Steely
Dan
Everything
Must Go
(Reprise)
Come gli
stessi Walter Becker e Donald Fagen non hanno mancato di osservare durante
una conversazione che è parte della cover story pubblicata sul numero
di giugno della rivista statunitense Down Beat, l’espressione "il secondo
album in ventidue anni" è decisamente priva della risonanza di
"il primo album in vent’anni". E puntualmente, difatti, l’attenzione
che i media hanno voluto dedicare al recente Everything Must Go non è
che una frazione di quella attribuita al precedente Two Against Nature: album
ampiamente (e meritatamente) acclamato che ha conquistato quattro Grammy,
le cui vendite, in termini industriali, sono state "rispettabili"
ma non certo "clamorose".
Il che
è un vero peccato, dato che Everything Must Go si situa quanto meno
allo stesso livello del suo predecessore, risultandogli semmai superiore sotto
un paio di aspetti, non ultimo quello tecnico. Gli album degli Steely Dan
erano sempre stati contraddistinti da un’estrema nitidezza e da un accuratissimo
lavoro sul suono, ma il digitale di Two Against Nature era sembrato a tratti
remare contro il godimento del materiale. La qual cosa aveva fornito ulteriore
combustibile all’eterna disputa "analogico contro digitale", anche
se osservatori indubbiamente qualificati avevano sostenuto che il problema
era semmai da addebitare a una versione decisamente poco evoluta del digitale,
e non al digitale in sé. Everything Must Go gode invece di una rotondità
tipicamente "analogica".
Fattore
più importante, le basi ritmiche del disco del ritorno presentavano
un aspetto meccanico/quantizzato che a non pochi era sembrato inutilmente
rigido e inespressivo – cosa oltremodo paradossale per un gruppo che aveva
sempre usato i migliori strumentisti disponibili nel modo più intelligente:
tenendoli stretti ma lasciando loro la briglia sciolta, se il caso. E’ vero
che già a partire da Gaucho (1980), ultimo album inciso dalla ditta
prima della ventennale separazione, il duo era sembrato indirizzarsi verso
una secchezza ritmica molto "sequenced" – si vedano Hey Nineteen
o Time Out Of Mind – e che la cosa aveva trovato ulteriore sviluppo negli
album incisi separatamente dai due: The Nightfly (1982) e Kamakiriad (1993)
per Fagen, 11 Tracks Of Whack (1994) per Becker. Ma se in quest’ultimo lavoro
l’aspetto "meccanico" sembrava ben sposarsi al materiale – decisamente
più chitarristico, e armonicamente meno complesso di quello del suo
partner – i risultati su Two Against Nature lasciavano un po’ a desiderare,
anche se il motivo della scelta (fissare delle basi "circolari"
su cui lavorare) era fin troppo evidente.
Va da
sé che le coordinate stilistiche erano apparse sostanzialmente immutate
nelle loro linee di base – ma ci saremmo aspettato altrimenti? Il suono che
veniva riproposto – svolgimenti melodici tanto naturali da apparire semplici,
intricato movimento armonico posto in essere con tale sapienza da essere notato
sol che lo si voglia (e che quindi non costituisce ostacolo alla "immediatezza"
della fruizione), quei testi non di rado criptici ma di bella musicalità
– è frutto di caratteristiche peculiari che il duo ha deliberatamente
scelto di coltivare.
Un osservatore
imparziale non poteva fare a meno di osservare che il disco solista di Becker
aveva goduto di pochissime recensioni percettive dei suoi (non pochi) meriti
– chi scrive ebbe modo di acquistarlo a poco prezzo, "usato come nuovo",
non molto tempo dopo la pubblicazione. Leggendaria la risposta del pubblico
che durante il tour del ’93/’94 si concedeva una pausa "rinfresco &
bagno" durante l’unica canzone di Becker.
Ed è
anche vero che i due, nelle interviste fatte a sostegno di Two Against Nature,
erano sembrati fin troppo ansiosi di spiegare il senso dei brani, facendo
talvolta rimpiangere quell’eccesso di cripticità dei tempi andati.
Tanto più che i nuovi brani risultavano decisamente più "leggibili"
della maggior parte della vecchia produzione.
E d’altra
parte – armonie complesse, melodie intricate, tecnica strumentale superba:
cosa di più "à la mode" al giorno d’oggi? (E’ difficile
scacciare l’impressione che Fagen si riferisca alla propria musica quando
in Green Book, sul nuovo album, canta "(…) I love the music/Anachronistic
but nice".)
Everything
Must Go riconferma la secchezza ritmica dell’album precedente – sono basi
dove una rullata di batteria va senz’altro classificata alla voce "grandi
notizie" – ma il fatto che il nucleo del gruppo abbia inciso in contemporanea
(Walter Becker si occupa sempre delle parti di basso) elimina quella sgradevole
sensazione di meccanico di cui s’è già detto. La voce di Fagen
ovviamente non è più quella dei vecchi tempi – e certo manca
lo sprezzante e ironico veleno che caratterizzava non poche delle vecchie
interpretazioni – ma non si può non ammirare la decisione di non ricorrere
a quei sistemi software di aggiustamento che sono oggi espediente tanto diffuso
da passare ormai inosservato. Né le melodie sono state semplificate.
Vengono
ovviamente confermate vecchie e originalissime caratteristiche quali cantare
"in carattere" e accoppiare musiche scorrevoli a testi tesissimi,
che se vent’anni or sono rendevano le cose di difficile percezione oggi non
verranno nemmeno avvertite (il tempo non passa solo per i musicisti, ma anche
per il pubblico, mediamente inteso; nei momenti di maggiore sconforto non
possiamo fare a meno di chiederci se una musica come questa abbia oggi – anche
solo potenzialmente – un pubblico). Decisamente perfetto l’uso dei cori femminili,
con bella varietà di identità, timbrica e approccio. Vengono
riconfermati gli assolo di chitarra dichiaratamente bluesy di Walter Becker,
così lontani dalle scale be-bop dei Larry Carlton di un tempo, e l’uso
sapiente e sofisticato dei fiati in sottofondo o in assolo – un sax baritono,
un tenore – cosa oggi decisamente poco usuale. Bella anche la resa timbrica
– e massima la riconoscibilità – di tastiere quali clavinet, organi,
piani elettrici Wurlitzer e Rhodes, mentre Fagen si produce anche in un paio
di pungenti assolo al sintetizzatore.
Molto
è già stato detto sull’aria da post 11/9 che aleggia sull’album,
che si apre e si chiude con due brani caratterizzati da un evidente senso
di "chiusura". Ma non è certo necessario far ricorso a simili
chiavi interpretative per rendere la cifra stilistica dell’album, comunque
caratterizzato da senso di perdita e da amari bilanci – vedi l’iniziale (e
decisamente comunicativa) The Last Mall, l’apertamente malinconica (delicata,
ricca di sfumature) Things I Miss The Most, l’apparentemente spensierata (e
contagiosissima) Blues Beach.
La parte
centrale dell’album è sicuramente quella più insolita e stimolante.
Godwhacker presenta un’atmosfera tesa e opprimente di grande e sinistro (diabolico?)
fascino. Slang Of Ages è caratterizzata da un’interpretazione vocale
fintamente buttata via di Becker, per la prima volta al canto su un disco
del gruppo – illustrare qui il senso del voluto e deciso contrasto tra la
strofe e quel ritornello così arioso vorrebbe dire svilirlo. Green
Book (sesso virtuale?) è immersa in un’atmosfera torbida.
Si ritorna
agli Steely Dan più soliti con Pixeleen, forse il brano più
classico dell’album, la spigliata Lunch With Gina e la bella Everything Must
Go.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| June 24, 2003