Pick of the Week #16
10 Lovin’ Spoonfuls
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di Beppe Colli
Mar. 28, 2021



Quella di "American Beatles" è un’etichetta estremamente impegnativa; ciò nonostante si è perso il conto del numero dei "complessi" del passato a proposito dei quali essa è stata tirata impropriamente in ballo.

Un paragone decisamente scomodo – considerazioni di livello artistico a parte, i Beatles furono enormi come nessun altro è mai più stato – ma che per un attimo sembrò attagliarsi alla freschezza e alla vivacità della musica dei Lovin’ Spoonful.

Un quartetto newyorchese per il quale venne adoperata la definizione di "good time music", per certi versi appropriata ma senz’altro limitativa rispetto alla tavolozza offerta dalla loro musica; una formazione che se non divenne mai "the American Beatles" per un attimo influenzò proprio i Beatles, nella persona di Paul McCartney: come lo stesso "Macca" ha più volte dichiarato, il brano Good Day Sunshine, da Revolver, è chiaramente ispirato alla musica dei Lovin’ Spoonful.

Da parte nostra aggiungeremmo quella "dichiarazione d’amore alla marijuana" che è Got To Get You Into My Life, anch’essa su Revolver: musicalmente un omaggio al suono R&B dell’epoca, il brano porta nel testo più di un ricordo dei Lovin’ Spoonful di Daydream, che recita: "It’s starring me and my sweet thing/’Cause she’s the one makes me feel this way".

(Ricordiamo al lettore che moltissima musica di quel periodo è stata cantata e suonata da musicisti "con le palpebre pesanti" come quelle di John Sebastian dei Lovin’ Spoonful. La migliore dimostrazione "grafica" essendo a nostra memoria lo sguardo di Dave Mason sulla copertina del secondo, omonimo, album dei Traffic.)

Non fu da meno John Lennon: il ritrovamento del suo jukebox rivelò la presenza di un 45 giri dei Lovin’ Spoonful; mentre una registrazione emersa molti anni dopo lo sente imprecare a proposito di un accordo che non riesce a trovare sul manico – crediamo fosse un Re min7 – e si tratta proprio di un brano del quartetto newyorchese.

E’ il 1965 quando i Lovin’ Spoonful irrompono nelle classifiche con Do You Believe In Magic, e nel giro di un paio d’anni sono ben sette i brani che vanno nella Top Ten, con un celeberrimo numero uno, Summer In The City, e tre album – Do You Believe In Magic (1965), Daydream (1966) e Hums Of The Lovin’ Spoonful (1966, senz’altro il migliore) – a mostrare con facilità la buona consistenza della musica.

Ricordiamo che nel febbraio del 1969, a gruppo ormai sciolto, la prima edizione del pionieristico lavoro di Richard Goldstein intitolato The Poetry Of Rock – un volumetto piuttosto smilzo – conteneva ben tre testi dei Lovin’ Spoonful, a dimostrazione della loro importanza percepita nella scena del periodo.

Do You Believe In Magic – senza punto interrogativo – fu la domanda che i Lovin’ Spoonful rivolsero al pubblico delle radio americane. Una musica, la loro, per moltissimi anni dimenticata; tanto dimenticata che quando Peter Buck, chitarrista di un nuovo e già celebre gruppo, i R.E.M., citò Zal Yanovsky quale influenza importante non furono in molti a ricordare chi fosse e quale contributo avesse dato al suono chitarristico "americano".

L’ingresso nella Rock and Roll Hall Of Fame, nel 2000, propiziò ristampe e un minimo di popolarità. Appena qualche anno prima, l’unico CD che eravamo riusciti a trovare – si trattava di una raccolta – aveva inaspettatamente fatto capolino nella "cesta offerte" di un grande magazzino, a lire 3.000 (era il tipo di CD che si trovava presso i distributori di benzina).

Oggi John Sebastian è senz’altro conosciuto ai più come l’armonicista che con lo pseudonimo di G. Puglese suona sulla versione di Roadhouse Blues dei Doors contenuta su Morrison Hotel.

(Quello che non sapevamo era che John Sebastian avesse un padre virtuoso dell’armonica che si chiamava… John Sebastian. Da cui una certa confusione quando ci trovammo davanti la copertina di un album di papà Sebastian.)

Il chitarrista canadese Zal Yanovsky aveva fatto presto comunella con il giovane Sebastian, e l’intreccio timbrico delle loro chitarre – acustiche ed elettriche – unitamente alla grande varietà dei "generi" affrontati è la qualità che dovrebbe fare amare il gruppo ai cultori dei Byrds e della musica chitarristica americana del periodo.

Una sezione ritmica esuberante e versatile – Steve Boon al basso, Joe Butler alla batteria – completava il quartetto e portava in dono altri timbri vocali. Ottima sicurezza strumentale da parte dei quattro, che a dispetto della giovane età – tutti sulla ventina – avevano alle spalle frequentazioni musicali di una certa consistenza. Non va dimenticato Erik Jacobsen, il produttore che – vero quinto elemento – reggeva la barra in studio. (Il celebre Roy Halee è il tecnico su parte della musica.)

Semplici e orecchiabili, ma di solida costruzione, le canzoni dei Lovin’ Spoonful non sfigurano se ascoltate accanto a quelle di celebri gruppi del periodo, dagli Hollies ai Byrds, dai Creedence Clearwater Revival ai Buffalo Springfield. Sono canzoni che forse rendono meglio se ascoltate come singoli – una per volta e in mezzo ad altro – piuttosto che sulla lunghezza dell’album; ma questo vale per tanti gruppi e artisti – accanto ai nomi appena citati ci viene in mente il Donovan dei "grandi successi" – e non è certo dovuto a scarsa qualità o eccesso di uniformità. (E il nostro potrebbe benissimo essere solo un parere personale.)

Forse, se paragonata ad altra musica del periodo, quella dei Lovin’ Spoonful è un po’ "naive", ma non nel senso della forma: basta ascoltare il primo album, con Do You Believe In Magic in apertura, un rifacimento di Other Side Of This Life di Fred Neil a seguire, e la strumentale Night Owl Blues a concludere, per vedere subito che così non è.

In età ormai adulta trovammo i testi dei Lovin’ Spoonful, e fummo colpiti da una coppia di versi contenuta in Do You Believe In Magic: "And it’s magic if the music is groovy/It makes you feel happy like an old-time movie". Ci tornarono in mente i giorni di vacanza del periodo natalizio di tanto tempo fa, quando in tarda mattinata la televisione di stato mandava in onda film comici – con Stanlio e Ollio, o Charlot – e splendidi cartoni animati della Disney, e come ciò rendesse misteriosamente di buon umore tutti i componenti della famiglia.

Ed è questo, a nostro avviso, il carattere che oggi salta all’orecchio: le canzoni dei Lovin’ Spoonful parlano di un mondo che non c’è più: dove i vecchi film mettono di buon umore, la pioggia estiva sorprende due ragazzi e li costringe a ripararsi in un fienile, d’estate si suda – intendiamo: niente condizionatori – i rapporti amorosi si immaginano durevoli, le "canne" sono qualcosa di cui parlare in modo furtivo, in un famoso luogo di vacanze della Florida è ancora possibile ascoltare il silenzio, e per un ragazzino l’acquisto del primo paio di occhiali è ancora un evento traumatico da ricordare anni dopo in una canzone.

Come molti gruppi "minori" dell’epoca, anche quella dei Lovin’ Spoonful è una musica spesso servita da raccolte, non di rado di buona fattura. Il lettore troverà qui di seguito un cenno a dieci brani, tratti da vari periodi della loro produzione. Se ritorniamo a sottolineare il bel carattere chitarristico di queste incisioni è solo perché si tratta di una bellezza sottile e discreta, da cogliere in un suono o in un passaggio di sottofondo.



Do You Believe In Magic
Primo grande successo a 45 giri, e prevedibilmente brano d’apertura del primo album del gruppo, Do You Believe In Magic celebra il potere "magico" della musica – quale musica? tutta, purché buona: (…) "don’t bother to choose/If it’s jug band music or rhythm and blues" – con ritmo e armonie contagiose, e bei motivi chitarristici.

Daydream
"Pigro" è l’appellativo più appropriato per questo brano decisamente sonnolento, "And I’m lost in a daydream/Dreaming ’bout my bundle of joy". Chitarre ritmiche, un accenno di feedback, un fischiettare andandosene in giro, un giorno da prendere come viene.

Rain On The Roof
Bel contrasto tra chitarre acustiche ed elettriche, con qualche bell’effetto sonoro della chitarra solista e una melodia vocale dall’andamento sommesso. Un tempo narrativo enormemente dilatato, e "Maybe we’ll be caught for hours/Waiting for the sun". Il lato positivo dei temporali estivi.

Coconut Grove
Località turistica della Florida, Coconut Grove è lo sfondo perfetto per un momento da vivere senza intrusioni, nella privacy della propria mente: "The ocean’s roar will dull the drummin’/Of any city thoughts or city ways". Le dune, le stelle e la parola "cool" – polisemica quanto "groovy" – a replicare il dondolio delle onde mosse dal vento: "The ocean’s breezes cool my mind".

Nashville Cats
Un brano "country & western" con chitarre "finger picking", cori perfetti, e una bella approssimazione di un genere storico suonato da ragazzini con una sicurezza invidiabile.

4 Eyes
Incedere nevrotico per un brano che ricorda il trauma del primo paio di occhiali. Testo che ci pare anticipare alcune descrizioni crude e sadiche del Randy Newman di là da venire – "How many fingers? Ha ha ha" – 4 Eyes è sospinto da una batteria frenetica e un basso a bel volume con chitarre ispide in quantità. Un appello ai genitori (…) "Give a break to little Clarence" (…) "And please recall that after all he wears them on his face".

Summer In The City
Produzione elaborata – clacson, botti, martelli pneumatici – per un grande successo dell’estate del 1966, unico brano del gruppo ad arrivare in vetta alle classifiche. Perfetto contrasto tra strofe e ritornello, nervoso piano elettrico, chitarre, voce tesa a descrivere la gente mezza morta per il caldo, e il fresco notturno di "But at night it’s a different world".

Darling Be Home Soon
Autore di gran parte del repertorio del gruppo, John Sebastian vede il suo stile maturare in un brano in seguito sottoposto a un buon numero di rifacimenti. Tono meditabondo, linea d’archi lieve, il gonfiarsi dei fiati, e un’atmosfera quasi "coniugale" per una produzione più elaborata del periodo tardo del gruppo.

Boredom
Perfetta illustrazione di un momento di noia, narratore che vorrebbe essere ovunque ma non lì, un silenzio interrotto da rari camion, il telefono muto, un triste albergo, la "slide guitar" che sembra propiziare il sonno, "mi sento a mio agio come un pesce su un albero", "And the Late Late Show died long ago/With a few words from a priest".

Six O’ Clock
Un altro momento tardo, e John Sebastian sorretto da fiati a meditare su un dilemma esistenziale.

(Per chi non ha mai visto lo spezzone del film Woodstock in cui John Sebastian canta a sorpresa – innanzitutto la sua – in un momento in cui il pericolo di corti circuiti successivi alla famosa pioggia rendeva impossibile l’apparizione di artisti "elettrici", questo è il momento.)


© Beppe Colli 2021

CloudsandClocks.net | Mar. 28, 2021