Pick of the Week #12
Frank Zappa: Jazz From Hell
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di Beppe Colli
Feb. 28, 2021



Di tanto in tanto ci ritroviamo a pensare a Frank Zappa, soprattutto quando ci interroghiamo su come meglio presentarlo a un eventuale curioso (sembra strano, ma capita ancora) che non ha la benché minima idea né della musica né del contesto in cui è nata. E che ovviamente non riesce a credere che "quella" musica potesse un tempo riempire stadi e palasport, quando l’immagine di Zappa era un buon modo di vendere una rivista o addirittura accompagnarne la nascita in edicola.

C’è Zappa il chitarrista. Zappa il polemista. Zappa il compositore di musica "seria". Zappa l’autore di canzoni che nel clima odierno non andrebbero mai in radio. Tanti Zappa dentro uno solo.

Invece ci capita sempre più spesso di associare il nome Zappa a un senso di fastidio, e questo è il motivo per cui ci avviciniamo sempre meno alla sezione del nostro armadio che ospita gli LP di Zappa (per i curiosi, è quella di mezzo nell’anta più vicina al muro).

Dobbiamo ammettere che quello che ci viene in mente, per associazione di idee, è un racconto di fantascienza. Del quale non ricordiamo né il titolo né l’autore, ma la cui storia pressappoco è questa.

Un ricco signore fa una battuta di caccia su un altro pianeta. Trovato l’enorme animale da abbattere, gli spara da molto lontano con un fucile… spaziale. Poi si avvicina per scattare la classica foto, ed è a questo punto che i parassiti che abitavano la spessa pelle dell’enorme animale – e che immaginiamo simili a grosse aragoste – si avventano sul cacciatore, gli tagliano il tubo dell’ossigeno, ne squarciano la tuta e cominciano a mangiarselo ancora caldo, per poi trascinare la carcassa da spolpare su per una collina.

La metafora come un tutto non funziona, il senso non è quello letterale, ma quasi nostro malgrado ci ritroviamo spesso ad accomunare la morte dell’animale e la fuga dei parassiti alla morte di Zappa e a tutto quell’oscuro agitarsi degli eredi, dentro e fuori le aule di tribunale, con gli affari di famiglia sbattuti in comunicati ufficiali su riviste quali Billboard e Variety.

La vicenda comincia a emanare un puzzo di danaro davvero sgradevole. Passi per la rivista che non si occupava quasi mai di Zappa e alla quale la nuova distribuzione da parte di una mega-major ha improvvisamente fatto vedere la luce. Passi per la pioggia di concerti "integrali" quando Zappa aveva sempre preferito scegliere fior da fiore, tagliando qui e aggiustando là.

Ma abbiamo sempre pensato che quando si tratta di "omaggi" l’omaggiante deve essere molto più famoso dell’omaggiato, sì da giustificare l’intento divulgativo della cosa e fugare ogni sospetto di volersi fare lo stipendio con la scusa di omaggiare il morto. E questo al netto dell’apparizione di fantasmi sul palcoscenico.

Come sempre in questi casi, il morto non può parlare. Ma ci siamo veramente stufati di leggere frasi che ci rivelano senza ombra di dubbio cosa Zappa avrebbe pensato.

E con questo tornado di pensieri in testa la mano va dritta su un album: Jazz From Hell.

Ricordiamo belle recensioni – e anche un Grammy® – ma le recensioni del tempo non ci sembravano davvero convinte. E anche quell’assolo di chitarra – bello, per carità, non si discute – sembrava messo lì tanto per dare un contentino a coloro i quali necessitavano di rassicurazioni sul fatto che, sì, di un album "rock" si trattava, nonostante. Poi c’erano invece servizi spettacolari per acume e profondità, un bell’esempio essendo la "cover story" firmata da Jim Aikin e Robert L. Doerschuck apparsa sul mensile statunitense Keyboard (February 1987).

Oggi per certi versi il quadro è molto cambiato. Mentre in passato la musica andava su nastro, con il computer di là da venire e lo studio di registrazione quale "terreno di gioco" inaccessibile al singolo individuo, oggi a ben vedere tutta la musica è "computer music", e la memoria del singolo non è più necessariamente legata solo a quanto davvero possibile nel mondo fisico, per esecuzioni e "materia prima"; mentre la musica oggi più popolare, al di là delle "etichette", ha incorporato il senso deliberato di "artificiale" che diremmo nato su scala di massa con l’hip-hop.

In questo senso, un album come Jazz From Hell, per molti versi "rifiutato" al tempo della sua uscita quale "non rock" – cioè a dire: non chitarristico, non "in tempo reale", pieno di timbriche "estranee" – può essere di gran lunga meglio accolto oggi, per soli motivi timbrici (e, ovviamente, culturali).

E allora non sarebbe meglio ascoltare G-Spot Tornado quale assoluto protagonista di uno spot che reclamizza sex toys – il cui acquisto in tempi di pandemia ci risulta esteso e defiscalizzato – e vedere il brano fungere da rampa di lancio per la riscoperta del catalogo zappiano? Ci pare più dignitoso vedere qualcuno senza arte né parte tentare di sopravvivere dicendo "quant’era bella la musica di mio padre"?

(Si consideri che abbiamo affrontato tutta la questione con mano leggerissima.)

Come ben noto, Frank Zappa conosce in giovane età l’amore per l’orchestra e la consapevolezza del lavoro di studio; già sul primo album, Freak Out (1966), le due cose sono presenti, seppure in modo forzatamente embrionale. Poco tempo dopo, con Lumpy Gravy e We’re Only In It For The Money, il quadro è già maturo.

Forse a causa della nostra scarsa predilezione per il lavoro orchestrale in genere – con due importanti eccezioni: 200 Motels è un affresco composito, Orchestral Favourites un lavoro per certi aspetti "ibrido" – la lunga e travagliata vicenda che ha visto protagonisti (o, per meglio dire, antagonisti) Frank Zappa e le formazioni orchestrali ci ha appassionato poco o nulla. E posto che non abbiamo mai pensato che Zappa soffrisse di complessi di inferiorità culturali – un’asserzione discretamente diffusa nella vulgata dell’epoca – ci stupì vedere l’accanimento con cui Zappa sembrava voler dialogare con un ambiente autoreferenziale e per molti versi meschino dove non valeva certo l’ethos "rock" da lui sempre vissuto.

Ovviamente acquistammo London Symphony Orchestra Vol. I (1983), e ovviamente mettemmo mano al portafogli per Boulez Conducts Zappa: The Perfect Stranger (1984), nonché per quel capriccio che fu Francesco Zappa (1984).

La rivelazione di The Perfect Stranger furono però i brani "digitali" eseguiti al Synclavier, che suonavano freschi e di grande fascino a dispetto di una timbrica che era solo frutto della sintesi in FM (le funzioni di campionamento del Synclavier essendo di là da venire). Se il lirismo di Outside Now Again faceva già parte della tavolozza zappiana, il quadro sinistro di Jonestown appariva per molti aspetti nuovo. Stupiva l’ascolto di The Girl In The Magnesium Dress, brano tanto atipico da risultare di difficile attribuzione (solo leggendo le interviste "tecniche" capimmo che quel carattere quasi "aleatorio" era dovuto a un processo di organizzazione formale sovrapposto a una "nebulosa" di codici originati alla Page G del Synclavier).

Frank Zappa Meets The Mothers Of Prevention (1985) offriva una prima facciata "rock" a ben vedere usuale, ma splendida. La seconda presentava il gigantesco affresco di Porn Wars e un paio di strumentali eseguiti al Synclavier che ci parvero un onesto tentativo di andare avanti. (Ci riferiamo ovviamente all’edizione USA dell’album, l’unica da noi conosciuta per anni.)

Finalmente venne l’ora di Jazz From Hell (1986), album che entrò di diritto nella ristretta lista dei "capolavori zappiani" per mai uscirne. E che si vide accanto quel Civilization Phaze III (1994) pubblicato dopo la morte di Zappa e lodatissimo da tutti senza essere stato ascoltato (ma il fatto non ci stupì più di tanto: erano state le lodi fasulle a pagina intera seguite alla sua morte a svelarci tutti i segreti dell’espressione "avere la faccia come il culo").

Per motivi di praticità abbiamo deciso di riascoltare questa parte del repertorio zappiano in formato CD, iniziando con The Perfect Stranger. L’edizione da noi posseduta è quella originale Angel/EMI, che Zappa disse di qualità inferiore rispetto a quella da lui successivamente preparata, ma dato che lo disse tante volte a proposito di tante cose decidemmo di astenerci.

Passiamo a Meets The Mothers Of Prevention, e dopo pochi minuti ci sembra che i suoni ci stiano tagliando la barba. Giriamo la custodia del CD, ed ecco comparire la temuta scritta: U.M.R.K. DIGITAL REMIX. La stessa che compare sulla copertina del CD di Jazz From Hell in nostro possesso. (Sappiamo che ci sono versioni successive in CD. Sappiamo anche che non riusciamo mai a trovare soldi scavando per terra.)

(Ricordiamo al lettore che nel passaggio di catalogo dal formato vinile a quello CD, in quegli anni il giudizio di Zappa fu spesso falloso. La fretta di siglare l’accordo con la Rykodisc non contribuì a che i tecnici che lo coadiuvavano scegliessero per il meglio.)

Non restava che tirar fuori l’LP: la versione originale USA da noi acquistata a quel tempo.

Quello che salta subito alle orecchie ascoltando l’LP (dell’epoca) è l’enorme dinamica del suono, mai stancante e che invita a un aumento deciso del volume. Ma quella che viene subito a fuoco è la dimensione "verticale" del fronte sonoro che contraddistingue i migliori album dell’epoca (migliori in quanto a cura e sapienza tecnica, il giudizio musicale è altra cosa). Una dimensione sparita ben prima della profondità e che ha lasciato il fronte sonoro degli odierni CD (anche in forma di vinile) a presentarsi come un foglio di carta molto largo e ridotto in altezza.

Jazz From Hell è un album stereo. Non sembra una gran rivelazione. Quel che intendiamo dire è che i due canali dialogano in modo decisamente superiore alla norma.

Semplificando una questione decisamente complessa, diremo che l’uso del Synclavier fatto da Zappa su quest’album tende a due scopi. Innanzitutto quello di rendere minore la quantità di errore insito nel portare la composizione scritta alla dimensione esecutiva, con il correlato di rendere possibile l’esecuzione di musica che un essere umano non potrebbe mai eseguire. L’altro aspetto è quello di poter creare delle timbriche "ibride" mai ascoltate nel "mondo reale".

Gli inconvenienti erano principalmente due: il fattore costo (a ogni avanzamento di software e hardware erano dolori, e il costo eccessivo a fronte di una utenza base esigua fu il fattore primo del fallimento dell’azienda; ma quella era un’epoca che non aveva ancora visto "un computer in ogni casa", quindi l’errore è meno stupido di quanto possa apparire ex post); e il carattere tutto sommato "statico" delle timbriche campionate (qui dobbiamo confessare di esserci interrogati sulla natura spesso "frenetica" dei brani di questo album: se, cioè, ci fosse il tentativo di non far notare che i timbri erano "quasi" realistici, ma non proprio, adottando un "bersaglio mobile"; Zappa asseriva di avere delle partiture quale punto di partenza; ma anche che gli avanzamenti dell’hardware disponibile retroagivano sulle partiture).

Un’occhiata ai brani?

Night School è per certi versi l’equivalente di una Peaches En Regalia: un brano semplice, melodico, orecchiabile, saggiamente posto in apertura di album. Percussioni a go-go, pianoforte, timbri sintetici non troppo lontani da quello che i sintetizzatori Prophet e Oberheim ci offrivano a quei tempi. Un bel movimento melodico nei bassi introduce un assolo di "piano" con dei misteriosi "pitch bend" che ricordano la musica indiana (ricordiamo l’amore di Zappa per questa musica, e l’album da lui prodotto per L. Shankar). Vogliamo qui sottolineare come il pianoforte iniziale si situi a un volume minore rispetto alle percussioni, con il "pianoforte" solista che entra in seguito a stagliarsi al di sopra, con un bell’effetto dinamico.

The Beltway Bandits offre un carattere tematico "per clarinetti" che non sarebbe stato fuori posto sulla prima facciata di Burnt Weeny Sandwich. In uno svolgimento melodico tutt’altro che arduo, torna sempre a stupirci quella successione: due paia di note che si ripetono un certo numero di volte e che sempre ci inducono a credere che lo stilo sia incantato nel solco.

While You Were Art II è il brano più lungo e complesso dell’album. L’inizio è melodico e sobrio, segue un episodio dove il ritmo si allenta e l’orchestrazione si fa rarefatta, e poi un progressivo gonfiarsi della densità sonora. Una fine "imprevedibile", ogni volta "ovvia", ex post.

Jazz From Hell accoppia sax tenore e contrabbasso e timbri e svolgimenti "incongrui", sembra davvero una somma di elementi jazz autentici ma "decontestualizzati".

G-Spot Tornado è un tormentone dalla bella fissità pur nel continuo variare timbrico. Spunta dal nulla un trascinante e metallico basso in "slappin’ & poppin’" – sembra Arthur Barrow! – e poi, sorpresa delle sorprese, un inciso compositivo che, complici le timbriche adottate, sembra frutto della penna di Joseph Zawinul. Riprende il tema.

Damp Ankles presenta una grande varietà melodica e un "loop" – il verso di un animale amazzonico? il suono di un guiro? – a far da collante. Da sempre il nostro momento preferito.

St. Etienne è l’assolo di chitarra cui si è già fatto riferimento. Molto spazio "vuoto", un Chad Wackerman che sembra offrire una versione "marziale" dei contrappunti batteristici di Vinnie Colaiuta. All’epoca l’inserimento di questo brano ci sembrò una comoda scappatoia, oggi che le nostre capacità di concentrazione sono di gran lunga aumentate siamo grati che questo cambiamento timbrico ci dia la possibilità di ritarare l’ascolto.

Massaggio Galore stupisce per più motivi, innanzitutto per gli inserti vocali "a sorpresa". Ma diremmo che la chiave della composizione sia da rinvenire nel contrasto tra l’aspetto tematico presente in modo sommesso sul canale sinistro e l’assalto "funky-techno" sul canale destro, debordante verso il centro.

Poco più di mezz’ora. Un bel respiro e lo ascoltiamo di nuovo?


© Beppe Colli 2021

CloudsandClocks.net | Feb. 28, 2021