The Sands
Beast To Bone

(self-released)

Gran bella sorpresa, un album di canzoni ricche di fantasia e colori contraddistinte da una studiata accessibilità che un tempo non avremmo esitato a definire "commerciale" e – fatto sempre lodevole, ma che lo è ancor di più quando si tratta di un album autofinanziato – sapientemente valorizzate da una registrazione e da un suono d’insieme straordinariamente musicali. Ed è proprio quest’ultima caratteristica che ci preme sottolineare.

In tempi di "musica portatile" e di "personal stereo" discutere il suono di un album rischia di apparire un’oziosa preoccupazione da fissati di costose apparecchiature hi-fi. Eppure ci è spesso accaduto, nel corso degli ultimi anni, di trovarci a gradire un album a dispetto del suo suono, un suono che sembrava remare contro quello che la musica intendeva trasmetterci e che ci imponeva la fatica di eliminare mentalmente compressione in eccesso e riduzione della dinamica.

Beast To Bone è invece un album dove la musica "respira", dove una strumentazione ricca e varia dal suono "naturale" e dinamico – chitarre acustiche ed elettriche, archi, voci, pianoforte, effetti, i piatti e i legni della batteria – invita l’ascoltatore ad alzare la manopola del volume.

Seconda sorpresa, l’album vede quale coprotagonista – è lei che ha scritto tutte le musiche, oltre a suonare pianoforte e violoncello – una delle nostre beniamine: Peggy Lee, che il lettore ricorderà senz’altro quale leader della formazione di "jazz cameristico" (?) che porta il suo nome nonché quale componente di svariati ensemble, il più noto dei quali diremmo il Gravitas Quartet di Wayne Horvitz.

Per realizzare quest’album, altamente policromo dal punto di vista timbrico, Peggy Lee ha raccolto intorno a sé un discreto numero di bravi musicisti dal buon curriculum che gravitano intorno alla scena di Vancouver, e visto che è di canzoni che qui si tratta va immediatamente citata Julie McGeer, la cantante che è anche autrice di tutti i testi.

Dobbiamo ammettere che trovarci di fronte quest’album ci ha indotto a un piccolo sorriso. Il perché è preso detto. Quando durante l’ascolto del bell’album di canzoni di Alicia Hansen intitolato Fractography (2011) ci accorgemmo che Peggy Lee faceva parte dell’ensemble, ci venne naturale chiederci se comporre un album di canzoni potesse essere per lei interessante. Ma la pubblicazione di Invitation (2012), album che tra l’altro diremmo essere il migliore finora inciso dalla Peggy Lee Band, ci fece dimenticare il tutto.

Invitation era stato registrato da Eric Mosher nello studio Warehouse, a Vancouver, e la scelta viene confermata per Beast To Bone. Registrazioni ulteriori e montaggio sono opera di Erik Nielsen negli studi Afterlife. L’album è stato poi missato e masterizzato da Jesse Zubot nello studio denominato Britannia Beach Bunker. Ed è proprio Zubot – che ha prodotto l’album, oltre a suonare qua e là il violino – ad apparire a chi scrive come il vero coautore della musica che ascoltiamo su Beast To Bone: immersa in ambienti sempre convincenti, valorizzata da disposizioni spaziali ingegnose, arricchita nei timbri.

Facile da apprezzare, la musica propriamente detta non è molto facile da classificare. Potremmo tentare di cavarcela dicendo che crediamo che l’album possa essere apprezzato sia da chi vede Joni Mitchell e Neil Young come modelli insuperabili sia da coloro i quali tifano per l’indie rock melodico e con archi. Non è a ogni modo una musica "abrasiva", anche se le combinazioni timbriche e la struttura delle canzoni – meno lineare di quello che la vocalità naturale della McGeer farebbe sembrare – sono portatrici di una loro particolare forma di asperità. Chi ha familiarità con gli album della Peggy Lee Band non faticherà a ritrovare qui gli impasti di chitarre, le parti liriche di tromba, il gusto per i colori e quella "complessità nascosta" caratteristica della scrittura della leader.

L’elenco dei musicisti coinvolti: oltre ovviamente alla Lee e alla McGeer, troviamo Paul Rigby alle chitarre acustiche ed elettriche, Cole Schmidt all’elettrica, Barry Mirochnik alla batteria e ai cori, J.P. Carter alla tromba, spesso effettata, Jeremy Berkman al trombone, Jesse Zubot al violino e Debra-Jean Creelman ai cori.

Dieci brani per una durata (perfetta) da LP: trentanove minuti.

Un’occhiata al dettaglio.

Be More apre l’album: le chitarre a scandire gli accordi, la voce, la tromba sordinata. Entra la ritmica, voce sui toni medi, pianoforte di sottofondo, in fondo una "jazz ballad" che funge da introduzione-invito. Buona voce femminile di sottofondo. Il brano chiude con il ritornello e la tromba. A nostro avviso questo è il brano meno interessante dell’album, forse posto in apertura proprio perché più "accessibile". Mai come in questi casi il responso è soggettivo.

Fall apre con "stridio" di violino, violoncello, chitarra acustica, la voce su un tappeto di archi, la melodia spezzata; la seconda volta entra il pianoforte, ottimi piatti, e una voce maschile. Si apre qui una bellissima sezione "B" che sulle prime sembra un ritornello o un inciso, con bel contrappunto vocale, ottimo accompagnamento di pianoforte; il tutto è ciclico. Dopo una cesura, si torna alla melodia iniziale, stavolta con archi, pianoforte, batteria.

Rise è una "quasi giga", con molto dell’aria del ballo "folk". Batteria, chitarra acustica, elettrica. Entra il pianoforte, bei contrappunti vocali, poi un assolo di chitarra elettrica con un’altra chitarra in sottofondo, impasto molto simile a certi arrangiamenti degli album di Peggy Lee.

City Is Gone ha un bel coro d’apertura. Si sviluppa come una ballad melodica, pianoforte, ritmica, rullante, con il motivo che si fa più serrato. Cambio di tempo, piano, acustica in arpeggio, elettrica. Chiude con una lunga coda strumentale, chitarra, archi e piatti.

Against The Drift è una ballad "enfatica": pianoforte, ritmica, tromba sordinata. Bella parte di pianoforte suonata sulla porzione alta della tastiera sotto l’assolo di tromba. Bel sottofondo elettrico. Assolo finale di tromba e coro a chiudere.

Devil ha un tempo dispari, la tromba effettata, il pianoforte ritmico, con gran bella coppia cassa-rullante. Un quasi-ritornello a tre voci, molto efficace, e un bell’assolo di tromba.

Jealous Guy è proprio quella di John Lennon. Apre con una bella frase melodica lenta, un unisono tromba-pianoforte un po’ alla Bacharach, con sottofondo di piatti. Attacco di piano, voce, il pezzo è trattato come una "jazz ballad". Batteria con le spazzole sul rullante, bei piatti, tromba sordinata, poi in assolo. Sulle prime ci siamo interrogati sulla presenza di questo brano, che poi ci siamo ritrovati ad apprezzare nella sua funzione di "cambio di passo".

Hold On apre con tromba e trombone, tutti, batteria, pianoforte. Bella apertura melodica nel ritornello, solare. Buon apporto dei fiati. Unica critica in tutto l’album, qui il rullante ci è parso troppo "grosso" per il pezzo.

Magnolia ha una bella apertura con figura ritmica della batteria dal bellissimo timbro dei tamburi. Andamento vocale melodico, quasi una bossa rallentata. Pianoforte, chitarra acustica, cori, una bella apertura vocale nel ritornello. Appropriati intarsi dei fiati, e – come altrove sull’album – la presenza sotterranea del violoncello. Chiusa in crescendo.

Trail Of Tangles apre con un recitato vocale su sfondo di archi, fiati, soffi e stridii. Stacco, una bella melodia suonata dal pianoforte, e voce solista con sottofondo "astratto". Qui lo svolgimento ricorda molto le cose strumentali di Peggy Lee, e c’è anche il violoncello.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2014

CloudsandClocks.net | Nov. 1, 2014