Soft Machine Legacy
Steam
(MoonJune)
Cosa
succede a un gruppo "Progressive" quando smette di fare
"progressi"? Che diventa noioso e prevedibile, e non di rado perde
pezzi.
Non siamo
del tutto certi che la massima qui riportata sia veramente in grado di
funzionare sempre e comunque, ma diremmo che come prima approssimazione
possa andar bene. La cosa davvero buffa è che non di rado è proprio la
fase maggiormente creativa di un gruppo – quella solitamente definita "eroica
e innovativa" – che ex post si rivela la più fertile anche da un punto
di vista monetario. Cosa che può essere intesa sia in un senso "immediato
e diretto" che quale "sfruttamento a distanza" di un nome
(poi divenuto una sigla, un marchio) che finisce per acquisire un elevato
valore di mercato proprio in virtù di una musica che ai tempi veniva considerata "audace
e inaccessibile".
Parlare
della discografia dei Soft Machine vuol dire esprimere valutazioni, che
alcuni vogliono "soggettive", e quindi – per definizione – decisamente
opinabili. Ma ci pare davvero difficile mettere in dubbio la portata innovativa
di Vol. II (1969), l’album del trio (organo, voce-batteria, basso) Mike
Ratledge, Robert Wyatt e Hugh Hopper che funse da splendido modello per
tanta musica a venire. Non abbiamo certo dubbi su Third (1970), dove al
trio si aggiunse stabilmente il sassofono di Elton Dean, e neppure su Fourth
(1971), che mantenne le coordinate di "Jazz Inglese ecc." splendidamente
illustrate sull’album precedente. Siamo certi anche dell’elevata qualità
di Fifth (1972) – album che a nostro parere soffre di una certa sottovalutazione
tipica "del senno di poi" – anche se non abbiamo difficoltà ad
ammettere che la scelta di John Marshall come batterista (ma solo sulla
facciata due) non ci sembrò neanche all’epoca la migliore possibile. L’estrema
disegualità rende Six (1973) poco agevole da definire succintamente, ma
l’ingresso di Karl Jenkins quale fiatista e tastierista può essere fatto
coincidere senza ombra di smentita con il momento in cui la musica del
gruppo diventa davvero "noiosa e prevedibile".
Gli abbandoni
erano già stati numerosi: Wyatt era andato via dopo Fourth, e Dean dopo
Fifth; dopo Six è la volta di Hopper. Ma è proprio l’andar via di quest’ultimo
a rappresentare il segnale che le cose sono diventate musicalmente deboli,
ché le fuoriuscite di Wyatt e Dean non sono certo inquadrabili in un semplice
schema del tipo "più/meno qualità". L’ingresso di tanti musicisti
provenienti dai Nucleus – gruppo tanto meno dotato, fantasioso, ambizioso
e innovativo – finisce per rendere i Soft Machine dei meri Soft Machine-lite.
E prima Marshall, e poi Jenkins, e poi Roy Babbington (in sostituzione
di Hopper), e poi l’ingresso di un giovane Allan Holdsworth alla chitarra…
A chi è davvero importato dei Soft Machine dopo Six?
Alcuni
anni fa, leggendo un articolo a proposito di Crosby, Stills & Nash,
apprendemmo che il cachet per un concerto di due componenti del glorioso
trio (intendiamo proprio due qualsiasi) ammontava a 5.000 dollari. Tutti
e tre? Venticinquemila dollari, ovvero: "il moltiplicatore del marchio".
(E chissà con Young!) Non ci meraviglia affatto, quindi, vedere il numero
enorme di CD contenenti materiale inedito, perlopiù dal vivo (i moderni
sistemi di ripulitura dei nastri fanno davvero miracoli), di gruppi "di
nicchia". (Da parte nostra riteniamo che – esattamente come quelle
bonus track che consistono di provini e false partenze – anche il gran
numero di uscite d’epoca finisca alla lunga per "diluire", se
non un marchio, almeno l’importanza di un nome. Ma in questa sede è affare
secondario.) Ed è perfettamente evidente che un tour estivo effettuato
sotto un nome
"celebre" è in grado di offrire un minimo di respiro a musicisti
i cui nudi cognomi hanno ben poco di leggendario.
Di solito
il commento (ovviamente sfavorevole) è rivolto in direzione dei musicisti.
Ma il pubblico? Quali le motivazioni che spingono un vecchio amante del
gruppo, o un giovane assetato di leggenda, a recarsi a un concerto di un
gruppo asmatico che inevitabilmente storpierà i gloriosi cavalli di battaglia
di un tempo, eseguiti – va da sé – con la strumentazione che è più pratico
ed economico portare in giro? (Altro che il Mellotron che Justin Hayward
si ostinava a portare sul palco per la sola Nights In White Satin!) E più
e più volte ci è capitato di sentirci dire (ma non è certo un’esperienza
esclusiva di chi scrive) "Ma come, non ci vai? Ma se ti piacevano
tanto!". Appunto.
Realisticamente,
un CD quale Steam è chiamato a svolgere due funzioni principali: presentare
il gruppo ai promoter che intendessero chiamarlo a effettuare concerti
e funzionare da souvenir che chi è andato al concerto porterà a casa. Sarebbe
facile a questo punto giocare con le parole cambiando la denominazione
della ditta in Soft Machine Travesty, tale è la distanza che separa la
musica contenuta in questo album da quella che gli consente di avere un
valore di mercato enormemente superiore ai suoi meriti. Ma mettiamo da
parte i giudizi morali e vediamo quello che c’è dentro.
"Musicisti
di buone capacità tecniche per una musica che, se non proprio orribile,
è certamente noiosa e scontata." Grosso modo è quello che si diceva
a proposito del deludente album degli Isotope intitolato Illusion: era
il 1974. Qui i titolari sono John Etheridge alla chitarra, Hugh Hopper
al basso, John Marshall alla batteria e Theo Travis a sassofoni – tenore
e soprano – e flauto. Nel fraseggio di Etheridge affiorano spesso un legato
alla Holdsworth e delle spigolosità angolari tipiche di un Phil Miller
(ed è ovvio che sullo sfondo si erge la lezione di John McLaughlin); di
tanto in tanto fanno capolino delle schitarrate "cosmiche" alla
Steve Hillage e delle nasalità strozzate dal wha-wha tipiche di Frank Zappa.
Travis ricorda innanzitutto Didier Malherbe e i suoi Gong.
L’album
(registrato in studio da Jon Hiseman, che supponiamo essere lo stesso che
suonava la batteria nei Colosseum) si presenta come un live: basso a destra,
batteria arretrata con charleston (hi-hat) a destra in "prospettiva
pubblico" (così come i passaggi sui tamburi), sassofoni a sinistra
e chitarra al centro. Echi a non finire. Stranamente la cosa che ci è risultata
più noiosa è stato il suono, uguale dall’inizio alla fine: opera di Hiseman
e del gruppo, è piatto e incolore (abbiamo rinunciato a contare le volte
che abbiamo guardato l’orologio). Ancora più strano notare che sui primi
brani c’è quasi un buco (dov’è il rullante?), e che sul primo pezzo (proprio
il primo!) le giunture tra le varie sezioni lasciano alquanto a desiderare.
La musica è un generico "jazz-rock inglese" ascoltato tantissime
volte, anche dai tardi Soft Machine.
Footloose
non è male, ma la jam – c’è il sax tenore – suona come i Gong senza i synth.
The Steamer ha un tema be-bop, solo sax e solo chitarra. Ritornano i Gong
su The Big Man, con soprano e chitarra. Sorpresa, il gruppo riprende la
celeberrima Chloe & The Pirates da Six: non è male, con discreto assolo
di soprano e mediocre uscita di chitarra, ma l’effetto non voluto è quello
di far sembrare ancora peggio tutto il resto. In The Back Room ha un tema
funky-lite, un brutto assolo di chitarra e un assolo di sax molto "breezy".
Atmosfera "minacciosa" per The Last Day. Bella la levità con
flauto di Firefly, sciupata da un assolo di batteria. So English è una
space-jam alla Gong con flauto con l’eco, sax soprano e chitarra effettata.
Dave Acto è meglio, ma a questo punto l’ascoltatore è davvero stremato.
Anything To Anywhere inizia con sax soprani multipli, poi un tempo dispari
che suona tipicamente hopperiano, poi un tema che ricorda… i Camel!
Beppe Colli
© Beppe Colli 2007
CloudsandClocks.net | Sept. 18, 2007