The
Aristocrats
Culture Clash (CD + DVD-V)
(Boing!)
"In chiusura, dobbiamo
confessare di fare un po’ il tifo (ma, diremmo, senza per questo rinunciare
all’obiettività critica) per questo trio, buon esempio di musicisti ‘ancora
giovani ma non più giovanissimi’ che cercano di cavarsela in uno scenario dove
il saper suonare è qualcosa che può giocare a proprio sfavore e che salgono sul
palco vestiti un po’ come capita."
Così, all’incirca un anno fa, si
concludeva la nostra recensione del DVD-V degli Aristocrats intitolato Boing, We’ll Do It Live!, buona testimonianza concertistica seguita al
bell’album di esordio apparso l’anno precedente e alla serie di esibizioni che
erano immancabilmente seguite. Non vorremmo però che il tono misurato della
nostra caratterizzazione inducesse il lettore a immaginare musicisti con le
pezze al sedere, ché anzi è di un trio di nomi di prima grandezza che qui si
dice.
In tempi recenti protagonisti di
servizi di copertina di riviste quali Bass Player, Guitar Player e Modern Drummer, i musicisti che (in ordine alfabetico) rispondono
ai nomi di Bryan Beller, Guthrie Govan e Marco Minnemann vantano un curriculum di tutto rispetto. Limitandoci al passato prossimo,
ricorderemo la partecipazione di Govan e Minnemann all’acclamato album "neo-prog"
di Steven Wilson intitolato The Raven That Refused To Sing And Other Stories e al tour
a esso collegato. Unitamente al chitarrista e tastierista Mike Keneally, Beller e Minnemann sono stati l’ossatura del lunghissimo tour
mondiale del chitarrista statunitense Joe Satriani, in pieno svolgimento mentre scriviamo. (Com’è
noto, i legami tra Beller e Keneally si perdono nel tempo, Beller essendo il braccio
destro di Keneally da circa vent’anni. Non
dimentichiamo la partecipazione di entrambi a quel progetto
"comic-metal" di enorme successo che risponde al nome di Dethklok.)
Dopo l’acclamato esordio, i tre erano
attesi alla difficile prova dell’immancabile seguito, inciso – con
coordinazione di impegni pregressi che immaginiamo decisamente problematica –
durante una settimana del gennaio di quest’anno. Pubblicato il sedici luglio,
Culture Clash ha fatto immediatamente il suo ingresso
al #8 della classifica Contemporary Jazz e al #16
della classifica Jazz Albums della rivista
statunitense Billboard. Ovviamente nulla sappiamo delle imperscrutabili logiche
classificatorie che portano a includere quello che è senza dubbio alcuno un
album di rock alla voce jazz. E non sappiamo cosa chi ha acquistato l’album avrà
pensato dei decisi mutamenti che hanno fatto seguito al precedente lavoro.
Sappiamo però cosa ne pensano i musicisti del trio, che considerano Culture Clash un netto progresso. E i recensori di tutto il mondo,
che ne hanno grandemente lodato gli immancabili virtuosismi.
A tutti questi pareri ci avrebbe
fatto piacere aggiungere il nostro. Sennonché chi ci ha portato il CD ha
impiegato ben trentadue giorni per attraversare a nuoto l’Atlantico. Il che ha
creato in noi pericolosissime aspettative, dato il clamore sviluppatosi nel
frattempo. Ed è quindi con grande stupore che dopo i primi ascolti abbiamo
deciso che l’album non ci piaceva per niente. E mai come stavolta abbiamo
ringraziato il fatto di poterci permettere di approfondire il nostro giudizio
senza essere pressati da scadenze di qualsivoglia natura imposte dall’esterno.
Certo è che nulla avrebbe potuto farci sospettare una riformulazione tanto
drastica – e, a suo modo, coraggiosa – delle coordinate sonore del trio: un
elemento che stranamente nessuna delle recensioni da noi lette – solo una mezza
dozzina, non certo duecento – è sembrato cogliere.
Che gli Aristocrats suonino musica rock è apparso a chi scrive immediatamente evidente. Per
maggiore precisione, potremmo parlare di "un gruppo rock che suona
complessa musica strumentale". E’ ovvio che elementi fusion fanno parte
della tavolozza del trio, al pari di tratti prog o
metal. Ed è parimenti evidente che da una prospettiva europea l’etichetta
"rock" include stilemi che in una prospettiva statunitense risultano
assenti – per rendere chiaro il discorso potremmo qui fare riferimento a nomi
quali Mahavishnu Orchestra, Soft Machine, King
Crimson, Van Der Graaf Generator e Henry Cow.
Il suono di The Aristocrats ci era piaciuto non poco: quadro ampio, soffitto alto, la chitarra di Govan posizionata a sinistra con il basso sulla destra e la
batteria ampia nello stereo ma tendente a destra. Il missaggio metteva la
chitarra "fuori", ed era logico, Govan essendo il solista più brillante del trio, con una ricchezza dell’articolazione
della mano destra che era logico evidenziare.
Culture Clash vede il trio riprogettare il suono: la chitarra è tendenzialmente a destra,
soprattutto nelle parti in assolo dove il suono è più saturo, con le parti
pulite mantenute per lo più a sinistra (è ovvio che sono possibili
controesempi, ma qui si intende caratterizzare l’album tramite ciò che è
tipico). Il basso e la batteria, dal suono tonante e massiccio, sono stavolta
decisamente a sinistra. Senza impelagarci in discussioni di psico-acustica,
ricordiamo che – mancini esclusi – è abituale disporre gli elementi
"importanti" a destra (anche sullo schermo), da cui l’abitudine a
mettere lì gli assolo "rock". Questa disposizione, unita alla nostra
propensione culturale a seguire le melodie, consente di tenere la chitarra a un
volume inferiore. Ma la riformulazione (ipersemplificando:
dagli Steely Dan ai Led Zeppelin) è drastica, e non a
tutti risulterà gradita. Inoltre, mentre prima il suono si sviluppava molto in
altezza, qui ascoltiamo quello che pare il corrispondente sonoro di quei video
concertistici in cui il gruppo è stretto tra due bande nere che appaiono sopra
e sotto.
Il cambiamento di cui s’è detto mette
maggiormente in mostra il basso e la batteria, e la scelta non è priva di
rischi. Se il basso di Beller è nitido e tutto
sommato contenuto, Minnemann – un batterista che
sotto la giusta direzione, Wilson o Keneally, è
perfettamente in grado di suonare "il giusto" – oscilla a volte tra
l’esagerazione e la caricatura, cosa non sorprendente se teniamo in debito
conto che certe figurazioni a doppia cassa – pensiamo a Billy Cobham e a Simon Phillips – hanno ormai quarant’anni. Il
problema del musicista fusion (e qui per una meditazione accurata su questi
problemi rimandiamo all’autobiografia di Bill Bruford)
è che spesso sembra portare addosso la pubblicità per se stesso, a mo’ di
uomo-sandwich, cosa non priva di logica considerato che chi studia uno
strumento spesso tende a dare molta importanza proprio a questi fattori
"onanistici". Il che spiega perfettamente perché l’appeal di certe
musiche è estremamente limitato.
Diciamo comunque di una certa
uniformità di suono che a volte ci è parsa non idonea a valorizzare la musica
eseguita. E anche il momento "metal" di Beller,
Living The Dream, non si stacca da quanto lo ha
preceduto nella misura necessaria a valorizzarlo a sufficienza.
I tre hanno messo in campo delle
composizioni di una certa densità (la difficoltà esecutiva la diamo per scontata).
A nostro parere l’album di esordio aveva vette più alte, ma anche dei punti
decisamente più bassi, e a ben vedere il motivo per cui esso ci appare "di
durata ottimale" è che certi pezzi li saltiamo sempre. Culture Clash è più omogeneo per qualità, e anche i pezzi di Minnemann ci sono sembrati migliori, anche se diremmo che
il modo i cui il batterista combina le sezioni, che non potrebbe definirsi
certo arbitrario, manca di quel grado di "necessità" necessario a
convincerci che un brano può solo essere così e non altrimenti. Va detto che
quasi tutti i pezzi ci sono parsi più lunghi di un paio di minuti rispetto
all’ottimale, come se un bisogno formale nella costruzione rendesse i musicisti
poco attenti alla monotonia derivante dalle lungaggini delle ripetizioni.
Invitando il lettore a un ascolto
diretto, dobbiamo ammettere che in alcuni momenti delle interviste contenute
nel DVD-V che accompagna l’album nella Deluxe Edition il trio ci è sembrato a
un passo dal prendere troppo sul serio il proprio materiale pubblicitario, cosa
pericolosissima per ogni gruppo che si muove in un ambiente tendenzialmente
autoreferenziale. Da bordo campo segnaliamo il pericolo.
Una veloce occhiata ai pezzi.
Apre Dance Of The Aristocrats,
già nota per essere stata inclusa nell’album dal vivo e qui molto aderente al
demo del suo compositore Minnemann: batteria,
percussioni, basso con wha-wha, ritmica cadenzata,
tema. Se la secchezza della versione dal vivo in trio era la benvenuta, qui lo
svolgimento risulta troppo lungo, con uno spostamento – per chi scrive
preoccupante – da Jeff Beck a Joe Satriani.
Il tutto sa un po’ di plastica, specialmente nella seconda parte dell’assolo,
"virtuosistico".
Culture Clash, di Govan, ha un inizio serrato, giro chitarristico più basso.
Bella apertura melodica, giro di basso jazzato, la composizione è frammentata
ma logica. Parti melodiche di basso, armonici, bella uscita solista. C’è un
"intermezzo" di batteria esagerato, poi un bell’interludio jazz
pulito, con basso "walking" e batteria
essenziale. Cesura, chitarra distorta, basso, chiusa.
Louisville Stomp, di Beller, è buona. Apertura di charleston, poi un tema che
nel video citato Beller definisce "Setzer on crack", con chitarra Gretch semiacustica e basso "walking". Assolo di
chitarra pulito, ritmica "walking", buon
solo di basso. Nascosta da qualche parte, la partitura per una sezione fiati
"swing" anni quaranta dimostra che a Berklee Beller non saltava le classi di arrangiamento. Però
dobbiamo ammettere che di questo brano ammiriamo l’ingegno, senza essere
conquistati.
Ohhhh Noooo,
di Minnemann, ha un’apertura alla Led Zeppelin, con
riff cadenzato, accordi, e un tema "balbettante" a metà strada tra
Jimmy Page e Tommy Bolin. Una ripetizione quasi frippiana, con chitarra "piccola" ed echizzata, un momento "prog"
che non esclude la Mahavishnu Orchestra con Narada Michael Walden alla
batteria. A 3′ 24" ca. il momento migliore, con
un assolo di basso wha e un coro di feedback (?)
chitarristico, ma c’è troppa batteria. Ritorna il tema "balbettante"-funky, si ritorna ai Led Zeppelin, coda
con bell’uscita solista in stile John McLaughlin/Jimmy
Page.
Gaping Head Wound è un tema di Govan composito ma fluido, swingante anche nei momenti più cadenzati. Begli unisono a tre. Govan offre a Beller un bel
solo pulito di sapore fusion. Uscita solista di sapore zappiano da parte di Govan, con Minnemann che si diverte a fare Vinnie Colaiuta. Ritorno al tema cadenzato.
Desert Tornado ha un’apertura
batteristica "funambolica" tipica del suo compositore. Accordi con
leva e riverbero a formare una melodia. Stranamente a 1′ 35" spunta
un’aria chitarristica che ci ha ricordato da vicino il tema principale di Love Terror Adrenaline dall’album solista di Beller intitolato Thanks In Advance. E’ un momento
"metal" che muore per sovraccarico. Coda melodica, finale – "cut" – che
vorrebbe essere "a sorpresa".
Cocktail Umbrellas, di Beller, ha un attacco "swingante",
una bella sequenza di accordi e un tema "alla John Scofield".
Di nuovo una "brass section"
"nascosta" nella composizione. Festoso assolo di basso, bel solo di
chitarra su un rullante cadenzato, il basso che fa la tuba e che poi si
distende "swing". Chiude il tema "Scofield".
Living The Dream ha un attacco
tonante, metal e "doom", e poi una strana
melodia "country & western/cartoon". Uscita solista di Govan in stile "blues-psichedelico". Frase
"psichedelica" del basso, con "sitar" a destra. Finale
metal furibondo, tema. Batteria esagerata, eccessiva, retorica.
And Finally, di Govan, è gioiosa e danzante, chiusa perfetta per aprire le
finestre e far entrare una boccata d’aria pulita. Chitarre dal suono
"aperto", con bella disposizione nello spettro stereo, il tutto a
ricordare i climi caratteristici dell’album precedente (e infatti le chitarre
sono state registrate in uno studio diverso, in U. K.). Belle parti di basso,
batteria essenziale, bilanciamento tra gli strumenti armonico. Ci sono echi di Steely Dan, in specie nella sezione "inciso", e
(diremmo) qualche traccia delle parti di basso di Chuck Rainey.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net
| Sept. 7, 2013