Qualità:
alba o tramonto?
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di Beppe Colli
Jan. 21, 2009
Le festività di fine
anno e gli immancabili auspici di un anno "prospero e produttivo" a
esse collegati costituiscono l’occasione perfetta per non perdersi di vista,
riallacciare contatti, apprendere novità, conoscere la sorte di cose lasciate
in sospeso e più in generale fare il punto della situazione per ciò che riguarda
musica e musicisti. E quando il nuovo anno è ormai iniziato da qualche settimana
è fatale che dare un’occhiata alla cartella denominata Happy 2009 induca
a qualche tentativo di bilancio. Bilancio che mai come quest’anno ci è parso
desolatamente triste. In estrema sintesi, parafrasando, diremmo che il succo
di molti discorsi possa essere così sintetizzato: "Sto lavorando al
nuovo album, e la scrittura è finita, purtroppo non ho soldi a sufficienza
per pagare i musicisti, ma spero in qualche modo di riuscire a superare il
problema".
Il che ci porta immancabilmente a riflettere su quanti album
potenzialmente ottimi non vedranno mai la luce, e quanti risulteranno essere
decisamente al di sotto delle nostre aspettative e – quel che più conta –
delle loro potenzialità.
A questo punto giunge puntuale la considerazione: ma se la "difficile
musica d’avanguardia"
non ha mai avuto un mercato, e se i musicisti che suonano questa musica non
hanno mai avuto un soldo, com’è che tutto d’un colpo questo è diventato un
problema?
Che è una buona domanda, alla quale è però difficile dare
una risposta breve e di facile accettabilità. Ma si può provare, in una prima
approssimazione.
Il fattore monetario
viene di solito considerato nel suo aspetto più banale, mentre sfugge l’importanza
del fattore tempo, che in questa accezione può essere visto come un altro
aspetto del denaro.
Per esempio, se si considerano le condizioni materiali di
tanti musicisti di jazz degli anni quaranta e cinquanta quello che sfugge
facilmente è che è stato il fatto di poter suonare insieme con regolarità
che ha consentito loro di sviluppare linguaggi collettivi nuovi, pur in presenza
di situazioni materiali estremamente disagevoli. La regolarità, la familiarità,
l’identità di scopo hanno in questo caso la meglio sulle condizioni materiali.
Qui l’esempio di Sun Ra è solo il più chiaro ed evidente.
Dire che registrare un album di musica improvvisata necessita
solo di alcune ore in un buono studio è dire una cosa allo stesso tempo vera
e falsa. E se è vera per ovvi motivi, essa è però falsa perché tace degli
anni (o decenni) che occorrono a un musicista perché trovi una sua "voce" individuale.
Un’identità che si acquisisce solo suonando. Il rarefarsi delle situazioni
in cui ai musicisti è possibile esibirsi in pubblico, pur se in cambio di
cifre troppo esigue per essere davvero chiamate "cachet", non può
non avere conseguenze fatali nel lungo periodo.
E’ ovvio che il musicista è un essere altamente motivato per
definizione, e spesso brillantemente in grado di automotivarsi. Ma niente
è in grado di sostituire un collettivo di musicisti cui la grande confidenza
reciproca rende possibile procedere "in modo intuitivo". In sua
assenza, partiture scritte e la speranza che tutto vada bene (che spesso
vuol dire "al meglio possibile, date le circostanze").
E’ ormai largamente
noto che Paul McCartney intese Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band come
la risposta dei Beatles a Pet Sounds dei Beach Boys: un album che Brian Wilson
aveva a sua volta ideato quale risposta alla sfida ad alta qualità costituita
da Rubber Soul dei Beatles.
Azzardiamo: di tutti gli aspetti che con il passare del tempo
diventano sempre più opachi e sfuggenti, quello riguardante il rapporto reciproco
tra molti musicisti degli anni sessanta, quel loro "parlarsi a distanza" in
musica, costituisce oggi probabilmente l’aspetto più difficile da capire.
O perfino da immaginare: laddove Hendrix giunto a Londra spinge
McCartney a performance chitarristiche di psichedelia spinta, acetati di
A Day In The Life giunti in California inducono a meraviglia (e sconforto!)
i bei nomi del luogo, tracce dei Beatles vanno nei Byrds e poi dai Byrds
ai Beatles, e dai Beatles ai Lovin’ Spoonful e dai Lovin’ Spoonful ai Beatles.
Per tacere di Frank Zappa e dei Rolling Stones, di Donovan e dei Pink Floyd.
E ciò per tanti anni ancora (l’ex ragazza di Phil Collins rivelerà al nuovo
partner John Wetton che Collins era ossessionato dai risultati raggiunti
dai King Crimson su Larks’ Tongues In Aspic).
Va da sé che lo stesso accadeva per ciò che riguarda tecnici
e produttori, intenti a chiedersi con quali mezzi, e con quali idee, questo
o quello avesse ottenuto quei risultati (che sono poi quelli intessuti in
ciò che per amor di brevità – ma spesso, ormai, per pura mancanza di consapevolezza
– siamo soliti chiamare "la musica di…").
Quel che va assolutamente sottolineato è che questa era una
sfida al rialzo sul campo della qualità. Che nomi di prima grandezza trovavano
normale "automotivarsi" trovando in una qualità "superiore" lo
stimolo a fare. Chi vorrà, come al solito, sminuire il tutto adducendo quale
supposta ragione "tanto, importanti com’erano, i Beatles sapevano di
poterselo permettere" è invitato a documentarsi giusto il minimo indispensabile:
scoprirà le reazioni tutt’altro che cordiali a ogni passo nuovo dei Fab Four,
spesso tacciati di fumosa incomprensibilità.
Alla base (economica)
di tutto ciò degli individui (irrazionalmente) convinti che "sviluppare" il
gusto attraverso lo sviluppo della comprensione fosse un modo altamente stimolante
di passare il tempo.
E in queste cose, com’è ovvio, nulla è garantito: né che non
ci si stanchi e si passi a fare altro né che chi verrà dopo continuerà ad
avere lo stesso atteggiamento nei confronti delle cose.
E poi, pensiamo al teatro: contrapposto alla ricchezza e alla
vitalità del cinema, negli anni sessanta il teatro ricordava già come classici
Osborne e Beckett (se non ancora Pinter).
"Classici" non vuol certamente dire "comprensibili" o
"alla portata di tutti", solo che dopo quei nomi ben poco di nuovo
e stimolante si era affacciato sulla scena. Ci pare di ricordare il clamore
suscitato negli anni ottanta dalle rappresentazioni statunitensi dei lavori
di David Mamet. Ma un solo autore, per quanto brillante, non è certo il segno
di buona salute di una forma d’arte.
Dovendo mettere in
evidenza una (e una sola) caratteristica che riteniamo decisiva per l’attuale
stato di cose, sceglieremmo senz’altro ciò che è stato chiamato "il
tempo puntiforme": che è un modo, possibile tra molti, con cui l’individuo "sceglie" di
rapportarsi alla durata, alla memoria, alle cose.
Una delle (numerose) implicazioni è la sparizione del concetto
di "migliore". Migliore designa qualcosa di misurabile secondo
un metro invariante (= è lo stesso metro di prima). Il punto cruciale è che
l’innovazione implica spesso proprio un cambiamento di metro. Per esempio,
il "free" di Ornette Coleman rispetto alle "mappe di accordi" del
be-bop. Quindi il Coleman
"rumorista senza logica" per il musicista che suona sugli accordi
è
"l’inventore di una nuova grammatica" per il musicista
"free".
Qui si inserisce spesso, confusamente, tutto il discorso sui "fondamenti" del
sapere, non sempre correttamente inteso.
In realtà il discorso sul
"free", nell’accezione di cui sopra, poco importa (se non in senso
"pragmatico": per me questa non è musica, e ti picchio; o quanto
meno, non ti pago per ascoltarla). Quel che è importante è trovare una logica.
Cosa spesso non facile, se parliamo di "avanguardia" (sennò che
avanguardia sarebbe?), ma che nondimeno riteniamo possibile.
Purtroppo la constatazione che non esiste un senso "assoluto" spinge
molti in direzione opposta: a dire che non ne esiste nessuno, se non individuale, "a
piacere". Laddove anche il coprofago è a suo modo un gourmet. Solo che
alla prova dei fatti i conti non tornano: dire di uno starnazzatore che a
malapena sa imbracciare il sassofono che suona musica free nella scia di
Albert Ayler o è vero o è falso. Ma se è falso, non è vero.
Purtroppo ci sono due
ragioni di enorme importanza che inducono a ritenere che molta produzione
di qualità, indipendentemente dal
"mezzo" usato, farà la stessa fine del teatro. Innanzitutto, il
privilegiare un utilizzo "puntillistico" del tempo svuota la base
economica di ciò che è "difficile", cioè a dire necessita di una
frequentazione prolungata e assidua. Va da sé che nella lotta per la conquista
dei bulbi oculari è proprio questo l’atteggiamento che i mezzi di comunicazione
di massa scelgono di assecondare. Qui ciascuno può vedere, voltandosi indietro
di appena qualche anno, come vada riformulandosi la stessa idea di ciò che
è considerato "difficile".
Nel suo tramutare un’asserzione critica in un semplice "mi
piace", il "tutto è relativo" che è alla base dell’insindacabile "gusto
del singolo"
consente ai mezzi di comunicazione di impiegare manodopera non qualificata
a bassa remunerazione che sarà sempre libera di asserire qualsiasi cosa,
certa che nulla verrà messo in discussione. Per fare un esempio largamente
casuale, di un pezzo dei Led Zeppelin rimissato e del tutto stravolto si
potrà dire che adesso suona "vivido e coinvolgente". E se domani
dovesse apparire una versione "filologicamente corretta", niente
paura: sarà sufficiente un "tornano più grintosi che mai i fantastici
Led Zeppelin delle origini", e tutto andrà bene.
Quale piccolo "grazie!" al
lettore tanto paziente da essere giunto fin qui offriamo una serie di materiali,
tutti facilmente reperibili in Rete a esclusione del primo:
a) sul lato artistico del lavoro di tecnici e produttori c’è
il libro di interviste di Howard Massey intitolato Behind The Glass: Top
Record Producers Tell How They Craft The Hits, pubblicato da Miller Freeman
Books, 2000 (USA) e Backbeat Books, 2002 (UK);
b) l’accumulazione di conoscenze stratificate che è alla base
di un lavoro di spessore è ben illustrata dall’intervista a Jimmy Page fatta
da Steven Rosen originariamente apparsa sul numero datato July, 1977 della
rivista statunitense Guitar Player;
b1) un diverso approccio allo stesso argomento è in The Power
And The Glory: Led Zeppelin And The Making Of IV, di Barney Hoskins, Rock’s
Backpages, July 2006;
c) la bella intervista a Bruce Botnick a proposito dell’album
dei Doors Strange Days è apparsa sul mensile UK Sound On Sound in data December,
2003 nella rubrica Classic Tracks;
d) Ken Scott è un produttore senz’altro meno celebre di altri,
ma ciò non vale certamente per il suo lavoro; due interviste:
d1) Shooting To Thrill, realizzata dal tecnico e produttore
Joe Chiccarelli, è apparsa sulla rivista statunitense EQ in data December,
2005;
d2) realizzata dal tecnico specializzato in masterizzazioni
Steve Hoffman, quella intitolata semplicemente Ken Scott Interview è apparsa
sul sito di Hoffman in data March, 2006.
© Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net | Jan. 21,
2009