Slapp Happy/Henry Cow
Desperate Straights
(ReR)
Bei
tempi quando – trentun anni or sono – la neonata Virgin Records firmava
contratti a destra e a manca scritturando alcune tra le più belle
realtà della musica inglese – e non solo: pensiamo ai Faust.
Fu proprio la presenza del bassista del gruppo tedesco a persuadere
chi scrive all’acquisto immediato – a scatola chiusa – di Casablanca Moon degli Slapp Happy: un album che scambiammo
per un esordio assoluto, assolutamente ignari di Sort Of e della storia
che già era stata. Il che non ci impedì comunque di godere
di tante belle canzoni, ora spiritose, ora liriche, sempre porte con
garbo ricco di personalità dalla caratteristica voce di Dagmar
Krause. Canzoni, quelle scritte da Peter Blegvad e Anthony Moore, che
i sentimenti espressi – e l’ironia – rendevano piacevolmente "inattuali"
eppure partecipi dello spirito di quei tempi.
L’anno
successivo Desperate Straights fu un lavoro assolutamente spiazzante,
e per più motivi. Le composizioni erano adesso più stringate,
e di ben diversa natura – Strayed, la sola provvista dell’abituale e
ironica spligliatezza, finiva per risultare quasi fuori posto. I tre
avevano fatto comunella con gli stimatissimi (e amati) Henry Cow e altri
amici, che fornirono vesti asciutte e austere aggiungendo clarinetto,
fagotto, oboe, flauto, tromba e trombone (nonché chitarra, basso
e batteria) alla chitarra e al piano di Blegvad e Moore. Ma crediamo
di poter dire che fu soprattutto la nuova veste interpretativa di Dagmar
Krause – molto più vicina alla "art song" e a certe
esperienze colte che alla più familiare vocalità "rock"
– a costituire lo scoglio più arduo.
Superato
l’imbarazzo iniziale le canzoni risultavano essere dei piccoli gioielli
che si rivelavano compiutamente con gli ascolti – e qui basta citare
cose quali l’iniziale Some Questions About Hats, A Worm Is At Work,
Europa, Apes In Capes e Giants per dire dell’ampiezza del territorio
coperto. Citazione obbligatoria per Bad Alchemy, la cui musica è
firmata dal bassista degli Henry Cow, John Greaves: un brano destinato
a diventare un piccolo classico e a inaugurare una collaborazione –
quella con Blegvad – dal grande avvenire. Testi in grado di funzionare
a più livelli, arrangiamenti degni di nota. Qualche perplessità
nei confronti dei due strumentali: la title-track perché non
indispensabile, la conclusiva Caucasian Lullaby perché non sembra
davvero appartenere a questo disco.
La
nuova rimasterizzazione (opera del fidato Bob Drake) allarga enormemente
il campo stereo, e dispone gli strumentisti su di un immaginario palcoscenico.
Decisamente bilanciate, e ugualmente udibili, tutte le voci strumentali.
Il che ha provocato in chi scrive una strana perplessità, come
se stessimo ascoltando una partitura astratta prendere vita. Forse meno
"fedele" ma senz’altro più efficace ci era parsa la
masterizzazione su CD Virgin apparsa nel 1993, laddove il charleston
di Cutler e il basso di Greaves – dotati di una ben percepibile massa
– davano alle canzoni un ancoraggio e una direzione.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2004
CloudsandClocks.net | Sept. 5, 2004