Verso la rovina:
a che punto siamo?
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di Beppe Colli
June 27, 2012
Annunciato da un titolo dal tono secco e pragmatico proprio di chi
punta dritto allo scopo senza perdere tempo perché tempo da perdere non
ce n’è più (ed è un titolo che ovviamente rimanda alla canzone folk di
protesta e amica del popolo di gente come Pete Seeger), End This Depression
Now! – opera divulgativa e militante dell’economista Premio Nobel Paul
Krugman pubblicata alla fine di aprile – mette subito le carte in tavola,
in ciò non troppo dissimile dagli ultimi lavori del sociologo italiano
Luciano Gallino (ricordiamo il recente La lotta di classe dopo la lotta
di classe).
Ma se l’intento è animato da uno spirito
"liberal" intriso di pragmatismo, i mezzi sono quelli propri della
scienza economica che inserisce i fatti in una cornice di ipotesi empiriche
correggibili.
Saldamente al primo posto nella classifica
di vendita del quotidiano Made in UK The Guardian, End This Depression
Now! ha anche avuto l’onore di una campagna pubblicitaria che usava le
fiancate degli autobus urbani come cartelloni – e ciò in Spagna (cosa che
non diremmo poi troppo sorprendente, date le recenti traversie di quel
paese). Fatto buffo, ci è sembrato che a fronte di un palcoscenico statunitense
ed europeo ben illuminato dai riflettori dei media a essere scarsa sia
stata l’attenzione italiana, con recensioni e trafiletti a rendere noto
l’apparire della traduzione nel nostro dialetto e poco più – e ciò sebbene
la frequente traduzione dei pezzi di Krugman che appaiono con stretta periodicità
sulle pagine del New York Times abbia reso l’economista una figura discretamente
nota anche da noi.
Pragmatismo sorretto dalla scienza. Tutto
il contrario di quello che vicende non correlate ci hanno dato modo di
vedere in qualche trasmissione televisiva, dove politici ai quali abbiamo
affidato i nostri destini dicono con leggerezza frasi a vanvera ("Ora
è il momento della fase due", "Ci vuole la ripresa"), attribuendole
al poverino ("Come dice Krugman", e qui qualcuno aggiunge "…
che è un Premio Nobel", con lo stesso tono di chi magnifica "la
pastiera di mia nuora… che è di Napoli").
Stupisce vedere qualcuno che ci invita a
distogliere lo sguardo dalla ricapitalizzazione delle banche per rivolgerlo
a chi non ha i soldi per pagare l’Imu ("… che scade lunedì").
Sorridiamo, sicuri che la ragazza sia "dei loro", ma impallidiamo
quando una scritta in sovraimpressione la dice essere "dei nostri".
Povera piccina… e poveri noi, che (pur in piccola parte) dalla saggezza
della piccina dipendiamo.
Dicendo in generale, il tono del dibattito
è quello di sempre: "Nuove tendenze", ma con un grado di analfabetismo
che in queste circostanze fa paura. Riaffiorano vecchi vizi. E mentre uno
snello blog del Guardian ci informa minuto dopo minuto di quanto avviene
su scala europea e mondiale, Repubblica fa affogare quelle poche cose in
pagine e pagine di illeggibile pastone ("Il retroscena", "Il
caso", ecc.) e "analisi" autoreferenziali. Mentre il blog
di Krugman sul New York Times, grazie ai rimandi tramite link ai suoi pezzi
passati, mette ognuno in condizione di controllare quanto le sue previsioni
(effettuate tramite rigorose procedure formali, non le letture del caffé)
fossero fondate.
Poi ognuno è libero di impiccarsi come vuole.
Ci era sembrato che
i giornali italiani che trattano di musica non potessero più peggiorare:
erore! Stringendo (non è argomento che merita più di tanto), ci pare di poter
dire che mentre prima permaneva ancora un pallido ricordo di cosa voglia
dire argomentare – da cui il tentativo di dare forma alle proprie incertezze
– quel che oggi vige è lo sbrago più assoluto, con prose che si fanno beffe
di logica e fatti (e la cosa va molto al di là di "questo è il mio parere").
Stupisce che nessuno si sia trovato a riflettere sul fatto che il massimo
della libertà ("posso dire impunemente tutte le cazzate che voglio")
equivale al massimo dell’irrilevanza ("quello che dico io ha un peso
zero").
Triste notare che i dibattiti di economia nostrani non presentano
necessariamente esperti di maggiore caratura, ma
"cazzari". Anche loro vanno in televisione a dire impunemente quello
che vogliono, e anche le loro opinioni sono contraddistinte dal massimo dell’irrilevanza.
Il che non vuol dire che esse saranno senza conseguenze, innanzitutto per
noi (e qui ci viene in mente The Salt Of The Earth dei Rolling Stones, con
un gran bel piano di Nicky Hopkins).
Non sapremmo dire
quanto familiare sia oggi il nome di Timothy White, anche al pubblico statunitense.
Se dovessimo scegliere un paio di parole per caratterizzarne la figura, diremmo
innanzitutto "a professional reporter", che nella cornice appropriata
vuol dire moltissimo. Forse "mainstream" sarebbe un’altra parola
appropriata, ma dubitiamo lo sarebbe su uno sfondo USA.
Quando conoscemmo White – su Musician, negli anni ottanta
– il giornalista aveva già alle spalle lunghe e valide collaborazioni a testate
di prestigio quali Crawdaddy! e Rolling Stone (e poi ci furono libri, trasmissioni
radiofoniche e altro).
Ci giunse agli inizi degli anni novanta la notizia che White
era diventato direttore del settimanale statunitense Billboard ("la
Bibbia dell’industria musicale"), testata da noi frequentata per qualche
tempo a metà degli anni settanta, quando la piccola stazione radio per la
quale lavoravamo aveva deciso per un (costoso, ma prezioso) abbonamento.
Fine degli anni novanta, c’è la Rete, c’è la connessione,
ci è possibile leggere Music To My Ears, la rubrica a cadenza settimanale
che White utilizza per esprimere le sue idee, che spesso (per usare un eufemismo)
non collimano con quelle dell’industria musicale – di fatto l’unico inserzionista
della testata. (Lasciamo al lettore qualche istante per elaborare le implicazioni
di quanto appena detto.)
Ed erano sovente cose grosse, come quell’emendamento denominato "Work
for Hire" che – inserito in una norma Congressuale – avrebbe dato un
potere immenso alle case discografiche e agli editori musicali danneggiando
al contempo gli artisti.
Fu solo dopo la sua morte (inattesa, a soli cinquant’anni,
e sono dieci anni fa giusto oggi) che ci rendemmo conto di quanto profondo
fosse stato il lavoro di White ("Qualità" e "Onestà" non
sono qui parole vuote) nel dare forma a Billboard. E quanto il suo lavoro
fosse apprezzato dai musicisti, famosi o meno. E ricordiamo che fu grazie
a White che un sistema veritiero di rilevazione di vendite quale SoundScan
fu introdotto su vasta scala (da cui un boom di generi quali metal, country
e rap che forse c’era già stato senza essere però visibile).
Difficile dire altro senza scadere nella retorica. Possiamo
solo dire che se "gli artisti sono artisti", e obbediscono perciò
a leggi tutte loro (cosa che rende tragiche morti quali quelle di Frank Zappa,
Hugh Hopper o Hans Reichel), gente professionalmente capace e dotata di senso
etico come Timothy White obbedisce alle stesse leggi di tutti: quindi il
loro esempio è (in un senso specifico) ancora più prezioso.
© Beppe Colli 2012
CloudsandClocks.net | June 27, 2012