Pick of the Week #3
Graham Nash/David Crosby
Where Will I Be?/Page 43
(Graham Nash David Crosby, 1972)
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di Beppe Colli
Dec. 7, 2020



Buffo ritrovarsi a pensare a com’era il mondo prima di Internet guardando la copertina di un vecchio album: If I Could Only Remember My Name (1971), celebre esordio solista di David Crosby. Una copertina che non mancava mai di catturare immediatamente lo sguardo, in quel bel formato 12" proprio ai "33 giri". Un uso dell’immagine "filmico" che diremmo innovativo, con una indovinata sovrapposizione di elementi e la compresenza di un piano ravvicinato dell’artista e di un campo lungo di quello che era il suo grande amore: il mare.

A quel tempo era del tutto normale, al momento di entrare nella stanza di qualcuno che si conosceva poco o nulla, dare un’occhiata alla sua "collezione di dischi": quei dieci o venti titoli, raramente molti di più, che contraddistinguevano chi prendeva la musica sul serio. Se la collezione era di riguardo, si trattava di un buon orecchio. Ma se tra le copertine faceva capolino lo sguardo di David Crosby sovrapposto al mare, allora si trattava proprio di un ascoltatore speciale, un amante dell’ascolto attento e della "soddisfazione differita" che giunge solo dopo un certo numero di ascolti esplorativi.

Quello che rimaneva sconosciuto era il giudizio degli "altri" che non conoscevamo o dei quali non sospettavamo neppure l’esistenza. Conoscere le vendite di un disco, o per meglio dire il suo piazzamento in classifica, non era poi troppo difficile, con la radio ad annunciare "dai primi posti delle classifiche americane" e le copertine dei singoli a riprodurre spicchi delle testate di settore – Cash Box, Billboard, ecc. – a testimoniare che proprio di grande successo si trattava.

(E’ solo con la metà degli anni settanta che le "radio private" italiane – "radio libere", come da celebre canzone – cominciano a considerare irrinunciabile l’abbonamento a Billboard, che essendo una testata settimanale che giungeva per via aerea dagli Stati Uniti era in grado di svuotare anche i portafogli più gonfi.)

Scoprire l’esistenza di un "diverso parere" era in grado di suscitare aspre polemiche e – nei casi estremi – mettere in serio pericolo consolidate amicizie. Irripetibili i giudizi – e le ingiurie – lanciate in direzione di quei pochi critici che a quel tempo era possibile leggere, raramente in un’altra lingua.

Ancor più sconcertante apprendere ex post che il giudizio su un album a noi caro è tutt’altro che univoco. E che l’apprezzamento per quell’album di David Crosby è tutt’altro che universale, e che penne illustri quali Robert Christgau e Lester Bangs lo hanno trattato con una sufficienza che sconfina nel dileggio.

La recensione di Lester Bangs – su Rolling Stone, 4/15/71 – ammette che "it is not a bad album" ma poi ne caratterizza la potenziale funzione in questi termini: "It would make a perfect aural aid to digestion when you’re having guests over for dinner". Dopo un paragone sfavorevole con l’album solo di Alexander Spence, Oar, giunge puntuale la stoccata: "And oh, the songs! They may sort of mumble and drone into each other, but they sure got vibes!".

Più semplice riassumere il giudizio di Robert Christgau, poche righe che iniziano con "This disgraceful performance" e si chiudono con uno dei suoi voti più bassi di sempre (D-). La recensione annuncia un concorso a premi tra i lettori per cambiare nome a David Crosby. Christgau elenca le sue proposte. (Forse ancora più severo il giudizio sull’album di David Crosby e Graham Nash di cui qui si dirà: "Two stars trapped in their own mannerisms, filtering material through a style.")

Le sorprese non mancano neppure tra i giudizi contemporanei – e questo è solo logico – ma con una variante del tutto inattesa: l’argomentazione frou-frou che vorrebbe essere di lode ma che finisce per rendere il materiale ridicolo. Fa il suo ingresso Amanda Petrusich con il pezzo apparso in data July 16, 2019 sul Culture Desk del settimanale statunitense New Yorker con il titolo "David Crosby Celebrates His Ornery Self in the Documentary ‘Remember My Name’".

"The record was a moderate success upon its release, but it has since been heralded as a weirdo classic, beloved by stoners and record geeks for its easy harmonies and pleasantly meandering melodies."

Qualificare If I Could Only Remember My Name come un "classico della categoria strambi" è ben strano – ascoltato ex post, non è certo un album tanto inusuale – ma lo è ancor di più se parliamo di "armonie carezzevoli" e "melodie piacevolmente ondeggianti".

Ancor più strano è utilizzare la stessa caratterizzazione usata da Lester Bangs, ma quale complimento: musica considerata quale simile a un party all’aria aperta.

"Many of its best songs feel like luxuriating in a long summer afternoon in the country, when good friends have come by and the fireflies are just beginning to gather in the yard: the music is warm, buoying, and gently psychedelic."

In Rete il pezzo della Petrusich offre due link accoppiati alle parole "best" e "songs": uno porta alla canzone I’d Swear There Was Somebody Here, l’altro a Laughing. Brani che diremmo celeberrimi, laddove il primo, con i suoi echi di salmodiare proprio alla musica indiana, è una meditazione solenne sull’apparizione spettrale di qualcuno che fu a noi caro (oltre a essere una delle interpretazioni più "strafatte" di Crosby, come da testimonianza di Stephen Barncard, il tecnico del suono complice della creazione); mentre il secondo si interroga in maniera insieme serena e dolorosa – una qualità condivisa dalla pedal steel guitar di Jerry Garcia, qui ospite – sull’illusorietà del cercare una risposta, o una luce nelle tenebre, o la verità; ed è magistrale il contrasto tra la voce piccola e sullo sfondo che testimonia la ricerca e il coro maestoso che ne annuncia in stereo in modo sempre uguale l’esito infausto: "I was" (pausa sapiente) "mistaken…".

E crediamo che ci siano pochi esempi altrettanto precisi nell’illustrare la volgarità dell’ascolto contemporaneo quanto il paragonare questi due brani all’atmosfera serena di un party in giardino con gli amici.

Con celebrità quali David Crosby e Graham Nash è possibile procedere per sommi capi.

Crosby veniva dai Byrds, celebri in tutto il mondo per aver inventato il "folk rock" con un brano di successo planetario quale Mr. Tambourine Man e i successivi Turn! Turn! Turn!, Eight Miles High e So You Want To Be A Rock ‘n’ Roll Star (il cui retro su singolo era un brano che preannunciava la futura e completa maturità di Crosby, Everybody’s Been Burned).

Nash veniva dagli Hollies, gruppo inglese del quale diremmo non sia rimasto un ricordo altrettanto forte ma che all’epoca aveva rivaleggiato in popolarità con i Beatles. In quel gruppo Nash affinò quel suo modo tipico di esprimersi, succinto e poco incline agli orpelli, che ne contraddistinguerà tutta la produzione futura.

La sigla da studio legale – Crosby, Stills & Nash – annunciava un sodalizio con l’ex Buffalo Springfield Stephen Stills, ottimo chitarrista e pluristrumentista (e autore di For What It’s Worth, unico vero successo del suo ex gruppo), per un album omonimo (1969) che influenza il suono di mezzo mondo. Tipici di Nash, Marrakesh Express e Lady Of The Island. Tipici di Crosby, Guinnevere e Long Time Gone.

Déjà Vu aggiunge un altro ex Buffalo Springfield, Neil Young. Nash scrive Teach Your Children e Our House mentre Crosby firma Almost Cut My Hair e Déjà Vu.

I brani di Nash tirano alla grande come singoli, la loro comunicativa linearità trova facilmente un’assonanza con il pubblico tale da mandarli ai primi posti in classifica. I brani di Crosby sono più sperimentali, meno lineari, con ampio uso degli spazi "vuoti", delle accordature "aperte" e di un senso armonico decisamente poco comune per la musica "pop-rock" di allora.

Il primo album del doppio 4 Way Street (1971), che testimonia l’esistenza dal vivo del quartetto, offre alcuni pezzi allora inediti quali il celeberrimo inno di impegno politico-sociale scritto da Nash, Chicago, e la splendida The Lee Shore di Crosby.

I componenti del gruppo pubblicano quasi in contemporanea quattro album solisti. Songs For Beginners (1971) conferma la cifra stilistica di Nash, con buon successo di vendite. Il più volte citato If I Could Only Remember My Name (1971) è quello che vende meno, e l’ascolto diretto spiega senza difficoltà il perché.

Se l’apertura di Music Is Love – brano che una troppo stretta frequentazione ha reso all’epoca inascoltabile – ha il compito di rimandare al celebrato quartetto e la seguente Cowboy Movie – con i Grateful Dead e Jerry Garcia a duettare con se stesso – deve dimostrare che Crosby può fare il rock, il resto è da antologia.

Tamalpais High (At About 3), Laughing, Traction In The Rain, Songs With No Words (Tree With No Leaves) offrono una dimensione musicale al contempo ricca e misurata. Partecipazione speciale di Grateful Dead, Jefferson Airplane, un Nash di passaggio, e una chiusa con due brani celeberrimi che presentano in tre minuti complessivi un momento magico e irripetibile.

Chi ha presente la mezz’ora incisa dal vivo negli studi della BBC che è (finora?) possibile vedere in Rete conosce già l’intesa esistente tra Crosby e Nash, qui mostrati "voce & chitarra" a eseguire cose edite e non. Il duo decide di proseguite il sodalizio in studio e in tour, da cui l’album da noi sempre chiamato Crosby & Nash ma in realtà accreditato a Graham Nash David Crosby.

A differenza dei precedenti due album solisti, Nash & Crosby (1972) non è una parata di stelle, anche se i bei nomi non mancano. Il grosso del peso strumentale cade su quattro musicisti collettivamente conosciuti come The Section ma che all’epoca lavoravano soprattutto in qualità di sessionmen: Russell Kunkel alla batteria, Leland Sklar al basso (celebre quanto la sua barba), Craig Doerge alle tastiere e Danny "Kootch" alla chitarra (destinato a un futuro commercialmente radioso quale collaboratore primo del Don Henley post-Eagles). I quattro sono perfetti nel ruolo di accompagnatori "normali" (si ascoltino le finezze di Sklar nel brano di Nash intitolato Girl To Be On My Mind, una miscela indovinata e briosa di Paul McCartney e Jack Bruce per un brano non poco beatlesiano) ma riescono bene nel difficile compito di "riempire" pur suonando poco sui brani decisamente sfuggenti di Crosby.

Non sfigurano i brani "centrali" di Nash – Strangers Rooms, Frozen Smiles, Girl To Be On My Mind – ma gli assi sono senz’altro quelli posti strategicamente in apertura e chiusura di album. Southbound Train, con armonica e groove "riflessivo" – sono Johnny Barbata alla batteria e Chris Ethridge al basso – medita su Liberty, Equality e Fraternity. Mentre Immigration Man – strano che nessuno in epoca trumpiana abbia voluto cogliere l’opportunità di una ripresa – ha il groove di Johnny Barbata accoppiato al basso nervoso di Greg Reeves, qui davvero ottimo.

I brani di Crosby. Whole Cloth si interroga su un tempo che si trascina e un grande lavoro dei musicisti di accompagnamento, Games vede la batteria suonata con le spazzole dialogare con il pianoforte e un ottimo lavoro di Sklar, The Wall Song ha i Grateful Dead quasi al completo, Nash a inventarsi una frase di piano che "lega" il pezzo e un’immagine – quella della porta che si apre nel muro a rivelare un mondo meraviglioso – che diremmo un classico dei "miti e leggende della controcultura" dell’epoca (un episodio che narra la circostanza è contenuto nel famoso libro di Philip K. Dick intitolato A Scanner Darkly).

Where Will I Be? vede David Crosby in quasi completa solitudine. Tre versi con essenziale accompagnamento di chitarra, poi una lunga sezione per ensemble di voci sovraincise con echi misteriosi del piano elettrico, un virare dal quasi sereno al quasi disperato, quattro versi e la chiusa. Perfetto accoppiamento, una breve cesura ci porta Page 43, dove una melodia limpida e serena sottolineata da un gran lavoro di spazzole di Russ Kunkel e assistita da serene voci di sottofondo illustra "la perfetta ricetta per la serenità" dell’essere umano.


© Beppe Colli 2020

CloudsandClocks.net | Dec. 7, 2020