The Universal Thump
The Universal Thump
(self-released)
Capiamo
benissimo che è una cosa alquanto difficile da credere, eppure ci pare
quasi di poter dire che – avendo notato il nostro crescente sconforto per
quanto concerne lo stato attuale delle cose – di recente il Caso sembra
essersi messo d’impegno a farci trovare ottima musica nella cassetta delle
lettere.
Album
di esordio di musicisti dalla lunga carriera, The Universal Thump è un
perfetto esemplare di quanto stiamo dicendo: belle composizioni, testi
non banali, ottima condotta vocale e strumentale, grande fantasia negli
arrangiamenti, registrazione cristallina… Diciamo inoltre che il contenuto
musicale è
"decisamente accessibile" e che l’album è stato realizzato grazie
a un "finanziamento diffuso" ottenuto tramite Kickstarter… Impossibile
chiedere di più!
Facile
da fruire, la musica di quest’album non è però altrettanto facile da descrivere,
almeno se la descrizione ha da essere più che "generica". Ci
era venuta in mente la definizione di "Orchestral Pop", ma dato
che in questi casi la prudenza non è mai troppa abbiamo dato un’occhiata
in Rete, scoprendo (se lo dice la Rete dev’essere vero) che l’etichetta
di Orchestral Pop designa oggi un genere indie riferibile a nomi quali
The Polyphonic Spree e agli arrangiamenti di Sufjan Stevens. E qui la
descrizione di voci morbide accoppiate a una parte strumentale stratificata
ci pare davvero troppo generica.
Tanti
i nomi che ci sono venuti in mente durante le nostre sedute d’ascolto,
ma le diremmo tutte somiglianze superficiali. Certi appaiamenti strumentali
ci hanno richiamato David Garland, e almeno un episodio dichiaratamente
Sixties – Honey Beat, con tracce vocali dei Beach Boys – ci ha rimandato
a Brian Woodbury e alla sua Variety Orchestra, anche se qui ci pare del
tutto assente quella vena agrodolce tipica di Woodbury. Un brano è sembrato
ricordarci Dave Stewart &
Barbara Gaskin del periodo d’oro, mentre altrove rullanti marziali e cori
gonfi sembravano condividere stilemi "orientali" propri di Haco
o di Yuka Honda. Al solo scopo di accrescere la confusione, aggiungeremo
che il brano d’apertura sembra mostrare un soprano con alle spalle l’intera
Penguin Café Orchestra!
Va da
sé che queste vanno tutte intese come affinità riscontrate nell’ascolto,
ché non crediamo certo che questi siano i punti di riferimento dei protagonisti
dell’album! – che ora è giunto il momento di introdurre.
Lavoro
dalla registrazione lunga e complessa, The Universal Thump vede quali figure
centrali due musicisti dal lungo curriculum che diremmo in vista della
quarantina: Greta Gertler e Adam D Gold. La Gertler, che qui compone la
quasi totalità delle musiche e dei testi, e canta e suona (principalmente)
il pianoforte, ha alle spalle una carriera solista (tre album a suo nome)
e di autrice per conto terzi. Gold suona soprattutto la batteria ("schematica",
diremmo per scelta d’insieme), oltre a cantare, scrivere arrangiamenti,
suonare chitarre acustiche ed elettriche, sintetizzatore e percussioni
varie. Gertler e Gold hanno prodotto il lavoro, con il secondo a curare
parte delle registrazioni.
Qui va
detto che – a dispetto di una tenuta complessiva davvero invidiabile per
quanto riguarda la coerenza d’insieme – l’album è un vero trionfo della
"sovraincisione in trasferta": questo infatti il metodo usato per
strumenti quali un bel pianoforte Steinway, tuba, quartetto d’archi, organo,
celesta e altro. Pressoché obbligatorio, quindi, citare i nomi dei tecnici
deputati al missaggio di questa enorme mole di materiale: Noah Simon e Bryce
Goggin, che diremmo discretamente noti. Masterizzazione a cura di Paul Gold.
Abbiamo
ascoltato l’album sotto forma di doppio CD, siamo certi che da qualche
parte esiste un "digital download" e supponiamo esista l’opzione
"doppio vinile". E diremmo che il vinile ci pare l’opzione più
"user-friendly": l’album è infatti articolato in quattro
"Capitoli", con una partizione dei (circa) sessantacinque minuti
in parti quasi uguali. Ma è soprattutto la "progressione" del materiale
che ci è parsa invitare un ascolto attento ma "episodico". Il numero
complessivo dei brani è di diciotto, con quattro brevi strumentali a spezzare
l’andamento dei brani cantati e ad aggiungere ulteriore varietà strumentale.
Melodicamente
fresco e delicato, l’album è un capolavoro di orchestrazione, con i
"pesi" strumentali distribuiti con maestria. L’unico avvertimento
che ci sentiamo di rivolgere al lettore – ma è un classico "eccesso
di prudenza" – è che la voce della Gertler e il suo approccio compositivo
delle linee vocali sembrano privilegiare un ambito ristretto della tavolozza
del possibile, e questo potrebbe forse ingenerare una sensazione di eccessiva
uniformità nell’ascoltatore meno incline a questi climi vocali. Ma è anche
vero che la varietà dei timbri strumentali dovrebbe ampiamente compensare.
Una sessantina
i musicisti coinvolti. A noi conosciuti: Roy Nathanson, sax alto; Noe Venable,
Courtney Kaiser-Sandler e Tanya Donelly, voci; Tony Sherr, chitarra. Nomi
a noi sconosciuti ma che supponiamo noti: Byron Isaacs al contrabbasso,
Jon Dryden a tastiere e arrangiamenti, Sean Sonderegger a clarinetto, clarinetto
basso e sax tenore, J. Walter Hawkes al trombone, Alden Banta al fagotto,
Jonathan Maron al basso elettrico, Rachelle Garniez alla fisarmonica, Pete
Galub alle chitarre, John Ellis a clarinetto, clarinetto basso, sax tenore
e flauto, Matt Stauffer alla tuba, Michael Hearst al theremin. C’è anche
un quartetto d’archi, composto da Yuki Numata, Marisa Kuney, Beth Meyers
e Maria Jeffers.
L’album
si apre con Swimming. Un arpeggio di piano introduce gli archi, e poi una
cantante, un soprano, con l’accompagnamento della… Penguin Café Orchestra:
quartetto d’archi, agile fagotto, clarinetto; il ritornello è accattivante,
il pezzo lieve e arioso. C’è un lungo intermezzo, con pizzicati, contrabbasso
con arco, mano sinistra del piano, coro di bambini. Il tutto riporta al
pezzo iniziale, al ritornello, con trombone e clarinetto basso.
Grasshoppers
è un ¾ cadenzato, pezzo "triste" con quartetto d’archi
in evidenza, voci multiple, fisarmonica, ritornello. Bell’appoggio del
basso elettrico, organo in coda.
Grasshopper’s
Gold suona quasi come un’estrapolazione della linea melodica del ritornello
del pezzo precedente; per archi, raggelata, a firma Adam D Gold.
Honey Beat
vive in un’atmosfera Anni Sessanta, con coretti à la Beach Boys, chitarra
acustica, archi, e un bell’assolo di chitarra elettrica. Ideale chiusura
della prima facciata.
To The
Border (Wild Raspberries) ricorda i bei giorni di Dave Stewart e Barbara
Gaskin. Apertura per quartetto d’archi, poi Rhodes, voce, basso elettrico,
e i clarinetti ad alternarsi a una eterea melodia vocale. Vengono poi in
evidenza il sax tenore e il basso elettrico.
Opening
Night è uno svelto pezzo Anni Sessanta nel senso degli Slapp Happy, con
organo, voci multiple e stratificate, divise per ruoli, e un bel ritornello.
Contrabbasso, tuba, archi, la fisarmonica, il theremin arricchiscono l’insieme,
e c’è anche un assolo di chitarra baritono. Coda per archi, fisarmonica
e theremin.
Linear
Messages ha il piano, la batteria con le spazzole, il contrabbasso. Archi,
fisarmonica, poi flauto e clarinetto. Bello ed efficace l’intermezzo
"tango" per fisarmonica, uccellino e pianoforte. Clarinetto basso
a inserirsi sotto la voce, poi il flauto.
Conversation,
Not Far From The Gowanus Canal è un bell’episodio per clarinetto basso.
The Last
Time vede piano e basso cadenzato, ed è un semi-blues con organo – Carla
Bley? – con bell’apertura di piatti e un breve ma intenso assolo di sax
tenore con uno "sforzato" alla Gary Windo. Chiusura maestosa,
con coro.
La terza
parte si apre con Angular Banjoes: tube multiple più suoni della natura.
Darkened
Sky ha un arpeggio di piano "minimale", voce malinconica, piatti.
Bellissima apertura melodica vocale, con sapiente contrasto di suoni bassi
– contrabbasso, synth, basso elettrico – e una chitarra ariosa. Bella coda,
con chitarra, e percussioni "grosse" – e qui, in opposizione
all’inizio, la coda va ad "avvolgere" la voce.
Ban Melisma
apre con batteria elettronica, chitarra semplice e synth per una melodia
ariosa. Poi batteria con le spazzole, chitarra, basso elettrico, e un assolo
di chitarra "spaziale". Bei cori.
Dwell è
il rifacimento da parte dell’autrice di un pezzo di successo. Voce e quartetto
d’archi, contrabbasso e ritornello "vincente", un valzerone con
bella chiusa (anche di capitolo).
Teacher
è una ballad pianistica (i Procol Harum!) con bei cori e interessanti modulazioni
che poi va verso il Gospel (!); coda con chitarre "slide".
Flora è
una ballad semi-allegra, ritmata, con il glockenspiel a fornire un tocco
aereo, e sintetizzatore, chitarra elettrica e rullante. C’è qui un’ariosità
degna della Laura Nyro dei momenti più lievi – ma con un assolo di trombone!
Beitass
è un breve intermezzo percussivo, vario, un ottimo stacco.
Snowbird
è il picco dell’album. Limpida melodia vocale, assolo di basso elettrico,
poi un rullante marziale introduce una lunga, maestosa sezione per cori
sovrapposti. Theremin, tuba, fiati, sax, piatti.
Only An
Ocean è una chiusa lieve e scherzosa, un bel ¾ da coro nell’aia
con rullante, fisarmonica, tuba, violino e coro maschile più "il canto
delle sirene" (ovvio, dato che c’è solo da attraversare un oceano!).
Beppe Colli
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net
| Mar. 5, 2013