"Musica in
crisi", take #2
(argumentative and
confrontational)
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di Beppe Colli
Feb. 11, 2016
Cosa avevamo in mente
quando, circa quattordici anni fa, abbiamo cominciato a esaminare l’eventualità
di fare qualcosa in Rete, qualcosa che poi sarebbe diventato Clouds and Clocks?
A ripensarci adesso, non è che avessimo le idee molto
chiare. Di certo, era forte l’impressione che le cose – dal nostro personale
punto di vista, messe malissimo già da molto tempo per ciò che riguarda sia i
tipi di musica che ci stavano maggiormente a cuore che le modalità di fruizione
che ci ostiniamo a considerare appropriate – sarebbero giunte di lì a poco a un
punto di non ritorno sia per quanto riguarda la possibilità di creare qualcosa
di "tangibile" come un album registrato che per le chance di tenere
in piedi una formazione in grado di suonare in modo "plausibile"
materiali di difficile esecuzione e di forte riconoscibilità.
A questo punto siamo disposti a scommettere che il lettore
sta già sorridendo, e sorridiamo un po’ anche noi, tale la sproporzione tra il
problema da risolvere e le forze in campo. In una prospettiva
"apocalittica" quale la nostra non c’è bisogno di vedere le nubi
all’orizzonte per decidere di procurarsi legna, martello e chiodi, anche se
sappiamo bene che un’Arca nel giardino di casa ha un aspetto un po’ ridicolo.
Certo, c’entrano anche degli aspetti che chiameremmo "etici". Ma –
per cambiare metafora – di fronte a un incendio crediamo che l’impulso più
logico sia quello di afferrare il primo secchio che c’è intorno e gettare
quanta più acqua possibile. Se altri non vedono l’incendio, pazienza. Quello
che dà fastidio sono le persone che discutono tranquillamente con le mani in
tasca sull’appropriatezza dell’agire, dati un secchio così piccolo e un
incendio tanto grosso.
Nella nostra prospettiva, il "come" è più
importante del "cosa", e quindi del "chi". Non una
"galleria dei preferiti", quindi, o quanto meno non necessariamente.
Convinti come siamo che le "modalità" di apprezzamento possono
benissimo "viaggiare" da un nome all’altro, e che procedere per
"nomi" fosse sbagliato, e per due motivi. Il primo, pragmatico:
procedere per nomi "taglia" senza motivo ascoltatori maturi. Il
secondo, "costitutivo": "buona musica" non è un set di
caratteristiche.
Di lì a poco la prima a
saltare fu la nostra convinzione che certi comportamenti fossero legati al
reddito. Incontrando a distanza di tempo persone che ci avevano chiesto delle
dritte in termini di nomi da ascoltare trovavamo tanta gratitudine per così
azzeccati consigli, e richieste di nuovi nomi. La nostra curiosità in merito a
dove – e a quanto – fossero stati trovati questi album trovava una risposta che
era immancabilmente "in Rete", nel senso di "l’ho
scaricato". E questo per professioni il cui reddito collegato diremmo essere
di tutto rispetto.
A questo punto la storia è ben nota, e non vale la pena
dilungarsi oltre. Quello che però vogliamo sottolineare è la quantità di
sostegno attivo dato a queste pratiche sotto forma di "obiettivi
rivoluzionari" da parte di scribacchini che inveivano contro le case
discografiche e i loro profitti ingiusti, o i mega-nomi e la loro mega-avidità.
Per motivi di titillamento di quegli istinti "rivoluzionari" propri
di una plebe stracciona. Ci sono state in seguito anche le motivazioni concernenti
l’aspetto "miope e passé" della concezione della proprietà come
oggetto fisico, ora sostituita dalla "condivisione" di quanto è molto
spesso "immateriale". "Meet the new boss/Same as the old
boss", aveva già avvertito Pete Townshend, ma inutilmente. (E d’altra
parte, non erano forse stati li meglio marchettari quelli che – novelli Lester
Bangs de noantri – avevano inveito contro il "mainstream" impugnando
bandiere "new wave"?)
Il più recente punto di arrivo è il ritorno a qualcosa di
passato che – vedi caso – somiglia all’oggi. I musicisti – questa la ratio –
devono guadagnarsi da vivere suonando dal vivo, come quando l’industria
discografica non esisteva. E a ogni modo, per quale motivo i musicisti pensano
di avere diritto a un reddito, quando la vita per tutti noi è un’incognita?
Quello che perdiamo è la possibilità di avere lavori come
The Dark Side Of The Moon. Cosa farebbero oggi Gilmour e Waters?
Registrerebbero su hard disk le loro canzoni, userebbero dei bei plug-in per le
tastiere, gli echi, un "modeling amp" per la chitarra, e qualche
amico disposto a fare i cori. Niente Alan Parsons, niente Chris Thomas, niente
"ampiezza e profondità" dell’ambiente, e poi un bel master con
dinamica DR5 perfetto per cuffiette e mp3.
Ma anche la possibilità di avere gli Henry Cow che portano
dal vivo un repertorio difficile la cui esecuzione è frutto di mesi di prove.
Sembrano argomenti di palese evidenza, ma così non è. Per
quanto possa sembrare assurdo, esistono moltitudini di persone che non sono in
grado di capire la quantità di lavoro implicita in una esecuzione degli Henry
Cow. E altre moltitudini che non hanno mai ascoltato The Dark Side Of The Moon
stando belli fermi e seduti di fronte a un paio di casse senza fare
nient’altro. Va da sé che gli uni e gli altri potrebbero trovare di nessun
interesse l’una e l’altra cosa, o capire perfettamente di cosa parliamo e non
mutare di una virgola il loro atteggiamento preesistente. Ma non sapere neppure
di cosa parliamo è un’altra cosa.
Non occorre essere
esperti di matematica e di calcolo delle probabilità per trovare quanto meno
prodigioso il fatto che ogni mese tra la miriade di nuove uscite – cinquemila?
diecimila? – i giornali che si occupano di musica siano sostanzialmente
d’accordo su quali siano i nomi da trattare, e questo è tanto più prodigioso se
si tratta di focalizzare l’attenzione su esordienti o quasi.
Facili ironie a parte, la finzione delle "pari
opportunità" della Rete svela invece quanto dispendiosa sia la
"potenza di fuoco" necessaria a creare un’attenzione durevole a
livello di massa. Ridotti a ectoplasmi i giornali specializzati, gli
"organi di informazione" si fanno beffe della musica quale origine
del carisma, con le migliori fonti di reddito in termini di sponsorizzazioni di
beni a stare in felice combinazione con una figura di artista la cui "vita
visibile" è la vera fonte di gradimento.
Non è certo diminuita la propensione al conformismo, con la
scarsità dell’attenzione dovuta a un gran bel lavoro quale Paper Wheels di Trey
Anastasio a testimoniare il terrore di essere considerati passé e non più
rilevanti e il consenso tributato a Kamasi Washington a testimoniare il terrore
di non essere illuminati dalla luce di ciò che promette di essere un nuovo
trend di cui pavoneggiarsi.
Una delle espressioni
che ci dà più fastidio è la parola "ormai", in contesti quali
"ma ormai…" e assimilabili. Questione non disgiunta dal fastidio
che proviamo quando è palese che la condizione di cui "ormai…" non
sia affatto sgradita al parlante. "Ormai i musicisti si devono
arrangiare", "ormai la gente non accetta più di pagare per avere la
musica", "ormai un biglietto del cinema a dieci euro è semplicemente
improponibile" e così via.
Ma le cose non stanno affatto così. Se avessimo certezza che
produzioni agricole provenienti da Paesi il cui presente in termini di utilizzo
di pesticidi somiglia al nostro passato giungono sui nostri mercati non saremmo
così pronti ad accettare frasi quali "ormai quell’accordo è stato
firmato", e ne richiederemmo la revisione o l’annullamento. Nel corso del
tempo è cambiato il nostro atteggiamento nei confronti dei rifiuti,
dell’inquinamento dell’aria, della vetustà del parco auto circolante, e così
via.
Il lettore potrebbe a questo punto argomentare che il
soggetto si muoverebbe al solo scopo di limitare un danno a se stesso e ai sui
cari, non a terzi di cui poco gli importa. Giusto. Però il sacrificio richiesto
– per semplicità lo poniamo su un piano economico – allo scopo di salvaguardare
"il verde", o parchi nei quali non metteremo mai piede, o una statua
che non vedremo mai se non in foto, non ha nulla a che vedere con un
"danno" personalmente inteso.
Per approdare a qualcosa di fisico, chi scrive sa bene che
quel certo album nella versione CD masterizzata da Steve Hoffman costa sei
volte la versione trovabile in (s)vendita ovunque, ma decidendo di procedere
all’acquisto sceglie di a) comprare qualcosa che considera migliore, e b)
contribuire a permettere che un masterizzatore onesto quale Steve Hoffman possa
continuare a produrre cose di qualità che possano servire quale metro di
paragone per un "giovane" di qualsiasi età, e nel nostro caso il
secondo aspetto è decisamente superiore al primo.
Con nostro grande
stupore, la fetta di pubblico che era solita acquistare musica
"difficile" e frequentare concerti degli artisti che la producono non
sembra comportarsi in maniera diversa da quello che è il "modus"
della maggioranza: fare "una vita da ricchi" con "un reddito da
poveri" grazie alle possibilità che la moderna tecnologia ci
"regala", e affanculo le conseguenze. E d’altra parte, ognuno di noi
ha di certo una lunga sfilza di torti subiti sin dai tempi della culla che
certamente "giustifica" un atteggiamento come quello di cui si dice.
Ma al di là dell’aspetto economico, il danno che chi scrive
trova irreparabile sta nel fatto che – separata la fruizione dalla necessità
dell’acquisto – il modo corrente di rapportarsi alle cose assume le modalità
del "whim", del "capriccio" nel senso della moda, che ci
consente di saltare da una cosa all’altra senza sviluppare attaccamento, cosa
che renderà pressoché impossibile il sorgere di una preferenza
"solida" in grado di giustificare un esborso in danaro.
Da un punto di vista personale rimpiangiamo molto
l’esistenza degli "album di qualità". Il lettore capisce bene che
posto che un gruppo o artista incassi fantastilioni grazie ai concerti dal vivo
sarebbe assurdo per loro spendere per migliorare qualcosa che non sia il
concerto stesso quale "esperienza non scaricabile".
Ma qual è il "prezzo della musica" che siamo disposti
a pagare? Qui le cose sono cambiate con il tempo. Questioni di
"immagine" a parte, gruppi come Eagles e Rolling Stones erano soliti
fissare a, diciamo, cento dollari il prezzo che era realistico chiedere per i
biglietti dei loro concerti, per poi vedere i bagarini venderli a cinquecento e
anche a mille dollari. Da cui la decisione di venderli direttamente a tal
prezzo.
Sfidando la monotonia, ci ostiniamo a porre la domanda:
perché vedere i Rolling Stones in uno stadio in cui non si sente nulla, con esose
richieste di parcheggio e panini di qualità dubbia venduti a caro prezzo vale
dai cento ai mille dollari e vedere Evan Parker vale una cifra che si aggira
intorno ai quindici euro? Conosciamo bene la risposta alla prima parte della
domanda: perché assistere a un concerto di quei nomi ha più a che vedere con
una festa di Carnevale formato gigante che con la musica. D’accordo. Ma perché
chi considera la musica di per se stessa il vero motivo dell’assistere a un
concerto assegna al proprio godimento un corrispettivo monetario così basso?
Questa l’ineludibile domanda.
© Beppe Colli 2016
CloudsandClocks.net | Feb. 11, 2016