The
Necks
Centro
Zo, Catania
Dec. 5,
2002
Il giorno
in cui abbiamo trovato Hanging Gardens – il CD dei The Necks ristampato
dalla ReR – nella nostra buca delle lettere il nome del gruppo non ci
ha detto nulla. Anzi, ci è parso proprio di non averlo mai sentito
prima di allora. Ascoltare il CD è stata un’esperienza fonte
di perplessità, eccitante come stare a guardare la vernice asciugarsi.
La musica sembrava procedere (evolversi?) in modo deliberato ma terribilmente
lento mediante un processo di accumulazione/sostituzione i cui risultati
apparivano tutt’altro che interessanti e decisamente non coinvolgenti.
Abbiamo deciso di fare qualche telefonata.
Nessuno
fra quelli il cui giudizio teniamo in considerazione aveva mai sentito
parlare del gruppo, ma ci fu detto che un conoscente di un amico, appassionato
di musica minimalista e new age, li amava. E anche se teniamo sempre
presente il monito di non giudicare un libro dai suoi lettori la cosa
quadrava. Certo, il gruppo era bravo: sia il bassista (Lloyd Swanton)
che il tastierista (Chris Abrahams) mostravano di possedere un maturo
senso dell’economia (e grandi orecchie); il batterista (Tony Buck) era
decisamente eccellente, i suoi pattern sull’hi-hat a spingere durante
la prima parte del lungo brano (un’ora) con forza e finezza. Ma il tutto
ci sembrava un "walk on the mild side", una curiosa mistura
di una strana mutazione del minimalismo mista a climi trance/drum&bass
che avremmo trovato perfettamente appropriati in un club ma che ci risultavano
fuori posto in casa.
Diamo un’occhiata
al foglio della rassegna stampa. Una citazione da The Guardian: "Un’esperienza
post-jazz, post-rock, post-tutto che ha pochi paralleli o rivali."
Perfetto! (Con amici così…) Un’altra da The Wire: "L’ascoltatore
può entrare e uscire dal disco come in uno stato onirico."
E questo è esattamente il modo in cui chi scrive non ascolta
musica. Forse se fumassimo un joint… Ma se fumassimo un joint (un’eventualità
estremamente remota) sarebbe Hanging Gardens il disco che sceglieremmo
di ascoltare? Assolutamente no. Ed è stato in quel momento che
abbiamo ricordato di avere già sentito parlare dei Necks su The
Wire – ed era stata proprio la favorevole descrizione della musica del
gruppo a farci decidere di tenercene ben lontani.
In un certo
senso la faccenda ci ricordava quanto accaduto con il CD di Nils Petter
Molvær di due anni fa: un album del quale non pochi avevano detto
mirabilia (Solid Ether) e che a noi era parso non molto più di
una combinazione di grana grossa tra un Miles di seconda mano ed estremamente
diluito e dei ritmi pseudo-moderni decisamente qualunque. Ovviamente
è sempre possibile dire di una differenza di gusti. Ma i gusti
non sono entità assolute, immutabili e indipendenti. Riflettere
sui gusti può forse farci imparare qualcosa sulle nostre preferenze,
abitudini e pregiudizi. E così, non appena ci è giunta
notizia che i Necks avrebbero suonato a due passi da casa (prezzo: €7)
abbiamo comprato un biglietto.
Dal vivo
il gruppo è decisamente interessante. Nel concerto cui abbiamo
assistito il pianoforte è stato il motore che faceva andare la
musica: arpeggi veloci e regolari eseguiti nella parte alta della tastiera.
La batteria e il contrabbasso hanno spesso impiegato il contrappunto,
scambiandosi poi i ruoli a fine concerto, quando il bassista ha colpito
la cassa dello strumento e il batterista ha suonato frasi melodiche
su pelli e piatti. E’ evidente che il gruppo ha alle spalle un lungo
lavoro di affinamento di tecnica e di identità – l’interscambio
tra i musicisti visto in concerto non è certo un risultato cui
si perviene per caso. Gli spettatori (un’ottantina?) sembravano contenti,
in modo non animato. Tre giorni dopo abbiamo riascoltato il CD.
Oggi il
minimalismo ha circa quarant’anni. Se non ricordiamo male la prima cosa
che abbiamo ascoltato in quell’idioma è stato A Rainbow In A
Curved Air di Terry Riley. Nei primi anni settanta era impossibile non
cogliere la sua influenza su molta musica rock. Quando acquistammo Outside
The Dream Syndicate di Tony Conrad (pubblicato dalla Caroline, la collana
a medio prezzo della Virgin, nel 1973) non avevamo alcuna idea di chi
fosse – il fatto che membri dei Faust suonassero sul disco era stato
il fattore che ci aveva spinto all’acquisto – ma la musica non ci sembrò
affatto sconvolgentemente nuova. Né lo era il detto "La
ripetizione è una forma di cambiamento". (Dato che "minimalismo"
è un’etichetta oggi associata a certi musicisti – e alle loro
specifiche procedure – forse l’espressione "ripetizione come elemento
di costruzione" sarà più appropriata.) E ovviamente
a metà degli anni settanta i Can e i Neu! avevano già
portato al proscenio la ripetizione nella sezione ritmica (curiosamente,
c’è un momento sull’album dei Necks – a circa 40′ – che ricorda
molto strettamente Vernal Equinox dei Can, dall’album Landed del 1975).
Quando appare
qualcosa di nuovo – una deviazione della norma – esso è interessante
proprio in quanto ci offre un nuovo approccio. Ma quando diventa esso
stesso norma – e in molti sensi (basta ascoltare la radio, la musica
che si suona nei club – per non parlare dei rave) la ripetizione è
una nuova norma (non la nuova norma, dato che oggi ne esistono diverse)
– è quel che si realizza con essa che differenzia le cose di
spessore da quelle che non lo sono. Un fatto che ci ha spesso colpito
è che i lavori di alcuni musicisti che hanno usato la ripetizione
come elemento di costruzione – pensiamo a Anthony Braxton, Roscoe Mitchell
e Anthony Davis – sono assolutamente ignorati da molte delle stesse
persone che prediligono il "minimalismo" e la "ripetizione".
Forse meno curioso il fatto che l’uso più diffuso della ripetizione
vista dal lato dell’ascolto (ma ricordiamo che questo non ci dice nulla
sulla qualità intrinseca della musica) è molto simile
a quello di una "carta da parati auditiva".
Due anni
fa abbiamo avuto modo di vedere la Note Factory – l’ampia formazione
di Roscoe Mitchell – al festival di Roccella Ionica e il lungo brano
ripetitivo e a sviluppo arcuato che è stato eseguito in quell’occasione
suonava nuovo anche perché si assumeva una buona dose di rischi.
L’approccio dei Necks alla ripetizione se ne assume davvero pochi. Questo
fatto rende la loro musica di minor valore? E’ una questione sulla quale
ogni ascoltatore dovrà decidere per sé. Da parte nostra,
giunti a questo punto delle cose, preferiremmo ascoltare una canzone
con due incisi differenti e armonicamente intricati.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2002
CloudsandClocks.net
| Dec. 9, 2002