analisi. Un fatto che la maggior parte dei commentatori sembra
non essere in grado di cogliere.
E parlando di giornali… beh, meno ne parliamo
e meglio è. Com’è ovvio, ormai da tempo la "stampa
specializzata" non è più l’unico posto dove (in teoria)
è possibile trovare cose interessanti. L’aspetto più scoraggiante
della "guerra dei CD" che attualmente viene ferocemente combattuta
(diremmo soprattutto in UK) è che la parte scritta sembra occupare
un posto sempre più secondario rispetto al contenuto del CD (cosa
che in un certo senso è tutt’altro che sorprendente). L’arma
da "fine du mondo" del momento è la "cover story
di prestigio"; e dato che per la maggior parte queste storie sono
di natura "esclusiva" il risultato è che non c’è
mai possibilità alcuna che venga formulata una domanda in grado
di urtare la suscettibilità della star di turno (e qui non prendiamoci
in giro: il fattore "star = aumento delle vendite" è
sempre lo stesso, solo proporzionato alla grandezza del giornale – chiaro?).
Mentre la natura dei tempi ha purtroppo reso la vecchia "ricetta
Musician" – in copertina un musicista di nome, e poi il giornale
colmo di gente perlopiù sconosciuta, difficile e d’avanguardia
– una cosa del passato.
Cosa dire dello stato attuale della musica?
E’ una buona domanda. Naturalmente la risposta dipende dalla persona
alla quale viene rivolta – ed è un argomento che splende di luce
particolare in questo momento, quando giornali e riviste sono occupati
a decidere cosa piazzare nelle classifiche di fine anno.
La vista
da qui è sempre la stessa: questi sono tempi ricchi di buoni
dischi ma poveri di capolavori. (Ovviamente qualunque persona di quindici
anni trova sempre dei capolavori destinati a rimanere cari al suo cuore,
ma non possiamo avere per sempre quindici anni, giusto?) Di recente
ci siamo trovati a visitare la sezione CD di un grande negozio che praticava
una supersvendita di fine anno: ancor prima che venisse praticato lo
sconto (del 50% – e che valeva sia sui dischi vecchi che sui nuovi)
avremmo potuto acquistare due capolavori (opinione personale) di ieri
al prezzo di un CD nuovo
e mediocre (idem).
Ci sono
ovviamente CD di recente pubblicazione che giudichiamo eccellenti, ma
sono estremamente rari. Quello che a volte ci troviamo a rimpiangere
è la sensazione di stare ascoltando un nuovo linguaggio musicale
che viene inventato davanti a noi – per fare un esempio, gli album dal
vivo di Miles Davis dei primi anni settanta sono tutt’altro che perfetti,
ma risultano di gran lunga più interessanti e coinvolgenti delle
versioni ormai codificate che ascoltiamo su nuovi CD e dal vivo. E se
parliamo delle "ricreazioni" dei "lavori classici"
che ormai girano per il mondo – Pet Sounds, Horses, Fun House, Aqualung
e via dicendo – beh, non ci siamo proprio.
Ma ritorniamo a Clouds and Clocks: apprezziamo
davvero il fatto che dopo un (breve) periodo di aggiustamento i musicisti,
le etichette e i lettori hanno mostrato di capire che questo non è
l’ennesimo "recensionificio".
Grazie
per averci letto sin qui. Arrivederci al 2006.
©
Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net
| Dec. 29, 2005