Parliamo
di politica?
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di
Beppe Colli
July
14, 2003
Ovviamente ignoriamo cosa gli storici del
futuro scriveranno a proposito della fase oggi definibile come "berlusconiana"
– in politica e nel costume. E certo, qualcuno direbbe, molto dipenderà
da chi scriverà quei libri. D’altronde anche il dibattito sul
fascismo ha conosciuto qui da noi ben poche battute d’arresto – basti
pensare che quasi trent’anni fa, a trent’anni dalla fine della guerra,
era tutto un fiorire di convegni a proposito di: se il fascismo aveva
davvero costituito un elemento di rottura, e quali invece gli elementi
di continuità, e quali i lasciti liberali nel fascismo e quelli
fascisti nell’Italia repubblicana e democratica del dopoguerra e così
via. E poi il diritto, e il costume eccetera. D’altronde finché
vale la regola del "publish or perish", e finché ci
sono soldi, i dibattiti fioriscono. E a volte vengono fuori anche delle
cose non banali.
Certo, tutto si può dire tranne che
l’annuncio del "possibile, eventuale" ingresso in politica
di Berlusconi sia passato sotto silenzio. Certo, era il fatto del giorno:
"lo fa o non lo fa?"; "e se lo fa, ce la fa?"; "e
che programma avrà?"; "e con chi, eventualmente, governerà?".
Interrogativi appassionanti, come si vede, più stuzzicanti di
un giuoco di società. E poi fu la volta di: "può
un partito privo di radici nel territorio, e creato dal nulla, e modellato
su una rete di venditori di pubblicità, sperare di vincere le
elezioni? La parola agli esperti". Qualcuno provò a far
notare che, se quello che l’annunziata (e possibile, ed eventuale, e
poi reale) "discesa in campo" aveva bisogno era una cassa
di risonanza atta ad amplificare il nulla, il sistema dei media era
fin troppo felice di dargliela. Ma d’altra parte, era o non era il fatto
del giorno?
Come andò
è noto (per uno sbigottimento a caldo è sicuramente utile
rileggere La sinistra nell’era del karaoke, dibattito tra Bobbio, Boselli
e Vattimo). E certo, a qualcuno sarà forse venuto in mente il
vecchio detto secondo il quale il capitalismo, stampando e distribuendo
a scopi di mero lucro i testi della teoria e della pratica rivoluzionaria,
stava in realtà scavandosi la fossa (oppure, a scelta, preparando
la corda che lo avrebbe impiccato). Solo che qui, stranamente, le parti
sembravano essere state scambiate.
A
distanza di tanti
anni le cose non sembrano essere molto mutate – chi ricorda il volumetto
intitolato WWW.cavalieremiconsenta…? (Mursia, 2000, Lire 18.000) Come
recita il retrocopertina: "Le immagini della campagna elettorale
più divertente del secolo". E in effetti a guardare quelle
immagini – e a scambiarcele via e-mail – ci siamo fatti tante risate,
non è vero?
La cosa
un po’ strana è che per una parte del sistema mediatico (che
gli è contraria!) l’unico argomento immediatamente traducibile
in fonte di reddito sembra essere la figura di Berlusconi. Il quale,
bontà sua, non cessa di fornire ghiotti spunti all’avversario,
con cadenza pressoché quotidiana. E’ difficile sfuggire alla
sgradevole sensazione che in certi circoli Berlusconi sia diventato
non molto più che un argomento "da bar" (come il calcio)
o "da ascensore" (come il tempo). Ancor più sgradevole
accorgersi del fatto che esistono firme per le quali chiosare ogni mossa
berlusconiana è di fatto l’unica occupazione visibile (eccezion
fatta per la stesura dei testi di un qualche spettacolo teatrale).
Il che
a conti fatti non dovrebbe forse stupire troppo. Siamo da sempre il
paese della cronaca politica autoreferenziale da sette pagine fitte
per ogni giorno che il buon Dio manda in terra, con il terribile "pastone"
e almeno mezza pagina (puntualmente intitolata "Il retroscena")
per spiegare ogni rutto.
Ovviamente
tutto ciò avrà un senso ben diverso nel caso in cui la
parte restante del giornale sarà fatta di ottimi reportage, inchieste,
corrispondenze culturali, lunghe e puntigliosissime interviste a musicisti
anche "difficili", ingrandimenti di dischi, dotte esegesi
dello "specifico filmico", recuperi non segnati da anniversari
da calendario, almeno due pagine formato lenzuolo riservate a interventi
di economisti e sociologi che ci spieghino per davvero la misteriosissima
riforma delle pensioni. Ma se la "cronaca berlusconiana" fosse
il fiore all’occhiello del giornale "controcorrente, e resistente,
coraggiosamente", e il resto non fosse granché distinguibile
dallo sciatto (quanto sciatto!) marchettificio altrove imperante? Ecco
un bell’inghippo.
Certo che l’atteggiamento della stampa nei
confronti della televisione è non poco paradossale (al momento
non riusciamo a ricordare chi definì questo atteggiamento come
simile a quello del marito che, pur di fare un dispetto alla propria
signora, se li tagliò – Umberto Eco?): ogni sospiro viene analizzato,
commentato e chiosato con impegno degno di miglior causa. Che le cose
non siano sempre state così è pacifico: è oggi
perfettamente possibile partecipare a una conversazione su argomenti
televisivi pur non vedendo mai la televisione, cosa assolutamente impossibile
fino agli anni ottanta.
La famosa
"strizza del ’94" sortì un qualche effetto. Stante
il tempo tecnico di darsi una regolata, togliere spazio a nomi graditi
a chissà chi, gridare un paio di "ragazzi, sveglia!",
per un anno o poco più sembrò di essere tornati ai vecchi
tempi: giornale insieme più colto e leggibile, inchieste, un
certo "orgoglio della categoria" che sembrava irrimediabilmente
perduto. Durò poco.
Cosa vogliano
i pubblicitari, in effetti, non è mai del tutto chiaro. Intendiamo:
quale sia la parte "dolcemente imposta" dall’esterno e quali
i margini dei quali si ha da essere grati alle "intelligenze"
interne ai giornali. Se ben ricordiamo, come riferì con la consueta
chiarezza Giuseppe Turani, fu durante un convegno di pubblicitari che,
alle rimostranze della stampa cenerentola degli introiti, Giuliano Malgara
chiese due cose: a) il colore; b) i supplementi patinati; fatti gli
investimenti, l’apporto pubblicitario non sarebbe mancato. E così
fu.
La recente
trasformazione di un noto supplemento musicale – da aggeggino a mero
contenitore di pubblicità a piena pagina cui fanno da "contraltare"
francobolli di amenità – fa sorgere molte perplessità.
Ci chiediamo: si rendono conto i redattori e i collaboratori della svalutazione
dell’oggetto della quale sono direttamente responsabili? Comprendono
appieno la portata del cinismo che contribuiscono a spargere a piene
mani? Riescono a giustificare il tutto con uno stipendio? Per chi votano?
Certo è difficile superare quanto recentemente affermato dal
redattore di un settimanale che crediamo detenga il record assoluto
di segnalazioni di errori: "io faccio tutto con spirito di divertimento,
perché farla tanto seria?".
In effetti non ci è chiaro se la sinistra
"politico-mediatica": a) creda che gli italiani siano stati
irrimediabilmente rincretiniti dalla televisione, quindi inutile tentare
l’impossibile; resta solo da sperare che si comportino diversamente
dentro l’urna; b) condivida "in prima persona" l’orizzonte
televisivo; c) come ogni azienda, debba far quadrare i conti. (Si dà
qui per scontato lo sfacelo scolastico e il bassissimo grado di alfabetizzazione
reale.) E’ comunque certo che la risposta culturale al "berlusconismo"
è stata debolissima quando non del tutto assente. A fianco, chicche
quali la giornata dedicata a Giòn Lènon, con le mamme
che portano a spasso i pupi mentre ascoltano un grande.
Estremamente
disturbante, inoltre, l’abitudine di "arruolare" personalità
prima disprezzate o, nel migliore dei casi, ignorate. Chi avrebbe mai
speso il nome di Karl Popper, liberal anticomunista? Eppure chi non
conosce oggi il Popper "sociologo della televisione"? E che
dire di quel brav’uomo di Sartori?
I già
citati storici del futuro analizzeranno certamente il problema da un
orizzonte ampio e distante. Possiamo comunque provare a chiederci se
la sinistra "visibile" non abbia coltivato dei comportamenti
da "bolscevismo di borgata" (comportamenti a monte dei quali
possono sussistere le causazioni più svariate), cosa che ha poi
finito per lasciarla senza risorse culturali spendibili – e utili innanzitutto
per capire. Sembrerà indubbiamente di cattivo gusto citare la
rivalutazione della discoteca sull’onda degli elementi "nazionalpopolari"
di Tony Manero (cos’era, Lotta Continua?). Ma qual è la cifra
stilistica che contraddistinse quale elemento innovativo del linguaggio
(e per sua stessa ammissione) la sinistra televisiva se non: "la
piazza, la ggente"? Chi ha considerato il popolo vociante elemento
di legittimazione? Chi ha considerato il numero segno di qualità?
E allora, cosa obiettare a chi si appella al "popolo" come
fonte di legittimazione contro "funzionari che hanno solo vinto
un concorso"?
©
Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net
| July 14, 2003