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di Beppe Colli
Feb. 18, 2010
Di tanto in tanto,
a intervalli che raramente si prolungano per più di qualche settimana, ci
piace fare visita a quello che è ormai l’ultimo negozio di dischi rimasto
nella nostra città dove è ancora possibile acquistare (soprattutto) musica "oltre
le classifiche", ultimo bastione di un’epoca che con gentile eufemismo
può oggi essere definita
"a serio rischio di scomparire".
Ovviamente le sorprese non mancano mai, anche se a volte si
rivelano essere non esattamente del tipo a noi gradito. Ultimo esempio, poco
più di un mese fa. Ci troviamo a sbirciare i nuovi numeri delle riviste poste
sul tavolo quando veniamo colpiti dalla lunghezza e dalla ricchezza grafica
di un articolo dedicato a una giovane e sorridente signora da noi mai vista
né ascoltata. Gentile al suo solito, il padrone del negozio si offre immediatamente
di farci ascoltare l’ultimo CD della musicista, pubblicato da poco più di
un mese. Grande il nostro sconcerto nel sentire quella musica scarna e decisamente
dilettantesca per concezione ed esecuzione: la voce malferma, le stecche
numerose, le armonie dall’intonazione approssimativa, la chitarrina suonata "raspando" dove
non è possibile discernere né tocco né espressività, il tempo che si rifugia
nel
"rubato" mentre pare quasi di vedere la manina esitare quando il
cambio di accordo si fa maggiormente "rischioso".
Il tutto ci ricorda quei momenti imbarazzanti allorquando
– si era nei primi anni settanta – l’amico o conoscente pronunciava la fatidica
frase "e ora ti presento mia sorella, suona la chitarra e canta, vedrai
quanto è brava". A quel punto la fanciulla si sedeva sulla sponda del
letto per eseguire immancabilmente La canzone di Marinella (ma recentemente
un amico e collega ci diceva di aver vissuto esperienze simili con La canzone
del sole quale pezzo forte del repertorio; difficile dire chi dei due abbia
sofferto di più).
C’è una foto vista di recente che mostra una scena quasi simile:
davvero impossibile descrivere l’espressione di assoluto stupore dipinta
sul volto di Eric Clapton nel trovarsi di fronte a una sconosciuta Joni Mitchell
(che immaginiamo già discretamente matura per repertorio, voce e arpeggi)
che quel birbone di David Crosby (impagabile l’aria furba con cui guarda
in direzione dell’obiettivo) gli aveva scodellato quale sorpresa.
La sorpresa e la meraviglia da noi provate nell’ascoltare
l’illustre sconosciuta erano però di tutt’altra natura: mai avremmo immaginato
di trovare "la sorella del nostro amico" acclamata interprete su
più pagine di una rivista. (E apprendere da un giovanotto lì presente che
anche Wire aveva parlato bene di quel CD ci confermava che la nostra decisione
di non rinnovare l’abbonamento, tre o quattro anni or sono, era stata poco
più di un atto dovuto.)
A questo punto sorgeva spontanea la domanda su quale fosse
il genere in cui la gentile donzella veniva intruppata da tanto caritatevoli
media: freak-folk e psych-folk, era la risposta. E non è che a quel punto
non ce l’aspettassimo, quella specie di folk fasullo.
(La giornata non era comunque destinata a finire qui. Altro
CD, e una cantante che la stampa vuole somigliante a Kate Bush. E mentre
la musica scorreva abbiamo sentito le nostre labbra pronunciare quasi involontariamente
le parole "i Quarterflash!". E qui si ride tutti di cuore.)
Dobbiamo ammettere
che la (cosiddetta) riscoperta della (cosiddetta) musica folk avvenuta negli
ultimi anni ci ha non poco stupito (pur in considerazione del fatto che si
tratta di un tipico fenomeno di nicchia del tipo che si indovina essenzialmente
residuale, con tutte le conseguenze del caso). Possiamo affermare che in
termini merceologici il fenomeno possiede una sua logica: quando anche il
(cosiddetto) Grunge fa ormai parte di un passato mitologicamente indistinto;
quando la preponderanza di musica "ad alta tecnologia" (dalla stratificazione
in ProTools oggi comune a rap, r&b, rock, pop, dance e country all’utilizzo
pressoché universale di AutoTune) rende possibile immaginare un passato
"innocente" proprio perché scarsamente tecnologico (laddove
"poco artefatto" è sinonimo di "sincero"; ricordiamo:
"quando anche i mulini erano bianchi") ecco comparire "la
ragazza (o il giovane) con la chitarra"; ché di questo, in fondo, si
tratta. Va infatti notato che l’elemento che qui si presenta come caratterizzante
non è il tipo di linguaggio (musicale) adoperato, ma l’assenza (percepita)
dell’elemento tecnologico. Da cui, more geometrico, discende che la scarsa
intonazione vocale può essere vista quale elemento costitutivo di autenticità.
Il mito del "buon selvaggio" è a un solo passo di distanza.
La nostra perplessità iniziale sulla fattibilità della cosa
scontava la nostra scarsa fiducia nella possibilità che oggi fosse agevole
un apprezzamento i cui presupposti sono innanzitutto il silenzio e l’introspezione.
E se è ovvio che il silenzio può sempre essere ricreato con un atto cosciente
della volontà (ma all’atto pratico è una cosa sempre più difficile: pensiamo
solo per un istante a quanti apparecchi dovremmo spegnere) l’introspezione
è quella cosa che un essere costantemente connesso tende fatalmente a perdere
e che una volta persa si rivela (quasi) impossibile da recuperare. Qui però
la frequentazione della vita quale essa realmente è ci ha rivelato che a
tutto c’è rimedio, vedi Pink Moon come "poetry in motion" tenuto
in sottofondo alle attività più varie (e il fatto che la "monotonia" di
quest’album sia oggi largamente preferita alla policromia multistilistica
di Bryter Layter dovrebbe metterci sull’avviso per quanto riguarda quei problemi
concernenti il linguaggio musicale cui si accennerà tra breve).
I due elementi
"fondativi" del nostro discorso – la semplicità e la ragazza (ragazzo)
con chitarra – producono una curiosa conseguenza: che la definizione di "folk" viene
a coincidere con quella di "bianco-occidentale di un certo tipo".
E infatti negli ultimi tempi non ci è mai capitato di vedere trattate alla
voce "folk" musiche quali la musica popolare del Mali (sarà "etnica"?),
il gamelan (sarà "asiatico"?) o il funk (per chi scrive un buon
esempio di "folk tradizionale" essendo oggi costituito dalle parti
di chitarra ritmica di Carlos Alomar sugli album di David Bowie, tre esempi
quasi a caso essendo Fame, Stay e Fashion). Naturalmente è un procedimento
legittimo, tutte le definizioni essendo (in senso preciso e specifico) "artificiali",
cioè a dire frutto di convenzione. Basta saperlo.
Lasciamo qui sullo sfondo la questione propriamente mercantile.
Certo è strano vedere piazzati in primo piano "giganti dimenticati" quali
Karen Dalton e Vashti Bunyan. E’ in fondo comprensibile il sentimento infantile
che vuole l’ascoltatore provare piacere nello scoprire "il vero valore" di
un nome precedentemente sottovalutato (dai padri, si diceva una volta; saremo
arrivati ai nonni?). Capiamo che rendere popolare il nome suddetto possa
contribuire alla piccola fama di trendsetter di un magazine, che trarrebbe
giovamento minimo dal trattare una
"leggenda vivente" come Bob Dylan. Sappiamo che i diritti di stampa
per gli album di un nome sconosciuto costano incomparabilmente meno di quelli
di un musicista di chiara fama. Quella che chi scrive percepisce come assurda
è la seguente circostanza: che dato che è altamente improbabile che l’ascoltatore
odierno di giovane età conosca, mediamente, alcunché, la "gerarchia
di valore" che va a formarsi vede Karen Dalton e Vashti Bunyan in posizione
superiore non solo rispetto a Donovan, Tim Buckley, John Martyn, Bert Jansch,
Richard Thompson e Joni Mitchell ma anche rispetto all’opera omnia di Bob
Dylan. Mentre basterebbe l’ascolto del solo John Wesley Harding, magari partendo
dall’apologo di The Ballad Of Frankie Lee And Judas Priest ("My loss
will be your gain" – citiamo a memoria) per cominciare a ristabilire
il senso delle proporzioni. (E’ una situazione già vista altre volte, a partire
dalla mancata comprensione delle radici del garage statunitense degli anni
sessanta.)
Un piccolo aneddoto
potrà a questo punto essere d’aiuto per andare avanti nel discorso. Si era
nei primi anni settanta, e la musica preferita da un coetaneo di nostra conoscenza
era suonata da gruppi chitarristici di notevole impatto sonoro quali Deep
Purple, Black Sabbath, Ten Years After e Grand Funk Railroad. Ogniqualvolta
dall’espositore degli album venivano tirati fuori LP di nomi quali Pentangle,
Fairport Convention, Neil Young, David Crosby, Cat Stevens e Joni Mitchell
alla domanda su che musica facessero si rispondeva immediatamente con la
parola "folk". (C’era anche la musica semi-folk, per esempio i
Jethro Tull.) E’ ovvio che la definizione, consapevolmente semi-seria, non
possedeva alcun valore definitorio. Ne aveva però uno eminentemente pratico
di notevole utilità: segnalare che, date le preferenze ormai note, quel certo
gruppo o artista aveva ben poche probabilità di essere gradito. Infatti era… "folk".
E’ interessante notare che, in parallelo con mutamenti sociali
di enorme portata che (ovviamente) si danno qui per scontati, la funzione
della critica come è oggi prevalentemente svolta è passata dalla descrizione
di una cosa ai "consigli per gli acquisti"
(che è cosa ben diversa dalla teoria alla base della Consumer Guide di Robert
Christgau). Va qui accennato al fatto che l’interrogativo prevalente da parte
del "consumatore" non è più "che cos’è?" ma "mi
piacerà?". Detto lestamente, la domanda prescinde totalmente dalla questione
della verità. E se la parola mette a disagio possiamo parlare di "descrizione
adeguata" dell’oggetto.
La cosa che ci è sempre parsa paradossale è che oggi chi scrive
(nel caso di cui ci occupiamo, di musica) sembra avere assunto su di sé le
domande del consumatore. E’, come dire, un consumatore fornito di penna.
Di solito è una faccenda che si fa risalire a questioni e pressioni di carattere
commerciale, ma messa in questi termini la cosa ci pare davvero troppo semplice
(e presuppone che qualora le suddette pressioni "esterne" cessassero
le cose cambierebbero). La
"descrizione adeguata" dell’oggetto non esclude ovviamente la possibilità
che i giudizi estetici su qualcosa – per esempio, il celebre Never Mind The
Bollocks… dei Sex Pistols – possano essere difformi. Postula però che chi
vede nei modi concreti di realizzazione di quel disco un esempio luminoso
della (cosiddetta)
"estetica punk" non è affatto in grado di comprendere cosa c’è
dentro quel disco. Detto altrimenti, dovrebbe cambiare mestiere.
La questione, come si vede, è seria. Ed è stata completamente
evasa mettendo al posto della descrizione di un oggetto la descrizione delle
reazioni di un soggetto. E siccome le opinioni sono tante quanti i soggetti…
Però chi, scrivendo per un pubblico, opera in questo modo, anche se in perfetta
buona fede, non si accorge che così facendo sega il ramo sul quale è seduto.
Non va inoltre dimenticato un punto di grande importanza:
che lo schiacciamento del giudizio nei termini grezzi del "mi piace/non
mi piace" proprio del
"parere personale" sconta la mancata comprensione dei modi concreti
in cui si forma la valutazione. Non arriviamo mai "nudi" al giudizio,
cui perveniamo provvisti di una griglia interpretativa che ci consente di
decifrare le modalità con le quali l’artista ha operato. Procedura ovviamente
soggetta a errore, ma l’errore correggibile di chi non aveva a disposizione
un numero sufficiente di informazioni, non di chi si trova a dire, per i
motivi più misteriosi, "ho cambiato idea". E va qui sottolineato
che la bontà dell’interpretazione dipende dalla qualità della cornice interpretativa,
non dal numero grezzo delle cose ascoltate, ché altrimenti nell’era dell’iPod
in shuffle perpetuo il problema della competenza potrebbe essere risolto "a
peso".
In realtà quando oggi
parliamo di "folk"
(nel senso di cui s’è detto finora) parliamo di "musica d’autore".
E crediamo che nessuna definizione sia preziosa quanto quella (formulata
da qualcuno il cui nome non riusciamo purtroppo a ricordare) usata per descrivere
la musica di Neil Young: "studied primitivism". Va da sé che quando
parliamo di una musica d’autore essa va innanzitutto descritta "in modo
adeguato".
Richard Thompson è un nome che diremmo discretamente noto,
sia per gli album incisi con il gruppo dei Fairport Convention che per quelli
condivisi con l’allora moglie Linda e per quelli in solo. La musica di Thompson,
le tematiche delle sue canzoni, il suo stile vocale, il suo approccio chitarristico,
il suo rapporto con musiche diverse, di natura sia classica che extraeuropea,
in special modo nordafricana, l’atteggiamento della mano destra, il suo (non)
uso del vibrato in un approccio chitarristico che aveva quali antecedenti
popolari il violino e la cornamusa, la consapevolezza di rock e blues che
però si voleva coscientemente evitare di assumere a modello… tutto questo,
e molto altro, è stato detto, scritto e analizzato. Anche la presenza, in
filigrana, della Stratocaster di Hank Marvin e dei suoi Shadows (qualcuno
li ricorda?), un antecedente che di certo diremmo pochissimo… "folk"!
Ma se queste caratteristiche (la cui individuazione da parte
nostra dobbiamo in special modo ad articoli di Bill Flanagan per Musician
e Joe Gore per Guitar Player)
"descrivono adeguatamente" l’oggetto Richard Thompson allora risulta
evidente che è del tutto assurdo metterlo nello stesso calderone di, per
dire, Nick Drake o John Martyn. Mentre potremmo, dopo un attento esame, decidere
di mettere nel "folk" un’artista come Nico, attualmente situata
nella comoda categoria miscellanea dei "maledetti".
Ci si conceda una parentesi
per così dire "laterale". Riteniamo che esista una differenza sostanziale
e dimostrabile tra una "descrizione adeguata di un oggetto" e l’enunciazione
di un parere che riguarda le opinioni di un soggetto riguardo a un oggetto.
E crediamo fermamente nella giustezza di tale enunciato. E a nostro avviso
un danno incalcolabile è venuto da chi, spesso a causa di un’insufficiente
comprensione dei reali termini della questione, si è unito alla schiera di
coloro per i quali "ogni conoscenza è solo opinione".
Però, anche ponendo che non ci fosse una differenza dimostrabile
tra "conoscenza" e "opinione" (il che non crediamo),
invitiamo chi legge a considerare che qui una diversa questione ha inizio:
quali le conseguenze ipotizzabili derivanti dalle due credenze. Che non vuol
dire affatto proporre di scegliere una credenza che riteniamo falsa per paura
delle sue conseguenze. In realtà chi accusa chi afferma di credere nella
differenza tra "conoscenza" e "opinione" di tifare per
un assetto del sapere che sa di totalitario non si avvede di commettere proprio
questo errore quando nel prescindere dalle conseguenze prevedibili di una
condotta d’azione data finisce per "assolutizzare" ciò che ritiene
essere "relativo".
In soldoni, prendiamo in esame un’affermazione della forma
"se… allora". Potremmo dire che in assenza di un criterio (perfettibile)
di verità, laddove ogni asserto viene ritenuto opinione indimostrabile e
quindi equivalente ad altre, è plausibile che qualora qualcuno possegga in
misura preponderante i mezzi materiali deputati all’informazione questi sia
in grado di mettersi al riparo da ogni possibilità di critica efficace, l’informazione
indipendente di qualità essendo una risorsa per procurarsi la quale occorre
spendere tempo e denaro, cosa che la maggior parte dei soggetti non sembra
disposta a fare, soprattutto se si crede che essa sia
"opinione" come ogni altra.
Possiamo quindi dire: se vuoi evitare una situazione in cui
chi si trova in posizione dominante sarà in grado di zittire il "diverso
parere" mediante l’uso continuo e massiccio di opinioni che non temono
la prova dei fatti (perché i "fatti" invocati dagli altri non hanno
alcun valore di verità, non essendo altro che "le loro, diverse, opinioni")…
allora stai attento a propiziare una situazione in cui i fatti vengono equiparati
a credenze soggettive perché potresti non uscirne più!
Il lettore è invitato a riflettere su un senso a dir poco
paradossale di "par condicio": ognuno può dire quello che gli pare.
Ci avviamo alla (triste)
conclusione.
Come detto a mo’ di esempio, la maggior parte di quello che
sappiamo su Richard Thompson l’abbiamo appreso dalla lettura di fonti a stampa.
Nel caso concreto, i mensili statunitensi Musician e Guitar Player, per abbonarci
ai quali spendevamo una discreta quantità di danaro (l’America è lontana)
in anticipo (è questo il concetto di abbonamento). Va da sé che se Flanagan
e Gore ci avessero narrato di "una chitarra fiammeggiante che sa tanto
di disperazione" non avremmo mai preso in considerazione l’ipotesi di
acquistare quelle opinioni. Quello che intendevamo avere in cambio dei nostri
soldi era una "descrizione adeguata" dell’oggetto. E ovviamente,
e in ciò a differenza delle "opinioni personali", le descrizioni
sono misurabili e confrontabili. Ed è questo il modo in cui si sceglie quale
giornale leggere: in base al suo contenuto di verità. (Non abbiamo mai capito
quelli che acquistano il giornale che "parla dei nomi che piacciono
a me": e se dice cazzate?).
Il momento non è bello. Stretti tra un calo della pubblicità
e una crescente disaffezione dei lettori nei confronti dell’esborso monetario,
per quanto esiguo, giornali e riviste di tutto il mondo guardano ormai il
fondo dell’abisso. Il più importante interrogativo pare oggi essere questo:
se sia plausibile l’introduzione di una pay-wall in Rete che "metta
al riparo" i contenuti in assenza di un pagamento.
Chi scrive ha una posizione definita: abbonato al settimanale
in Rete Rock’s Backpages fin dalla sua (ormai lontana) fondazione, abbonato
per anni al quotidiano in Rete statunitense Salon, lettore accanito, per
ora gratis, del Guardian e del New York Times, serenamente disposto a un
esborso.
Detto succintamente, il punto cruciale pare oggi essere il
seguente: se perderà più influenza e soldi il quotidiano che metterà i propri
contenuti al riparo di una pay-wall (proprio questa sembra essere l’opinione
del direttore del Guardian; si legga qui il testo di una sua recente conferenza:
http://www.guardian.co.uk/media/2010/jan/25/cudlipp-lecture-alan-rusbridger)
o se il quotidiano che la adotterà in modo flessibile riuscirà a combinare
"il meglio dei due mondi" (questa pare essere oggi l’opinione della
direzione del New York Times; utile leggere questo thread, opinioni di lettori
incluse: http://opinionator.blogs.nytimes.com/2010/01/26/how-to-make-readers-pay-happily/?hp).
Il dramma è che molti, anche tra gli stessi lettori dei giornali
di qualità, sembrano sempre più indifferenti alla differenza tra
"fatto" e "opinione" allorquando non considerano che
i fatti a proposito dei quali si parla con scarsa competenza e insufficiente
investimento di uomini e mezzi non sono altro che… opinioni anche qualora
vengano presentate come fatti. E che il mancato finanziamento
"diffuso" delle fonti di informazione non potrà che lasciare la
strada aperta a chi potrà "creare" l’informazione, avendone le
possibilità finanziarie.
Ed è questo il grosso interrogativo che ci troviamo di fronte.
A noi, in ogni micro-decisione (e micro-pagamento), la possibilità di scegliere
la soluzione.
© Beppe Colli 2010
CloudsandClocks.net | Feb. 18, 2010