Qualità
(seconda parte)
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di Beppe Colli
Jan. 11, 2009
Solitamente contraddistinto
da ozio e tranquillità in misura ben superiore alla norma, il periodo delle
feste di fine anno costituisce ormai da tempo per chi scrive occasione perfetta
per navigare nel panorama cinematografico internazionale alla ricerca di
qualcosa da poter vedere, di lì a qualche mese (e pazienza se il "di
lì a qualche mese" diventa di tanto in tanto anche un anno o due), in
sala o in DVD-V. Il che, beninteso, è cosa che siamo soliti fare abbastanza
di frequente, se non proprio spesso e a intervalli regolari, tempo e attenzione
essendo, come ognuno sa, quantità finite. Il fatto è che le rassegne di fine
anno, mentre fanno il punto su quanto (altrove) si è già visto, costituiscono
un’ottima occasione per dare pieno diritto di cittadinanza al piccolo film
che – complice la ben nota
"immaterialità" della Rete – si trova così a ricevere una quantità
di spazio (virtuale) non inferiore a quella solitamente riservata a una grande
produzione.
Andarsi a cercare i film con tanto anticipo può apparire occupazione
discretamente bizzarra (oltre che un modo un po’ strano di trascorrere parte
delle feste di fine anno). Ma se appena ci riflettiamo, il fattore "largo
anticipo" non è poi così strano, essendo proprio quello che buona parte
dei quotidiani abitualmente fa già a partire dal momento in cui un film entra
in lavorazione, se non prima, sotto forma di articoli, pezzi di colore, anticipazioni,
interviste e via dicendo. Tutto quello che – ci limitiamo qui alla stampa
sotto forma di alfabeto – serve a preparare il terreno e a propiziare il
successo al botteghino.
E’ del tutto evidente che questo modo di "preparare un
successo", mentre non ha nulla di ciò che chiamiamo "critico" (né
pretende di averlo), è del tutto inaccessibile al budget che è alla base
di un piccolo film; ma è anche l’unica modalità che una parte del pubblico
– e si noti che si tratta della parte (privilegiata) che ancora legge – ha
a disposizione per decidere cosa andare a vedere. E’ ovvio che il "passaparola" ha
ancora una sua importanza, ma è un’importanza che tende a decrescere man
mano che un film fa la sua comparsa direttamente nel formato DVD-V, oggetto
da fruire nella privacy della propria casa e non più in sala.
Da parte nostra restiamo assolutamente fermi nell’idea che
un film vada visto in sala. Se per Ghost World, da noi visto solo in DVD-V,
ci siamo convinti di riuscire a
"tradurre" certi colori quasi pastello e certe scenografie quasi
"art deco" (sarà vero? non è il nostro campo!), è con una buona
dose di sgomento che ci siamo accorti che Lost In Translation perdeva parte
della sua capacità di coinvolgerci passando dal grande schermo di una grande
sala al piccolo schermo di una piccola sala al piccolissimo schermo del nostro
computer. E solo uno sciocco direbbe che un film come Il matrimonio di Lorna
dei fratelli Dardenne – perché di impianto "minimo" – può andare
ugualmente bene su un piccolo schermo. Ovviamente diverso il discorso "pragmatico",
con "minestra" e "finestra" a occupare i ruoli che ben
conosciamo.
Ed è così che un giorno dello scorso dicembre ci siamo trovati
a guardare un fotogramma in cui una giovane donna giocava con il suo cane,
lancio dello stecco di legno compreso. Siamo sul New York Times, e ci accorgiamo
che il film – il cui titolo è Wendy And Lucy – ha meritato una segnalazione
speciale da parte dei critici di quel quotidiano. E dato che accanto a quel
fotogramma c’è una recensione – di A. O. Scott, datata December 10, 2008
– decidiamo di leggerla.
E’ ovvio che chiunque
si azzardasse a sostenere che Andy Warhol è oggi un teorico poco considerato
verrebbe immediatamente sommerso da una pioggia di lattine di Campbell’s
Soup. Eppure ci pare di poter dire – ma forse è solo colpa di quello che
leggiamo – che il nome di Warhol viene citato sempre meno proprio mentre
si dispiegano pienamente quegli scenari che Warhol seppe cogliere, se non "in
nuce", quanto meno in una forma certo meno estrema di quella che oggi
appare visibile a occhio nudo.
Chi non ricorda il famoso detto (citiamo a memoria) "In
futuro ognuno sarà celebre per quindici minuti?". Qui di solito l’accento
cade sui "quindici minuti". Da parte nostra evidenzieremmo
"ognuno": per essere celebre oggi non è più necessario essere qualcuno
le cui opere sono straordinarie – Cesare, Napoleone, Einstein – questa possibilità
essendo aperta a chiunque. Ma proprio perché si tratta di
"chiunque", ne discende una durata minima: i famosi "quindici
minuti".
Le "Superstar" di Warhol – che nel contesto dell’epoca
sarebbe stato quanto meno azzardato definire "gente comune" – non
possedevano affatto doti fuori dal comune. Eccezion fatta per il loro essere "insolite",
a partire dall’aspetto fisico. E un aspetto fisico "insolito" non
è certo cosa oggi soggetta a riprovazione, essendo semmai sempre più spesso
vero il contrario.
Warhol si muove in uno scenario che è pacifico definire come
"affluente". Poco ricordato ma a nostro avviso non meno importante
l’aforisma riguardante l’identità delle esperienze di consumo, come nel famoso
esempio della Coca Cola: laddove non c’è una Coca Cola migliore a seconda
del reddito o dello status sociale dell’individuo che la consuma, ma (anche
qui citiamo a memoria) "Il Presidente, Liz Taylor, tu e io… tutti
beviamo la stessa Coca Cola… e tutti siamo coscienti di questo fatto, il
Presidente, Liz Taylor, tu e io".
Che per Warhol l’orizzonte del consumatore sia
"riflessivo" è messo in risalto dall’impatto di un’innovazione
tecnologica "rivoluzionaria" come il videoregistratore a cassette,
che (anche qui citiamo a memoria) "consentirà a tanta gente comune di
girare dei film pornografici e di invitare gli amici a vederli".
E posto che il quadro è "democratico" e perennemente "dinamico" (perché
continua è la capacità tecnica di inventare cose nuove), diremmo acquisti
immediatamente senso quell’aforisma a proposito dell’unicità della superficie "sotto
la quale non c’è nulla" che molti hanno voluto di problematica decifrabilità.
In questa cornice – laddove ciascuno è un collezionista di
sensazioni che la produttività sociale mette a portata di mano in gran quantità
sotto forma di "oggetti" – la questione della "qualità" come
entità "esterna" non ha più alcun senso. Restano ovviamente fuori
la qualità in senso tecnico – la solidità di un edificio, l’igiene di un
ristorante – e la fede religiosa.
Ma se concordiamo sul fatto che un elemento caratterizzante
di "esperienza piacevole" è che è desiderabile che essa venga ripetuta
spesso, ecco pronto il modello "tutto quello che riesci a mangiare".
(E quando il progresso tecnico rende possibile separare l’esperienza da un
supporto e da un prezzo?) Va da sé che in un modello di consumo che trasferisce
proprietà "alimentari" a tutte le cose la figura di un "arbitro
del gusto" diventa assurda: se ascoltare un brano musicale o vedere
un film non sono diversi dal mangiare, giudice unico è colui che mangia.
E infatti, si provi ad andare oltre asserzioni quali "mi è piaciuto", "non
mi è piaciuto", "lo ascolto e poi mi faccio la mia idea".
La fine dell’anno porta
anche i soliti articoli sulla stampa (su carta e in Rete): chi ha chiuso,
chi è stato licenziato, chi potrebbe chiudere e quando e così via. Ma al
di là del problema dei costi crescenti, il fatto centrale rimane quello di
sempre: la qualità costa, e quasi mai oggi si dà un numero sufficiente di
persone disposte a sborsare il dovuto.
Man mano che il tempo passa, anche l’idea (che una volta
avremmo detto "intuitiva") che conoscere il retroterra di un lavoro,
i suoi agganci culturali, la sua struttura, il suo "senso", renda
l’apprezzamento diverso – e "migliore", perché più approfondito
– appare sempre più misteriosa ai più.
E mentre una volta figura degna di ammirazione era il musicista
che faceva sullo strumento cose che altri non avrebbero mai saputo fare (e
non è solo questione di "tecnica": pensiamo a Monk), oggi il passatempo-modello
è uno dei tanti "reality" dove c’è solo gente
"proprio come noi". Per quindici minuti.
La pregevole recensione
del New York Times ci ha convinto ad aggiungere Wendy And Lucy alla piccola
lista di film che ci ripromettiamo di (andare a) vedere quest’anno. Dopo
aver letto altre recensioni decisamente elogiative, tra le quali ci è parso
spiccasse quella di Cynthia Fuchs su PopMatters, abbiamo deciso di dare un’occhiata
al sito del Village Voice, dove il lavoro di J. Hoberman è una delle poche
cose che vale ancora la pena di leggere. Fortuita combinazione, è proprio
Hoberman a recensire il film (la recensione è apparsa in data Tuesday, December
9th 2008 at 1:54pm).
Ecco un estratto dalla conclusione: "(…), Wendy and
Lucy presenta delle ovvie affinità con il neorealismo italiano. Reichardt
ha coreografato una delle più asciutte ricerche esistenziali da quando Vittorio
De Sica ha mandato il suo lavoratore disoccupato a vagare per le strade di
Roma a cercare la sua bicicletta rubata e una storia di cani tanto straziante
quanto Umberto D. di De Sica. Ma Wendy and Lucy è anche la più malinconica
delle saghe americane".
© Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net | Jan. 11,
2009