"Prog"
—————-
di Beppe Colli
Apr. 10, 2013
Pressoché inevitabile,
ormai da qualche tempo, giungere alla conclusione di trovarsi nel bel mezzo
di un vero e proprio (mini) revival del "Progressive" (termine
che d’ora in poi, allo scopo di risparmiare le dita, indicheremo come "Prog" e
che non proveremo neppure a tentare di definire, il "Prog" condividendo
con tante altre cose la spiacevole caratteristica di risultare perfettamente
chiaro in modo auto-evidente finché non si prova a definirlo). I segnali
ci sono tutti, dalle vetrine delle edicole da cui spuntano nomi – e capi
d’abbigliamento! – che mai avremmo pensato in grado di tornare all’onore
delle cronache alle ormai numerosissime ristampe, non di rado in elegantissime,
curatissime e costosissime versioni in cofanetto del tipo "multi-formato
più libro". E certo è bizzarro (ri)vedere in edicola il "faccione"
dell’album d’esordio dei King Crimson, e poi l’annuncio che recita
"Clamoroso! Tutto su Thick As A Brick". Insomma, che anno è?
Qui va immediatamente precisato che la cornice in cui avvengono
questi fatti è di tipo particolare. Le (magre) vendite odierne, infatti,
rendono plausibile inventarsi delle nicchie che, pur se di tipo residuale,
risultano ancora appetibili, e questo vale tanto per le riviste che per le
uscite discografiche, anche se con caratteristiche opposte (il che, come
vedremo tra poco, porta spesso a risultati paradossali): le riviste devono
essere fatte in economia, ché la tiratura si prevede bassa e la vita si suppone
breve; per contro, le ristampe contemplano non di rado investimenti di tutto
rispetto, ma qui la tiratura ridotta, se vestita coi panni dell’esclusività
(e con un occhio forse già rivolto in direzione di eBay), consente di praticare
prezzi "a piacere".
Lo sfondo è quello che è. L’accertata sfiducia nel "progresso" ci
consente di guardare all’indietro senza troppo timore di venire accusati
di passatismo. E quando la musica "d’epoca" porta ormai nomi quali
Smiths e Jam l’orizzonte del passato diventa tanto indistinto da poter consentire
di far sedere alla stessa tavola Giulio Cesare e Napoleone. L’elasticità
dei termini indubbiamente aiuta, laddove l’espressione "Classic Rock" indica
un mese una dimensione temporale – e quindi i Jethro Tull, e i Doors – e
un altro mese uno
"stile" – e quindi i Muse. Un menù molto "à la carte",
come si vede, in grado di lasciare le mani libere.
Capita sempre più spesso
di vedere uomini e macchinari intenti a eliminare stazioni di servizio dalle
strade del centro cittadino. Un caposquadra interrogato in merito diceva
recentemente di margini di profitto sui carburanti tanto esigui da non consentire
più un profitto adeguato al gestore laddove la stazione di servizio non abbia
una metratura che consente di impiantare un bar o un lavaggio. "Proprio
come le edicole", diceva il caposquadra non ancora cinquantenne, "che
prima vendevano giocattoli, film e CD e ora vendono solo giornali con margini
di guadagno di pochi centesimi per copia. Lei vede oggi giovani che comprano
giornali?", diceva con lo sguardo rivolto in direzione della vetrina
dove campeggiava il titolo "Clamoroso! Tutto su Thick As A Brick".
Per poi aggiungere "Magari quella sensazione della carta ruvida sotto
le dita che a lei e a me sembra normale a un giovane sembra strana."
Inutile girarci intorno:
siamo ormai al punto in cui anche un giornale come Mojo commette errori quando
scrive i nomi che appaiono sotto le foto d’epoca, o non si accorge di presenze
che – seppur non strettamente pertinenti al gruppo in oggetto – sono a dir
poco clamorose.
Il problema è il solito: il trentenne non sa di che parla,
il sessantenne si è stufato di fare di nuovo il pezzo su Aqualung e inanella
qualche banalità. I protagonisti, se solo potessero, eviterebbero di parlare
di cose tanto lontane e che forse non ricordano più ma che purtroppo sono
costretti a (far finta di) ricordare per ovvi motivi economici. I ritagli
d’epoca contengono non di rado inesattezze neppure troppo piccole. Su tutto
aleggia un’aria di sciatto e tirato via che fa a pugni con la pretesa solennità
dell’occasione.
Ovviamente sarebbe facile, oggi che la materia è stata digerita
a dovere, dire cose quali "Aqualung risulta quindi ritmicamente "ingessato",
dato che il nuovo basso
"rigido" che procede per riff mal si legava a una batteria che
sui primi tre album aveva fatto una bella sezione con un basso agile e armonicamente
avveduto. Andrà meglio su Thick As A Brick, dove un nuovo batterista che "presuppone" la
pulsazione sceglierà di suonare
"intorno" al basso "rigido", che quindi assumerà un ruolo
di cardine."
Invece siamo alle solite: le problematiche (anti)religiose
per Aqualung, la vicenda di Gerald Bostock per Thick As A Brick (neppure
dire che il flauto è filtrato nel VCS3!). Ma è tutta roba che c’è già su
Wikipedia, e chi può essere disposto a pagare per leggere le stesse cose
– che non di rado sono prese proprio da lì?
Se c’è un nome al quale
è ascrivibile una non piccola parte del successo del (mini) revival del "Prog" è
quello di Steven Wilson.
Musicista di un certo nome, in proprio e con la formazione
dei Porcupine Tree, Wilson presentava delle evidentissime "affinità
elettive" che gli consentivano di operare con competenza e di avere
la fiducia di chi quella musica aveva in origine concepito e prodotto.
E’ solo attraverso il suo lavoro che una parte del "patrimonio
Prog" dell’epoca ha potuto essere riproposta sul mercato in una nuova
veste "più moderna"
ottenibile solo attraverso un procedimento di rimissaggio, e non (per tutta
una serie di motivi sui cui sarebbe troppo lungo dilungarsi qui) di semplice
rimasterizzazione.
Va da sé che una volta che si hanno a disposizione i nastri
multitraccia e il permesso dei protagonisti gli orizzonti si ampliano enormemente:
alta risoluzione, missaggi in 5.1, vinile della versione rimissata ed eventualmente
librone e box. E quindi King Crimson, Jethro Tull, EL&P, Caravan, con
altro a venire.
Lasciando da parte la questione della pertinenza e del successo
artistico dell’operazione, prendiamo qui in esame una sola questione: è stata
la stampa all’altezza del compito di veicolare le informazioni concernenti
le nuove uscite curate da Wilson?
La risposta è no. La stampa ha proceduto come sempre: intervistine
ai protagonisti, il racconto della storia dell’album originale, le foto e
così via.
Per sapere davvero cosa c’è dentro quelle cose bisogna andare
nei forum in Rete. E qui saltano fuori evidenti difetti di fabbricazione
e stampa, decisioni incomprensibili, e in un caso anche una "aggiunta
in sede di masterizzazione" della quale lo stesso Wilson era ignaro!
Va da sé che – almeno finché non vengono messi in fuga da commenti che risultano
a volte fin troppo schietti – spesso tecnici e produttori sono lì pronti
a dialogare. E questo è stato il caso di Wilson, la cui sorpresa nell’apprendere
di quell’aggiunta (e successiva reazione) rende l’abituale raccontino dei
giornali ancora più scipito.
Con l’eccezione di
un paio di interviste chilometriche e "definitive" sull’argomento
(una delle quali in Rete), non diremmo che il recente album solista di Steven
Wilson intitolato The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) abbia
goduto di molta attenzione (e qui non sapremmo dire se per questioni di valutazione
o per una percezione dell’album quale destinato a un pubblico altamente tipizzato,
quindi al di fuori del cono di attenzione abituale della rivista). Una ricerca
effettuata tramite Metacritic non ha dato grandi risultati, mentre il ricorso
a Google per cercare le recensioni in Rete in lingua italiana ha prodotto
il prevedibile panorama di orrori.
La cosa indubbiamente spiazzante per un ascoltatore che ha
profonda confidenza con gli originali è il carattere di "lavoro per
addizione di tasselli", quasi di mash-up, che l’album presenta. Ed è
una sensazione strana, dato che solitamente oggi incontriamo la citazione
tramite campionamento. Qui invece il riferimento è di tipo sia stilistico
che sonoro, ma per il tramite di una nuova esecuzione su uno strumento nuovo.
Capita quindi di ascoltare
"il flauto di Ian Anderson" suonare su "l’Hammond dei Gentle
Giant" per poi tramutarsi nel "flauto di Mel Collins su Happy Family
dei King Crimson mentre sotto c’è il pianoforte di Keith Tippett".
E continuamente l’ascoltatore si trova davanti cose quali "il
piano di Keith Emerson su Take A Pebble", "l’Hammond microfonato
sui bassi del Leslie dei Gentle Giant di Octopus", "la voce di
John Wetton su Book Of Saturday", "il basso di Chris Squire degli
Yes di Fragile",
"le acustiche con capotasto" dei Jethro Tull "Prog",
una progressione di accordi vicina a Comfortably Numb, la figura
"sepolcrale" del basso di White Hammer dei Van Der Graaf Generator,
il Mellotron dei King Crimson (e si tratta davvero di quello originale del
loro primo album!), e così via.
Il recensore non avvertito non può che procedere per citazioni
a casaccio.
Com’è largamente noto,
per realizzare The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) Steven
Wilson ha richiesto l’apporto di Alan Parsons quale tecnico del suono (Parsons
è anche indicato quale Produttore Associato). Alcuni suoni sono belli "a
prescindere", in primis il Minimoog che appare in tutto l’album, e in
assolo su The Holy Drinker (un Minimoog moderno, pur se "autentico":
il Voyager), e lo strepitoso Fender Rhodes filtrato in un modulatore ad anello
che compare nel brano d’apertura, Luminol (a proposito: il tastierista è
Adam Holzman).
Un impegno economico indubbiamente notevole (che immaginiamo
non giustificato dalle vendite prevedibili per l’album) e la decisione di
registrare il tutto in uno studio spazioso che consente un’esecuzione di
gruppo del tipo "tutti insieme" (la sezione d’archi – arrangiata
da un nome che diremmo non aver bisogno di presentazioni: Dave Stewart –
è stata invece registrata nel Regno Unito), unitamente all’apporto di Parsons,
hanno prodotto un risultato quasi iperrealista.
Va da sè che la gamma dinamica dei suoni presenti nella versione
in CD, pur non stupefacente rispetto al passato storico di questa musica,
è assolutamente strabiliante qualora paragonata a quello che capita normalmente
di ascoltare al giorno d’oggi. La cosa buffa è che però di queste cose non
si parla mai: né l’album dal suono piatto e ipercompresso né quello dalla
musicale ricchezza vengono mai citati come tali. Siamo quindi costretti a
interrogarci per l’ennesima volta su quali mezzi e quali tipologie di fonte
sonora vengano adoperati per gli ascolti dai recensori deputati a dirne al
pubblico.
Com’è noto, un giorno
il "Prog" morì. La versione di comodo fu che la plebe si era rivoltata
contro la lussuosa cappa di Rick Wakeman. Ed è una storia che fa acqua da
tutte le parti, ché altrimenti il
"fuoco amico" avrebbe risparmiato gente con le pezze al sedere
come gli Hatfield And The North.
La morte del
"Prog" segna invece un divorzio ancora oggi definitivo: quello
tra complessità e grandi numeri.
Il già citato Dave Stewart aveva indicato un paio di punti
spinosi della vicenda, procedendo di conseguenza con quei begli album incisi
con Barbara Gaskin negli anni ottanta (ricordiamo As Far As Dreams Can Go
e The Big Idea), all’epoca forse non compresi e apprezzati a sufficienza.
Ma quando capita di leggere le discussioni sui forum su quali
siano i migliori gruppi "Prog"
degli ultimi vent’anni, ferma restando la questione "gusti", non
si ha mai la sensazione che cose di qualità superiore siano in attesa di
un pubblico di vedute più ampie dell’attuale. Colpisce la pressoché totale
scomparsa del jazz tra le "influenze formative" nelle quali trovano
invece posto ambient, techno, tanto metal e perfino i Radiohead (i Pink Floyd
dei nostri giorni?), cosa che dovrebbe indicare senza troppi dubbi quale
sia il posto odieno del jazz nel panorama dei giovani.
Contro il "Prog" militano
anche la sua
"mancanza d’ironia" e la natura palese del suo lavoro intellettuale.
E che la cosa sia di una portata molto più generale del solo "Prog" è
ben dimostrato da questo passo tratto da una recensione di Aja degli Steely
Dan a firma Michael Duffy apparsa in data Dec. 1, 1977 sul quindicinale statunitense
Rolling Stone:
"Aja continuerà a fornire argomenti ai puristi del rock
che ritengono che la musica degli Steely Dan sia senz’anima, e che a causa
della sua natura di frutto di sforzo consapevole essa sia antitetica a quello
che il rock dovrebbe essere."
(…) "Quello che è sotteso alla musica degli Steely Dan – e che potrebbe,
con quest’album, mostrarne i limiti – è la sua estrema autoconsapevolezza
di natura intellettuale, sia nella musica che nei testi."
Che il "Prog" si
sia sempre preoccupato di farsi capire è ben mostrato dalla sua valorizzazione
della chiarezza, a partire dalla chiarezza d’ascolto. Chi all’epoca vide
l’amplificazione che i Pink Floyd mostravano sul retrocopertina di Ummagumma
non mancò di notare quel nome in rosso che campeggiava sulle colonnine: WEM.
Un nome già visto nelle foto scattate nel luglio di quell’anno sul palco
del concerto tenuto dai Rolling Stones a Hyde Park, e il mese prima su quello
stesso palco al concerto dei Blind Faith. E che era apparso, un anno prima,
sulla copertina dell’album d’esordio dei Jethro Tull, This Was.
E proprio i Pink Floyd hanno segnato i passi più importanti
nel progresso dell’amplificazione, per pulizia e sviluppo di tecniche innovative
quali il quad. Non sarebbe bello se qualcuno raccontasse lo sviluppo di questa
cosa? C’è chi l’ha fatto: Mark Cunningham nella serie a puntate apparsa a
partire dal marzo 1997 sul mensile Sound On Stage con il titolo di Welcome
To The Machine – The Story Of Pink Floyd’s Live Sound. (In Rete si trova.)
Dire "Prog" vuol
dire prima o poi anche chiamare in causa le copertine dello studio denominato
Hipgnosis, raccolte negli anni in svariati volumi ricchi di commenti; il
più recente per quanto riguarda il periodo storico dovrebbe essere quello
a cura di Storm Thorgerson e Aubrey Powell apparso con il titolo di For The
Love Of Vinyl – The Album Art Of Hipgnosis per i tipi della Picturebox nel
2008.
Ed è dal saggio della nota grafica Paula Scher dedicato alla
celeberrima copertina dell’album dei Pink Floyd intitolato Atom Heart Mother
che appare alle pp. 128-130 del volume appena citato che riportiamo il seguente
passo:
"Sono stata ispirata da questa magia per i successivi
trent’anni. Ho ricordato che è stato possibile creare icone e enigmi per
cose che vendevano a livello di massa. Ho ricordato che è stato possibile
creare qualcosa che poteva catturare e ispirare persone di ogni tipo senza
ricorrere a compromessi né al cinismo. E ogni giorno ho provato a creare
la mia versione personale di quella spettacolare mucca. Ci sto ancora provando."
© Beppe Colli 2013
CloudsandClocks.net | Apr. 10, 2013