Sette anni
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di Beppe Colli
Nov. 26, 2009
Incredibile ma vero,
Clouds and Clocks festeggia oggi il suo settimo compleanno. E come spesso
accade in questi casi, l’evento fornisce l’occasione per tracciare bilanci,
riflettere su quanto si è fatto finora e valutare quel che si presume sia
possibile fare in futuro. Com’è ampiamente noto, pensare troppo a lungo a
queste cose espone al concretissimo rischio di sminuire e svilire i risultati
(eventualmente) raggiunti, con ovvie conseguenze pratiche. Pensarci troppo
poco propizia un risultato parimenti indesiderabile, ancorché di segno opposto:
quello di procedere in "pilota automatico", finendo per rendere
arida routine quello che è (o almeno dovrebbe essere) un atto creativo. Ma
pensarci si deve, dato che (a differenza di chi risponde prevalentemente
a "stimoli esterni" di qualsivoglia natura) la coerenza del procedere
nei confronti degli obiettivi liberamente scelti è un’attività che è parte
costituente delle regole del gioco che si è liberamente scelto di giocare.
Il caso ci ha reso possibile riflettere a lungo: come già
detto in una precedente occasione, rumori ambientali di difficile sopportazione
ci hanno reso pressoché impossibile l’ascolto della musica per un periodo
di tempo tutt’altro che breve. Restavano letture e riflessioni nelle ore
serali. Perfettamente coscienti del pericolo di produrre uno di quegli scritti
mai sufficientemente esposti al ridicolo collocabili nella categoria che
va sotto il nome di Brevi cenni sull’Universo, offriamo alla pazienza del
lettore una svelta valutazione dell’operato di Clouds and Clocks all’interno
di una cornice che vede quali protagonisti, nell’ordine: musicisti, media
e pubblico.
Ci torna spesso in
mente l’espressione che un musicista statunitense scelse di usare nel suo
messaggio augurale indirizzato a Clouds and Clocks – il sito essendo attivo
da poco più di una settimana – allo scopo di evidenziarne la cifra caratterizzante: "Shining
a spotlight on quality".
E quello di "dirigere un faro sulla qualità" in
modo da farla emergere dall’oscurità in cui è solitamente immersa è sempre
stato lo scopo che ci siamo prefisso. Unitamente a quello, per noi non meno
importante, di rendere chiaro il nostro concetto di qualità.
Diciamo subito che la nostra decisione di creare un giornale
internazionalmente accessibile per quanto riguarda i contenuti – cosa che
nelle condizioni attuali vuol dire ovviamente farlo in lingua inglese – è
stata pienamente confortata dai fatti. Aggiungiamo immediatamente che per
molti anni senza il responso dagli Stati Uniti questo sito non avrebbe avuto
una vera ragione di esistere: musicisti, etichette, colleghi, lettori di
quel Paese hanno reso concreto un atteggiamento che è parte fondamentale
di quel che oggi vuol dire "vivere nel mondo"
quando si vuole che le possibilità di successo siano superiori a zero.
Curiosissimo l’atteggiamento europeo: se negli anni ci è capitato
di ricevere di tanto in tanto gustosi feedback da Paesi quali il Messico,
la Turchia, l’Iran, l’Australia e il Canada, con qualche rara eccezione (proveniente
principalmente dall’Olanda) l’Europa è stata silente. Poca Francia, poca
Austria, niente Germania. Paradossale il comportamento del Regno Unito, laddove
a missive della BBC, della branca locale di Al Jazeera, di qualche casa editrice
e di qualche (raro) distributore di oggetti musicali (presenti in discreta
misura i colleghi) si è opposto un assordante silenzio. A dire il vero abbiamo
un paio di ipotesi al riguardo, nessuna delle quali risulterebbe lusinghiera
per lo stato di cose in Europa, ma anche la sola esposizione semplificata
della questione necessiterebbe di uno spazio decisamente sproporzionato nell’economia
di questo scritto.
L’Italia è un caso strano, decisamente poco leggibile. Da
due o tre anni giungono comunque segnali di vita meno flebili che in passato,
quasi a volerci ricompensare per lo sforzo di utilizzare una lingua che a
causa di una limitata diffusione taglia completamente fuori da qualunque
possibilità di essere partecipi di un dibattito. Assolutamente prevedibile,
date le ben note coordinate culturali, il comportamento di non pochi musicisti
italiani "in cerca di un più ampio riconoscimento".
E’ solo grazie a una
recente segnalazione di Scott Woods di RockCritics che abbiamo avuto la possibilità
di leggere un articolo di Nick Southall apparso quattro anni fa sul giornale
in Rete Stylus (e il fatto che chi scrive abbia saputo dell’esistenza di
Stylus solo in occasione della sua chiusura, avvenuta all’incirca due anni
fa, la dice lunga sulla vastità della Rete e sulla problematicità di qualsiasi
asserzione al suo riguardo; il che non ci esime dal provarci). Pezzo inaugurale
della rubrica Soulseeking apparso in data 2005-09-19 con il titolo di Part
of me has been wondering, for a while now, whether I simply don’t care anymore,
l’articolo di Southall esamina un tipico caso di "bulimia culturale" (la
definizione è nostra), con logiche conseguenze di rigetto, susseguenti all’adozione
(nel 2003) della banda larga da parte di una persona di ventiquattro anni
(lo stesso Southall).
Il che, per associazione di idee, ci riporta a una delle cose
che più ci incuriosiscono: il fatto che ascoltare molto, e (logicamente)
tutto quello che capita, venga ancora oggi considerato quale tratto meritevole
di ammirata attenzione e mai quale fonte di potenziale sordità, intesa come
progressiva desensibilizzazione e conseguente superficialità di giudizio.
Ovviamente non si vuole qui contrapporre chi ascolta poche cose perché solo
di quelle conosce l’esistenza. Ma la figura di chi aveva una collezione di
album di tutto rispetto alla fine dei sessanta (attenzione: cinquanta LP)
non è minimamente paragonabile a quella di chi oggi si trova di fronte a
una vera e propria immensità. (Nel pezzo citato Southall quantifica il numero
di album pubblicati nei primi due anni di questo decennio come pari a quello
di tutti gli album pubblicati nel corso degli anni sessanta.)
Al fattore quantità va però necessariamente affiancato quello
concernente la (mancanza di) qualità. E’ una storia che riguarda la figura
(e l’odierna assenza) del (cosiddetto) gatekeeper, parola che ai fini del
nostro discorso potremmo rendere come "filtro". Lungi dal rappresentare
la libera circolazione di mille Sun Ra prima confinati negli angusti meandri
di un umido underground, la caduta del filtro si è tradotta in un pieno diritto
di cittadinanza per chiunque si senta "artista". Vediamo lestamente
alcune conseguenze.
Ascoltare un album ignoto (diciamo un album che arriva con
la posta a scopo di recensione) equivale ad aprire una fialetta di vetro
e sentire che odore ne viene fuori. A volte è mughetto, più spesso fogna.
Dopo che l’olfatto è stato offeso un certo numero di volte, e dato che a
un certo punto la vita è inevitabilmente destinata a finire, si decide di
tornare alla vecchia
"segnalazione personale".
Dato che l’ascolto indiscriminato è oggi la regola (preghiamo
il lettore di prendere quest’asserzione per buona, se ne riparlerà più avanti)
ne consegue che i musicisti si trovano costretti ad abbandonare ogni idea
di
"carriera", qui intesa nel senso di uno sviluppo
"prevedibile" che si svolge per tappe. Lo stesso vale per le case
discografiche, i management e i locali dove si fa musica.
E’ ovvio che non c’è ragione alcuna per cui questo scenario
implichi di necessità il fatto che lo sviluppo musicale debba arrestarsi.
Però sempre più spesso ci accorgiamo che molte cose "nuove" – anche
dignitose, se vogliamo, qualora prese a solo – spariscono immediatamente
qualora messe accanto agli "originali". E si noti bene che questo
giudizio risulta molto spesso condiviso da individui non ancora nati al tempo
degli "originali", il che fa saltare la comoda scappatoia del
"fattore nostalgia". Un linguaggio nel suo farsi è sempre più vivo,
anche se necessariamente più "imperfetto", dello stesso linguaggio
storicizzato e sistematizzato.
Non di rado i musicisti tendono a preparare repertori plurimi
(una formazione per i festival invernali, un’altra per quelli all’aperto)
in grado di essere facilmente graditi da organizzatori e pubblico, minimizzando
l’elemento rischio. Ragion per cui, anni fa, ci trovammo a seguire un concerto
del quartetto rock dei Colossamite con interesse incommensurabilmente maggiore
di quello da noi provato per il quintetto "elettrico" (le virgolette
sono d’obbligo) di Dave Douglas e per i tanto celebrati Tortoise. Se le musiche
di Douglas e dei Tortoise sembravano a prima vista "migliori" ciò
era solo in virtù di pedigree "superiori" che l’atto dell’ascolto
inconsapevolmente sovrapponeva a quanto veniva effettivamente suonato, di
per sé molto povero. Era presente anche una certa rilassatezza esistenziale,
come se i due gruppi, oltre a suonare per guadagnarsi la cena, suonassero
pensando che nel frattempo, lietamente, si avvicinava l’ora di cena (in Italia!).
All’opposto, i Colossamite avevano suonato con grinta e coinvolgimento innegabili,
come se il concerto avesse quale sua posta molto più di un cachet.
Certo è curioso che, ormai da anni, quando ci viene chiesto
chi, tra i nuovi, faccia musica di qualità il primo nome che ci viene in
mente è sempre quello di Nellie McKay, che è – infatti – una solista: una
musicista che è stata in grado di sviluppare un’estetica in solitudine, al
pianoforte. Esisterà mai più una base economica in grado di garantire l’esistenza
di altri Henry Cow, di altri Frank Zappa, di altri Steely Dan?
Ci sia consentita a questo punto una coda con valore di semilavorato.
Spesso i musicisti il cui lavoro può a ragione essere considerato
"difficile e non commerciale" hanno cercato di trarre vantaggio
da quello che lo sviluppo tecnico autonomo forniva loro, dalla possibilità
di stampare i dischi senza il coinvolgimento di una casa discografica alla
possibilità di creare un circuito indipendente di distribuzione. Il solo
elemento non sufficientemente considerato è stato quello della scarsa attrattiva
di queste musiche per i media, fattore che da solo avrebbe provocato una
fine ancor più rapida se solo i nuovi confini si fossero rivelati meno porosi
di quanto in realtà è avvenuto.
Ma dato che i "social network" sono fruiti in misura
preponderante da un pubblico molto più giovane di quello dei cultori delle
musiche "difficili e non commerciali" è irragionevole pensare che
essi possano rivelarsi un fattore in grado di ribaltare le sorti del "genere".
(Sull’importanza dei
"social media" per il crescente successo tra i giovani di un discreto
numero di nuove artiste statunitensi classificate come "country"
risulta utile l’articolo di Jon Caramanica apparso sul NY Times in data August
2, 2009 con il titolo di Country’s New Face: It’s Young and Blond.)
Tutte le volte che
scrivendo di musica ci capita di avere dei dubbi di natura fattuale ci mettiamo
in ginocchio. Questa curiosa postura non sta però a indicare un gesto propiziatorio
nei confronti dell’esattezza di quanto da noi scritto. Piuttosto, essa indica
il luogo dei nostri armadi dove custodiamo il materiale a stampa raccolto
nel tempo che consultiamo per controllare i fatti.
Sempre più spesso ci capita di pensare che, se non proprio
inginocchiarsi, non pochi colleghi statunitensi potrebbero quanto meno scomodarsi
a controllare un’enciclopedia in Rete. Perfino articoli di (supposto) approfondimento
– gli ultimi da noi letti riguardavano i Jethro Tull e Let It Bleed dei Rolling
Stones – contengono errori fattuali tanto grossi da risultare quasi comici.
La cosa, ovviamente. non può stupire più di tanto. Se per
molti giovani l’immagine di Giulio Cesare e Napoleone a cena nello stesso
ristorante non ha nulla di intrinsecamente assurdo, lo stesso avviene per
quanto riguarda i prodotti del lavoro dequalificato e non più soggetto a
correzioni che sono ormai la norma per gran parte delle riviste che si occupano
di musica.
Qui il nostro sfondo conoscitivo è prevalentemente quello
della Rete in lingua inglese. Ed è ovvio che giornali cartacei quali Down
Beat, Rolling Stone e Mojo, prima ancora che per il loro acume, si distinguono
proprio in ragione dell’accuratezza dimostrata nei confronti dei fatti. Non
bisogna però commettere l’errore di contrapporre meccanicamente la Rete alla
carta, soprattutto con riguardo al caso italiano. Avevamo previsto, ormai
molti anni fa, che le riviste italiane sarebbero presto fallite in massa,
ed è evidente che abbiamo avuto torto. Quello che non avevamo previsto era
uno scadimento della qualità minima necessaria per chiamare un foglio stampato
"giornale", cosa che in Italia ha di fatto consentito di creare
"la Rete" in edicola.
Ed è ovvio che la celebre "inversione mezzi-fini"
non è stata abolita dalla modernità. I conti vanno pagati ogni mese, e la
chiusura di testate statunitensi che tiravano più di mezzo milione di copie
e il drastico ridimensionamento di altre la cui tiratura si contava in
milioni ci dice a chiare lettere che a fronte di un forte calo degli investimenti
pubblicitari non c’è tiratura che tenga. Logiche le conseguenze: l’esordio
di Nellie McKay è visto con fiducia dalla sua casa discografica? recensioni
ovunque, e la copertina del supplemento Culture del Sunday Times; la McKay
rompe il contratto? poche recensioni dell’album numero due, non poche delle
quali recensiscono una versione ridotta in realtà mai uscita; nuova etichetta
per l’album numero tre, ma la McKay non sembra ancora diventata una priorità?
pochissime recensioni; album numero quattro, e stavolta c’è un gancio forte
sul quale puntare? recensioni pressoché ovunque. Domanda: come è possibile
avere anche solo un briciolo di fiducia nei confronti di un processo di
scelta così evidentemente eterodiretto?
Chiudiamo il punto con una notazione di carattere più generale.
L’accettazione della fine dell’unicità del senso appare spesso sulle prime
come un elemento di libertà: per te sono importanti i Beatles, per me gli
Stooges, e non potrai mai provarmi nel torto. Ma al pari di quella di avanguardia,
anche la nozione di "tendenza" ("trend") presuppone tacitamente
un cammino che anche se non lineare risulta comprensibile perché condiviso.
La versione intermedia dice in sostanza: metto in copertina i Tortoise, e
li metto in copertina perché… (la loro miscela stilistica è originale,
accolgono il dub nel jazz, ecc.). Che è come dire, queste sono caratteristiche
che (per me) rendono un gruppo migliore di altri, cioè a dire, sono caratteristiche
che (io) percepisco come desiderabili ("anche se è ovvio che non appena
si diffondono e diventano maniera possono essere sostituite da altre").
Ma se il concetto di "migliore" viene accettato come indimostrabile,
e una rivista imbarca collaboratori sempre più giovani che posseggono questo
criterio in una modalità "grezza" e "istintiva", allora
come giustificare una "tendenza"? Essa è totalmente indimostrabile,
e di conseguenza è come se tutte le riviste che trattano di musica si chiamassero "Mi
piace".
Ma noi abbiamo già un esempio paradigmatico di tutto ciò:
la moda. E nelle riviste di moda l’oggetto (il capo d’abbigliamento, la pettinatura,
il piercing) non si giustifica e non si spiega: si mostra.
Nel corso di un recente
scambio di vedute sono emersi due punti di vista che non potrebbero essere
più diversi: "la gente oggi non è più interessata alla narrazione" contrapposto
a "la gente è ancora interessata alla narrazione, solo che non la vuole
pagare". Come spesso avviene in questi casi, la fugacità dello scambio
(avvenuto mediante posta elettronica) e le mille faccende nelle quali ognuno
è affaccendato hanno purtroppo reso impossibile approfondire il discorso,
innanzitutto chiarendo un punto decisivo rimasto opaco: cosa i rispettivi
interlocutori intendessero con la parola "narrazione".
Da parte nostra diremmo che oggi, senza ombra di dubbio, la
stragrande maggioranza non è più interessata alla narrazione. Proveremo a
dire qualcosa, pregando il lettore di non sovrapporre
a
"narrazione" il discorso sul testo di una canzone, perché per ovvi
motivi di comodità è proprio questo l’aspetto che useremo come esempio.
Negli anni sessanta, in Italia, la conoscenza della lingua
inglese era patrimonio di pochissimi. Con l’avvento dei gruppi "beat" e
la crescente popolarità di nomi quali Beatles e Stones (e Hollies, Byrds,
Dylan, Donovan e così via) alcuni settimanali presero a stampare i testi
delle canzoni di successo: testo originale, traduzione letterale, e (qualora
esistente) testo della versione italiana in commercio. E’ poi l’epoca degli
album, ed è con raccapriccio che i fan di musica rock si accorgono che moltissimi
LP che nella versione originale vedono i testi delle canzoni stampati sulle
copertine (apribili!) o in un foglio interno in quella italiana non ci sono.
Vengono allora in soccorso i settimanali, che stampano traduzioni di artisti
e gruppi, soprattutto contemporanei, con grande plauso da parte del pubblico.
E’ a questo punto che si scoprono per la prima volta "i minori" –
dal folk inglese all’underground americano – mentre spuntano testi che mai
era accaduto venissero messi per iscritto: e qui c’è il mensile illuminato
che provvede. Piccole case editrici colmano poi la lacuna in maniera sistematica:
le traduzioni sono spesso fallose quando non "a piacere", ma almeno
c’è il testo originale a fronte (e nel frattempo un po’ di inglese sono in
tanti a masticarlo).
Quale la situazione odierna? Diamo per scontati i problemi
concernenti il costo dei diritti. Riconosciamo l’esistenza di non pochi volumi
monografici in commercio. Teniamo in debito conto l’enorme quantità di testi
che, in un modo o nell’altro, è agevole trovare gratis in Rete. Sappiamo
– Erasmus docet – che la quantità di persone che oggi è in grado di capire
la lingua inglese è enormemente aumentata rispetto ai tempi di Satisfaction.
Tutto ciò dovrebbe agevolmente spiegare perché la stampa italiana non ritiene più conveniente
offrire testi al lettore. Per contro, ci si aspetterebbe che una discussione
concernente la musica dovrebbe veder affiorare l’aspetto "testi",
soprattutto oggi che tra i nomi preferiti dal pubblico meno superficiale
e modaiolo ci sono quelli di Nick Drake, Neil Young e Leonard Cohen: artisti
per i quali l’elemento testo è parte imprescindibile del tutto. Poniamoci
allora la domanda: quante delle persone che acquistano o scaricano musica
con regolarità e in quantità tutt’altro che esigua dimostrano di avere maturato
una consapevolezza delle tematiche presenti nelle canzoni degli album che
accumulano con tanta disinvoltura?
Qui è prevedibile affiori l’elemento "tempo" (come
nell’espressione "mancanza di"). Il che è vero, ma solo nell’accezione
in cui si trova normale l’idea del libro
"abbreviato" ("per andare al sodo ed evitare noiose lungaggini"),
del film visto mentre si telefona (ma su grande schermo, "tutta un’altra
cosa"), dei viaggi frequenti e dalla durata contratta ("così vedo
più cose"), degli album comprati o scaricati a tonnellate ("io
sono di gusti ampi e aperti, non mi fisso su una cosa sola").
Ma se
"narrazione" implica approfondimento, e l’approfondimento richiede
tempo, non è il costo in danaro a essere di ostacolo, bensì il dispendio
calcolato in termini di tempo: perché questo sarebbe percepito come un impiego
del tempo "poco efficiente" ("non ho tutto questo tempo da
dedicare solo a una cosa").
Posto che stiamo assistendo
a un’agonia, ci chiediamo sempre più spesso se abbia senso ascoltarne da
vicino ogni singolo rantolo.
Quali le prospettive?
Se adottiamo il punto di vista dei musicisti che fanno musica "difficile
e impopolare" diremmo che oggi c’è un elemento in grado di fornire un
aiuto decisivo, ed è la Rete: accessibilità da ogni punto del Globo, possibilità
di fare conoscere la propria musica, feedback immediato. C’è però un elemento
in grado di affossare qualunque possibilità di successo in tal senso, ed
è la Rete: la sua vastità rende di fatto impossibile essere visti. Il che
non vuol dire che il musicista possa oggi scegliere di fare a meno della
Rete, dato che il non avere una presenza in Rete oggi equivale di fatto a
non esistere.
Sempre benvenuta, la copertura da parte di un giornale di
carta non può più costituire un rimedio, e non perché oggi il giornale venda
poco. In presenza di un ricambio sempre più veloce delle proposte, di un
pubblico sempre più frammentato, e di una "fedeltà al marchio" (si
intenda: i nomi nuovi) decisamente labile, il giornale cartaceo si trova
costretto a dedicare sempre più spazio a quel centinaio di nomi storici potenzialmente
in grado di "mettere d’accordo" quanta più gente possibile (non
è per mancanza di fantasia che in edicola capita di vedere sempre le stesse
facce!). D’altro canto, la normalità in Rete è di cinque recensioni al giorno,
quasi sempre non retribuite e di dubbia affidabilità.
Con molta fortuna e un pizzico di fatica a chi scrive è
capitato di tanto in tanto di imbattersi in siti dai contenuti eccellenti,
sia verbali che sonori. Ma sono luoghi evidentemente destinati a chi già
molto mastichi di musica (non a caso tra i nomi dei collaboratori capita
spesso di vedere quelli di musicisti di una certa notorietà). Alla base del
problema, un’asimmetria che sembra destinata a non variare nel prossimo futuro:
quella tra il numero di musicisti, che non accenna a diminuire, e quello
degli ascoltatori, in evidente caduta libera.
© Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2009