Le solite cose,
un’altra volta.
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di
Beppe Colli
July
4, 2005
Non abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere
che ricevere posta, qui a Clouds And Clocks, costituisce sempre un evento
fonte di piacere. Il piacere è però, per così dire,
doppio allorquando ci accorgiamo di aver ricevuto una lettera nella
quale veniamo garbatamente rimproverati (molto garbatamente, in verità)
di non aver tenuto in debito conto il fattore suono – e una masterizzazione
ipercompressa – in occasione di una nostra recensione di qualche tempo
fa. A lettura ultimata decidiamo immediatamente che l’evento è
di quelli che meritano senz’altro l’apertura di una buona bottiglia:
per un attimo la nostra attenzione nei confronti di questo genere di
fattori è sembrata infatti uscire dalla tipologia dei disordini
mentali per rientrare nell’ambito delle preoccupazioni legittime.
Certo che
a pensarci bene è davvero buffo: usciti (forse per sempre – almeno
per quello che riguarda l’ambito della "popular music") dalla
"partitura come astrazione totalizzante" non sembriamo davvero
essere mai entrati in un’attenzione critica nei confronti del suono
(eccezion fatta, ovviamente, per molti di quelli che la musica la fanno).
E’ vero che a parole l’attenzione per il suono non sembra essere mai
stata superiore a oggi; ma sono quasi sempre parole prive di peso analitico,
e che fanno sorgere più di un dubbio sulla reale attenzione prestata.
E se è
in fondo ovvio che non molti abbiano prestato attenzione alle belle
soluzioni vocali e strumentali degli album che Amy X Neuburg ed Emily
Bezar hanno pubblicato lo scorso anno, Residue e Angels’ Abacus, proprio
in ragione della loro marginalità commerciale, molto meno ovvio
è il fatto che pressoché nessuno abbia sottolineato l’importanza
avuta da un suono caldo ma chiarissimo per il successo (artistico) di
Get Away From Me, l’esordio discografico di Nellie McKay. Mentre una
recente intervista con Jared Reynolds pubblicata dalla rivista statunitense
Bass Player ci ha confermato che una esecuzione "disinvolta",
e non esente da errori, costituisce non poca parte del fascino "d’altri
tempi" che emana da Songs For Silverman, il recente album di Ben
Folds.
Non molto tempo fa, esaminando tutta una
serie di fattori che ci angustiavano non poco, parlando del pubblico
che caratterizza la maggior parte dei concerti dal vivo (abbiamo detto:
la maggior parte; ed è decisamente interessante esaminare i perché
dietro le eccezioni) avevamo parlato di un pubblico numericamente scarso,
di un tempo di attenzione estremamente ridotto, di una certa capricciosità
della presenza, di cattive maniere. Ci giunge adesso un messaggio di
un caro amico il quale, reduce da una serie di concerti decisamente
eterogenei per genere e dimensione, così conclude: "Francamente,
dall’osservazione di questi giorni l’impressione è che il pubblico
sia peggiorato assai. Parla, sbraita, non sente un cazzo, si esalta
appena sente un ritmo elementare per poi sgonfiarsi dopo quindici minuti
di concerto e infine fregarsene del tutto. I pareri finali non sono
mai suffragati da ragionamenti che si possano definire tali. Starò
invecchiando ma la sensazione è pessima."
E che la
situazione sia pessima ci pare un fatto difficile da mettere in discussione.
Si sommano oggi i risultati di due eventi già drammatici qualora
presi isolatamente: la "videomusica", con la sua riduzione
del musicista al personaggio ("E Elvis, allora?" Ma adesso
il fatto è assolutamente onnipervasivo, il che non diremmo essere
una differenza da poco); e il drammatico "analfabetismo" conseguente
alla resa totale da parte della scuola – e delle famiglie – nei confronti
dell’insegnamento divertente e privo di sacrificio, da cui l’assoluta
incapacità di seguire un filo e di costruire un’argomentazione.
(Un fatto, sia detto tra parentesi, che alcuni musicisti dell’avanguardia
hanno scambiato, equivocando, per un rifiuto cosciente della narrazione
e per un accoglimento del particellare; mentre è solo incapacità
di dare un senso alla durata.)
Ci
è capitato di recente di leggere di una nuova masterizzazione
di quattro album storici (e sono senz’altro i migliori) di un musicista
anglosassone notissimo – meglio ancora: celebre a livello planetario
– durante gli anni sessanta; parliamo di qualcuno che andò in
India con i Beatles e che insegnò a John Lennon una modalità
di arpeggio chitarristico che Lennon adoperò immediatamente su
The Beatles (il "doppio bianco") – vedi Julia. Ovviamente
assente ogni accenno alla masterizzazione, ci viene però detto che ogni CD presenta numerosi brani aggiunti, tutti di
un certo interesse. E quali sono? Questo non ci viene detto. Giocoforza
cercare in Rete, dove pur con qualche difficoltà l’informazione
è reperibile. Quale il senso di tutto ciò? Forse "io
ti dico che il tale disco è uscito, e poi se vuoi approfondire
vedi tu"? Ma allora perché comprare un giornale? Per il
"Free CD"? Siamo al disastro.
Dobbiamo confessare che eravamo davvero molto
curiosi di ascoltare il nuovo album di Fiona Apple, la cui uscita era
stata annunciata per il 2003. Prodotto da Jon Brion – nome che diremmo
non bisognoso di presentazioni – e intitolato Extraordinary Machine,
il disco avrebbe dovuto confermare l’avvenuta, definitiva maturazione
dell’artista statunitense. Com’è ormai ampiamente noto, il disco
non è mai uscito; la versione più accreditata vuole la
Sony decisamente scontenta delle (inesistenti) possibilità commerciali
di un disco "difficile e privo di potenziali singoli". Succede
poi un fatto strano: il CD va in Rete – tutto. Ovviamente scaricarlo
è illegale, ma chi scrive ha una connessione dial-up a 33.600
bps (teorici), quindi il problema non si pone. Poi Rolling Stone recensisce
(tiepidamente) il disco, mentre un altro giornale dà ragione
alla Sony: il disco è troppo difficile. Ci piacerebbe poter dire
la nostra, ma non possiamo. Però commenti discretamente analitici
colti in Rete lo definiscono album di altissima levatura, ben cantato
e con accuratissimi arrangiamenti orchestrali. E allora?
Del
tutto casualmente, abbiamo scovato una stazione radio che trasmette
esclusivamente "oldies". Capita quindi – alle prese con il
traffico, andando al mare – di poter ascoltare una gran quantità
di brani – soprattutto degli anni cinquanta e sessanta – mai sentiti
prima d’ora, e di riascoltare canzoni mai più ascoltate dai tempi
della loro prima pubblicazione. Interessante trovare punti di contatto
tra gruppi che all’epoca sembravano molto diversi. Stimolante notare
quanti elementi sfiziosi gli anonimi musicisti di studio riuscissero
a inserire nell’esercizio della loro professione. Questa faccenda degli
"oldies" ci ronzava in testa senza una particolare ragione
quando ci siamo ritrovati davanti l’articolo intitolato After The Stall:
la più recente puntata della bella rubrica bisettimanale online
intitolata What Goes On che Mark Jenkins tiene sul Washington City Paper.
Dopo aver notato che alcune stime vogliono le vendite del "catalogo"
(che Jenkins così definisce: "vecchi CD che nessuno si sforza
di vendere oggi, se non per il fatto di offrirli a un ‘nice price’")
vicine al 40% del mercato, Jenkins si chiede perché nella classifica
riservata ai CD di catalogo non compaia alcun CD di techno e di elettronica,
generi che non molto tempo fa venivano detti essere "il futuro
della musica". Jenkins fa le sue supposizioni. Quali sono le nostre?
©
Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net
| July 4, 2005