Il suono della
musica,
nel 2009 o giù di lì
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di Beppe Colli
July 27, 2009
Felici possessori del
nuovo singolo dei Jethro Tull, The Witch’s Promise, notammo subito che quella
canzone immetteva nuovi sapori nel sound complessivo del gruppo, su tutti
piano e Mellotron. Ci stupì non poco sentire uno strano suono – qualcosa
come "squìsc" – ripetersi più volte durante l’intermezzo di flauti
e chitarre acustiche, prima che il maestoso ingresso del Mellotron introducesse
l’inciso (il
"bridge"). Ci interrogammo per mesi, finché un amico che aveva
intrapreso lo studio della chitarra confermò i nostri sospetti: quel suono
era effettivamente prodotto dallo sfregare dei polpastrelli della mano sinistra
sulle corde nuove della chitarra acustica, "quelle rigate". Ma
allora non sarebbe stato meglio registrare usando corde meno nuove? Qui il
nostro amico ci parlò di cose che riguardavano la brillantezza e i microfoni,
tirò in ballo il talco, ma perdemmo il filo. Però nel frattempo ci eravamo
affezionati a quegli "squìsc" che ormai consideravamo a tutti gli
effetti parte integrante della musica.
E così, quando un paio d’anni dopo ci capitò di ascoltare
Living In The Past, la nuova raccolta (un doppio LP!) di singoli, inediti
e rarità del gruppo, ci accorgemmo subito che mancava lo "squìsc".
Il fatto ci risultò assolutamente inspiegabile: il pezzo era lo stesso! Ricevemmo
una strana impressione anche da Driving Song, il cui andamento appropriatamente
incalzante ci appariva ora più nitido ma anche più "educato".
Ovviamente non sapevamo nulla di rimissaggi, e dubitiamo che
avremmo compreso le implicazioni del sostituire una versione stereo a una
mono. Però – sebbene il nostro giradischi di allora ci appaia retrospettivamente
più simile a un’arma che a uno strumento atto a riprodurre la musica – notammo
quei fatti. Non saremmo stati in grado di spiegare il perché (nelle due accezioni:
perché quei pezzi suonassero tanto diversi e perché la decisione alla base
di quei risultati fosse stata presa), e ovviamente i giudizi in merito avrebbero
potuto essere i più diversi. Ma prima dei giudizi stavano i fatti: ed erano
fatti che anche un ragazzino di quindici anni (più due, al momento della
pubblicazione di quella raccolta), applicando il giusto grado di attenzione,
era stato in grado di cogliere.
Il tempo passa, e diremmo
che per molti versi il problema del "suono della musica" sia oggi
quasi del tutto dimenticato, pur se con qualche eccezione. Potremmo forse
tracciare un lesto ritrattino – corredato dalle eccezioni
"mercantili": l’originale come "pezzo di pregio" su eBay
– con una prima fase dove il "problema" cessa di essere percepito
come tale e un secondo periodo in cui il suono viene accettato "così
com’è", cioè a dire non viene più "sentito". L’ultimo tentativo
di fare il punto della situazione dotato del respiro e dell’ampiezza che
contraddistinguono il buon giornalismo ci risulta essere ancora quello fatto
dalla rivista statunitense Rolling Stone con il titolo di The Death Of High
Fidelity, di Robert Levine, apparso in Rete in data Dec. 26, 2007. E diremmo
che chi volesse fare un corso accelerato su cose quali "squashed dynamics", "digital
compression" e "loudness wars"
difficilmente potrebbe trovare di meglio.
L’album dal suono peggiore che ci è capitato di ascoltare
negli ultimi anni (escludiamo le ristampe, che pongono una serie di questioni
del tutto diverse) è senz’altro Way To Normal di Ben Folds, che a nostro
avviso potrebbe essere usato quale perfetto esempio di "orrido in musica".
La cosa davvero strana è che nessuna delle recensioni da noi lette – e ne
abbiamo lette tante – accennava alla questione. Fatto doppiamente curioso,
dato che l’album è stato giudicato tra i peggiori in assoluto per ciò che
riguarda il suono. E lo stesso Folds è sembrato convenirne quando ha deciso
di mettere in commercio una versione "con le pezze" (di cui non
abbiamo esperienza diretta).
La cosa (forse?) strana è che mentre giornali e riviste non
sembravano avvertire il problema i fan di Folds ne discutevano sui forum
(il che è accaduto anche per album di gruppi quali U2, Metallica, Pink Floyd
e chissà quanti altri). Qui è importante notare che a differenza di cose
quali la canzone, l’album, il concerto o il rifacimento più graditi, laddove
una certa variabilità di pareri è fisiologica, l’accordo sul fatto che un
album sia totalmente privo di dinamica (per dirla in soldoni: suona bene
solo su un apparecchietto portatile quale un iPod) è (quasi) universale.
E questa è una cosa importante, perché il soggettivismo solipsista
oggi imperante negherebbe con gioia anche la sola possibilità dell’esistenza
di un simile giudizio condiviso. Ma un suono che è distorto e una mancanza
di dinamica che lavorano "contro" la struttura del materiale (non
diciamo, quindi, di un Metal Machine Music) sono fatti perfettamente percepibili
e sui quali è possibile (e non illusorio) trovare un consenso.
Da cui la domanda: non sarebbe desiderabile che i recensori
rendessero noto, prima ancora dell’identità dell’impianto su cui lavorano,
il tipo di supporto sul quale ascoltano la musica di cui ci riferiscono?
Per essere "moderna",
la nostra è un’epoca ossessionata dal passato. E basta dare un’occhiata alle
vetrine delle edicole e scrutare le (poche) riviste che parlano di musica
per averne una riprova.
Sappiamo bene che arrivati a questo punto qualcuno ci direbbe
che per quanto riguarda le riviste X e Y questo non è vero, e che le loro
copertine sono lì a dimostrarlo. Ma il discorso non ha da essere necessariamente
inteso in senso letterale. Negli anni sessanta e settanta nessuno considerava
quale pietra di paragone la musica degli anni venti e trenta. Mentre mettere
oggi in copertina un nome nuovo che si ispira, per fare un esempio casuale,
a Bert Jansch senza fare menzione alcuna di Bert Jansch vorrebbe dire ingannare
allegramente il lettore.
La cosa è resa ancora più complessa dal fatto che il suono
della musica è oggi il suono della musica registrata. Molte di più, quindi,
le variabili in gioco. Per dirla lestamente, sappiamo come suona un violino.
Ma come suona una chitarra elettrica? Se quindi il falso su una partitura
pianistica dei primi dell’ottocento potrebbe manifestarsi sotto forma di
interpolazione di un passaggio o di accordi tipici del ragtime, il falso
sull’album di esordio degli Stooges potrebbe consistere in un riverbero digitale
non ancora in commercio nel 1969.
Quali che ne siano i motivi, l’incessante riproposizione del
passato (anche a scopo di lucro) è una delle caratteristiche dell’oggi. Fino
a qualche tempo fa l’argomento poteva essere agevolmente eluso con un’alzata
di spalle da chi considerava proprio mestiere trattare "l’oggi" e
destinare ad altri il passato. Ma da tempo il passato non è più solo "Beatles,
Stones e Byrds", con a fianco il Prog. Se da un lato l’invecchiare dei "figli
del ’77" rende lecito trattare Pistols e Clash, Banshees e Pere Ubu,
e Smiths (anche in vinile!), e mentre incombono le "Deluxe Edition" dei
Sonic Youth, un popolo finora ignaro scopre il folk-rock degli anni sessanta:
musica "nuova".
Va notato che questa
"sordità" nei confronti del suono va ad aggiungersi a quella, peraltro
già molto grave, riguardante la musica (nel senso delle note). Crediamo di
non sbagliare se diciamo che negli anni sessanta quasi nessun critico possedeva
un vocabolario musicale sufficientemente ampio da consentirgli di decifrare
la ricchezza del linguaggio tastieristico di Ray Manzarek dei Doors. A questa
ignoranza si aggiunge oggi la non consapevolezza che l’aderenza di ciò che
ascoltiamo rispetto alla creazione originale è solo un’ipotesi da verificare.
E se le recenti rimasterizzazioni degli album dei Doors rimissati rimanessero
le uniche edizioni in commercio cosa faremmo, scriveremmo ancora le stesse
cose a proposito di una cosa che ora è diversa?
Un piccolo esempio. Sappiamo che il suono di chitarra acustica
di Keith Richards su Let It Bleed è quello tipico di una Gibson (crediamo
sia il modello Hummingbird). Mentre il suono dell’acustica tipico di Neil
Young su album quali After The Gold Rush è quello di una Martin (la D-45?).
Poniamo che una masterizzazione molto compressa e tirata sugli acuti renda
il suono di Don’t Let It Bring You Down perfettamente sovrapponibile a quello
che si ascolta su Country Honk. Se inconsapevoli, prima o poi finiremo per
trovare delle "sorprendenti analogie" tra Keith Richards e Neil
Young!
Crediamo di non sbagliare
se diciamo che per quanto riguarda ristampe di materiale (totalmente o parzialmente)
edito il recente orizzonte temporale vede come esempi più importanti nomi
quali Neil Young, Rolling Stones, Beatles, King Crimson e Doors, con nicchie
dedicate agli Smiths e ai Genesis in vinile e ai Procol Harum in una nuova
(l’ennesima) masterizzazione.
Diremmo incredibile, per numero e importanza, la quantità
di fattori che diamo tacitamente per scontati. Per esempio, sapere di una "Mono
Edition" di un album originariamente edito sia in Mono che in Stereo
ci fa senz’altro credere che il "Mono" in questione sia proprio "The
Original Mono". Potrebbe essere invece una (più o meno) recente "Mono
Reduction" from the "Stereo Master Tapes", che potrebbero
benissimo non essere neppure quelli originali. Dal che, per esempio, il pandemonio
di attese oggi in Rete a proposito di 09/09/09, ovvero la (supposta) data
di uscita dei nuovi box dei Beatles, uno dei quali promette di contenere
materiale Mono.
Conosciamo tutti l’espressione "Digitally Remastered".
Ma se di un album, o di tutta una serie di album – il caso più recente essendo
quello dei Rolling Stones, la cui produzione a partire da Sticky Fingers
è passata in blocco dalla Virgin alla Universal – leggiamo che è stato "digitally
remastered" siamo portati inconsapevolmente ad aggiungere mentalmente
le parole "From The Original Master Tapes", nastri che immaginiamo
riletti alla luce di nuovi e più perfezionati convertitori D/A. Mentre è
del tutto possibile che i Digital Masters usati sulle nuove edizioni siano
invece quelli già usati per le edizioni precedenti. E siccome chi compra
la nuova versione è con molta probabilità qualcuno che possiede già almeno
una delle precedenti, ecco la necessità di "apportare delle modifiche".
Ma se un pezzo come Angie era la (necessaria) pausa di respiro fra due pezzi "forti",
e oggi ne portiamo il volume allo stesso livello degli altri due, cosa succede?
(Coloro i quali fossero interessati a indagare le penultime versioni del
catalogo dei Rolling Stones sono invitati a leggere la pagina di FAQ che
si può trovare all’indirizzo: lukpac.org/stereostones/stones-cd-faq.txt)
Crediamo non necessario aggiungere ulteriori particolari al
quadro non poco confuso costituito dalle tre (diverse) versioni esistenti
(nei formati CD, DVD-A e Blu-ray) del box di Neil Young, il tanto atteso
Archives Vol. 1. Qui la Rete è d’aiuto (molte interessanti conversazioni
in proposito possono essere lette sul forum di Steve Hoffman).
Ultimo esempio, le recenti rimasterizzazioni del catalogo
dei Procol Harum. Come in moltissimi casi a partire dalla seconda ondata
dall’introduzione del formato CD, l’attenzione di recensori e pubblico si
concentra sugli inediti. Inediti che ovviamente variano a ogni nuova masterizzazione.
Si dà per scontato che l’album originale (il
"vassoio" degli inediti, e la loro ragion d’essere) sia se non
migliorato quanto meno identico a prima. Una recente comparazione (seria)
a proposito del secondo album dei Procol Harum, Shine On Brightly, dovrebbe
essere di un qualche interesse come esempio di disparità (l’indirizzo è procolharum.com/phalbum2_-salvo-comparison.htm).
Impossibile da seguire la serie "vinile digitale",
laddove nessuno può veramente dire da quale master provenga l’album in oggetto.
Ci sono (ovviamente!) dei forum dediti all’argomento, ma quando il costo
di un originale di rarità e pregio normali può facilmente andare da 200 a
400 dollari crediamo sia logico diffidare dei supposti "pareri obiettivi".
Lo diremmo indubitabile: chiunque ascolta musica in modo attento e
consapevole finisce prima o poi per considerare in modo critico le modalità
tecniche con cui la musica si presenta; ciò a prescindere dal periodo storico
in cui l’ascoltatore si è formato, sia esso l’era del vinile, del CD o
del file audio scaricabile. Sbagliano quindi, a nostro avviso, coloro i
quali vedono i vecchi "ascoltatori del vinile" quale gruppo privilegiato
in virtù dell’oggetto. Mentre è plausibile che sia una diversa "attitudine
all’ascolto" (diversa innanzitutto per esclusività e durata dell’attenzione
prestata), decisamente più comune nella vecchia "era del vinile",
a rivelarsi caratteristica in grado di "fare la differenza".
Prescindendo da quelle caratteristiche di
"oggetto gradevole" che a nostro avviso ne spiegano per intero
il piccolo boom odierno, dire "copia in vinile" oggi significa
dire tutto e niente. Al di là della sfera soggettiva del gradimento personale
esistono questioni di identità delle quali è impossibile dubitare. Un album
dei Creedence Clearwater Revival dove il basso di Stu Cook è allo stesso
volume di quello di Jaco Pastorius nei Weather Report è un falso. Un album
degli anni sessanta dove un sistema NoNoise ha eliminato il fruscio (del
nastro, ma anche dei canali del mixer e dei pre-amp dei microfoni), e con
esso una fetta della gamma alta di voci e strumenti, è un falso (anche se
l’assenza di fruscio lo renderà sicuramente più gradito a chi si è formato
in epoca digitale). Un album in cui strofe e ritornelli sono tutti allo stesso
volume è un falso (modulare in volume è come modulare in tonalità). E ovviamente
avere album di gruppi diversi che suonano in modo simile (una circostanza
che diremmo tutt’altro che rara per quelle etichette "audiofile" che
utilizzano una curva di equalizzazione preferita) è circostanza che deve
immediatamente mettere sull’avviso.
Ogni ascoltatore ha la sua storia da raccontare
a proposito di un disco o di un gruppo che le successive masterizzazioni
hanno reso virtualmente inascoltabile. Per non parlare delle edizioni rimissate
che in misura crescente sostituiscono definitivamente le originali (esistono
ancora i veri Nursery Crime e Selling England By The Pound?).
Ma se all’ascoltatore è spesso mancato lo spirito critico, che dire
di coloro i quali avrebbero dovuto informarlo? Chi scrive di musica è ancora
in grado di ascoltare musica, o quel che sente è soltanto un suono
"insensato"? Cioè a dire, che è così ma che avrebbe potuto essere
in un altro modo qualsiasi?
Il crollo delle Torri Gemelle ha originato
un intenso dibattito tra gli "ingegneri delle strutture". E come
è intuitivo, un ponte mal fatto cade. Nulla di simile avviene con riguardo
all’interpretazione di un libro (o un disco, o un film): l’oggetto "non
cade"; non ci sono, cioè, delle costrizioni fisiche drammatiche e
indubitabili che ci costringono a rivedere l’ipotesi interpretativa che
sta a monte del "costruire". (E’ appena il caso di ricordare
che il diffondersi delle interpretazioni "postmoderne" nelle
università statunitensi avviene nelle facoltà di lettere, non certo in
quelle di fisica o chimica. Un edificio può essere "postmoderno" nell’estetica,
ma le tecniche dell’ingegneria strutturale restano le stesse.)
Il fatto (ancora) poco notato è che il soggetto
moderno tende sempre più a vedere la propria libertà interpretativa in
termini che "dissolvono" l’oggetto: che è l’unico modo in cui
chiunque è libero di "dire la sua" – cioè a dire: qualsiasi cosa
gli passi per la mente – senza il timore di essere "provato nel torto".
E se è (forse) comprensibile l’abbaglio iniziale che ha fatto considerare
ciò in termini di "aumentata libertà", diremmo che solo chi è
in mala fede (per i più vari motivi) può oggi rimanere indifferente di
fronte al risultato: laddove la "Babele dei mille linguaggi" è
in realtà il dominio del balbettio afasico.
© Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net | July 27,
2009