Le parole
per dirlo
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di Beppe Colli
Nov. 26, 2002
Si era al corso di Metodologia della ricerca
sociale quando un collega venne fuori con questa osservazione: "Ho
il concetto perfettamente chiaro in testa ma quando provo a esprimerlo
non ci riesco". Un’esperienza tutt’altro che rara – e che è
bene tenere distinta da quanto ci accade quando, trovandoci in un’altra
nazione, sappiamo cosa vorremmo dire ma non ricordiamo (o non conosciamo)
le parole per dirlo in quella lingua. Un’osservazione senz’altro proficua
in un corso dove (semplificando) si studiavano natura e limiti del concetto
e si individuavano gli indicatori con i quali costruire gli indici che
servono a misurare un dato concetto; controllando poi che essi misurino
proprio quel concetto e non – per errore – un altro.
A quei tempi Ronald Reagan era presidente degli Stati Uniti. (Ronald
Reagan?! Come avevano potuto gli americani abboccare all’amo?) Un giorno
apparvero delle foto nelle quali Reagan, sorridente e con gessetto in
mano, stava davanti a una lavagna dov’erano scritte cifre e formule
– il giornale satirico Mad aggiunse a una di queste foto un fumetto
nel quale Reagan diceva "E se sei disoccupato paghi ancora meno!".
Erano infatti i tempi della Curva di Laffer, misteriosa costruzione
matematica che prometteva imminente prosperità per tutti e che
numerosi economisti e matematici avevano subito agevolmente dimostrato
essere totalmente assurda. Ovviamente su giornali quali Scientific American.
Il seguito della storia dimostrò senz’ombra di dubbio che la
capacità di concepire correttamente nessi è tutt’altro
che innata. E che il lento ma inesorabile abbandono della lettura (e
del ragionamento), certamente non aiutato dall’ingestione di massicce
dosi televisive, avrebbe reso la situazione ancora più grave
e disperante. Gli americani erano conciati proprio male.
Diamo qui per acquisito quanto detto da Giovanni
Sartori in Homo Videns. (Sartori ha tra l’altro il non piccolo merito
di avvertirci dell’esistenza di un problema mentre produce lavori contraddistinti
da encomiabile rigore, a differenza di quei disperati testimoni dell’apocalisse
alfabetica che mentre lamentano l’andazzo corrente ci offrono elaborati
non molto dissimili per qualità da palate di fango.) In una prospettiva
"macro", una caratteristica del nostro tempo è la perdita
di peso dei cosiddetti "corpi intermedi". Puntualmente, è
agevole riscontrare il deciso ridimensionamento del ruolo della critica
quale cerniera tra oggetto e pubblico, ruolo che oggi è con tutta
evidenza occupato dalla pubblicità nei suoi molteplici aspetti,
non sempre visibili a occhio nudo. Un fatto che può essere valutato
come bizzarro (ma del quale si è obbligati a tenere conto) è
che il fruitore solitamente percepisce questa nuova situazione come
contraddistinta da un sensibile aumento del proprio grado di libertà.
Quante volte abbiamo sentito la frase "mi scarico i pezzi e mi
faccio la mia idea"? Indubbiamente tante. (Rimane ovviamente misterioso
il motivo per cui "farsi la propria idea" sia incompatibile
con l’apprendere quelle degli altri.) E’ certamente possibile ipotizzare
un utente che reagisce in maniera "decisa" a una qualità
delle proposte percepita come scadente ma questa non sembra davvero
essere l’eventualità più comune.
Ci sono altri fattori che è bene non dimenticare. Tra i più
importanti, le ricadute di una versione decisamente "grezza"
del dibattito di enorme complessità concernente le pluralità
dei punti di vista: una credenza che nella sua versione "ruspante"
oltre ad avere l’effetto (per alcuni tutt’altro che indesiderato) di
lasciare le mani libere per ogni repentino cambio di rotta torna comoda
per occultare l’assenza di ogni tipo di argomentazione degna di questo
nome. Va da sé che se il soggetto fruitore fosse davvero appagato
da questo stato di cose (quasi) tutto filerebbe liscio. Ma così
non è. Infatti, se il situarsi su un piano argomentativo quale
"mi piace" o "è bello" (tipico, notiamo di
passata, della pubblicità) da un lato libera sicuramente dall’imbarazzo
del confronto – un imbarazzo che date le condizioni appropriate può
benissimo tradursi in reazione ostile – dall’altro costringe il soggetto
a un’estrema solitudine comunicativa, spesso vissuta con angoscia: "ho
tutto in testa ma non so come dirlo". Ma mancano le parole, o i
concetti?
I sistemi di comunicazione appaiono oggi
connotati da velocità e numero di informazioni sempre crescenti
(e conseguente immediata digeribilità delle stesse): un trend
del quale non pare affatto ragionevole attendersi nel breve termine
un’inversione di rotta. L’assunto è ormai patrimonio comune,
anche se la sua enunciazione non è sempre disinteressata (sorge
sovente il sospetto che la tanto lamentata "bassa soglia di attenzione"
del pubblico chiamata a giustificare non poche pecche dei media rispecchi
innanzitutto le condizioni – anche banalmente materiali – di chi ci
lavora). Piuttosto semplice capire chi risulta avvantaggiato da un consumo
contraddistinto da soddisfazione di breve durata e da perdita di memoria.
Certo non difficile – limitandosi alla musica – stilare l’elenco dei
perdenti: non solo gli artisti la cui produzione è contraddistinta
da non immediata fruibilità – vuoi per "difficoltà"
che per "eccesso di sottigliezza" – ma anche quelli che mal
si prestano a una facile spettacolarizzazione.
Il quadro appena tracciato può apparire
disperante. La sproporzione tra le forze in campo fin troppo evidente.
Pure, si può far tesoro di quanto appreso, innanzitutto traendo
le debite conclusioni dalle innegabili conseguenze di una mancata visibilità.
Ponendosi come obbiettivo quello di incidere concretamente, seppur con
estrema lentezza. Costruendo filtri e avendo il coraggio di apparire
"lenti". Coscienti che ciò cui non è immediatamente
attribuibile valore monetario non è per questo "senza valore".
Discretamente certi che – pur sparsi per il mondo – non si è
in pochi.
© Beppe Colli 2002
CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2002