Pick of the Week #6
Cinque case
—————-
di Beppe Colli
Dec. 25, 2020



Gentle Giant
The House, The Street, The Room

Che sensazione strana, navigare in Rete e trovare gruppi di giovani impegnati a riprendere antiche pagine dal repertorio dei Gentle Giant a distanza di (più o meno) mezzo secolo da quelle grandiose gesta.

Non popolarissimi come Yes e Emerson, Lake & Palmer, non "di culto" come i Van Der Graaf Generator, i Gentle Giant del tempo si trovano in quella "terra di mezzo" che ospita i King Crimson e i Genesis dell’era Gabriel.

Ma se provare a rifare la musica di un gruppo il cui "front-man" (anche "riluttante" quale è Fripp) è un marchio di fabbrica espone il rifacimento al pericolo della caricatura (e questo vale anche per Jagger e gli Stones), e nonostante il peso scenico di Derek Shulman, diremmo che sono proprio le caratteristiche che al tempo hanno reso "arduo" l’apprezzamento della musica dei Gentle Giant quelle che oggi ne rendono maggiormente plausibile la riproposizione.

Un’esecuzione che è come leggere uno spartito e una dimensione melodica fortemente contrappuntistica e basata su "episodi" e motivi ricorrenti esposti con estrema chiarezza.

Gli Stati Uniti diedero il loro consenso agli album del dopo Octopus, con un nuovo batterista "di braccio forte" e – diremmo – lo svanire dell’elemento stilisticamente morbido della formazione, il fratello Phil. Cosa che per contro rese massimi i favori italiani nei confronti dei primi quattro album.

Dopo un esordio all’insegna di "ecco, siamo qui", Acquiring The Taste (1971) presentò una "nuova complessità" perfettamente assistita dalla produzione di Tony Visconti, dagli studi Advision e A.I.R., dalla programmazione al Moog (diremmo modulare) di Chris Thomas (e che tenerezza leggere la sponsorizzazione nelle note di copertina: "Park – Amplifiers that don’t give up").

La cosa buffa per un gruppo "rock" è che nei Gentle Giant l’assolo di chitarra non è quel momento "catartico" che solitamente è per i gruppi che hanno un chitarrista di spicco, ma solo un colore – importante – tra molti.

E tutto quello che abbiamo detto finora è ben rappresentato dal terzo brano della prima facciata di Acquiring The Taste: The House, The Street, The Room, la cui narrativa "in parole" abbiamo sempre accostato all’atmosfera tesa e sinistra di 1984, ovviamente con particolare riferimento alla stanza in cui il protagonista cerca una sua (illusoria) via d’uscita da un mondo da incubo.

Il brano si articola in sezioni che non necessitano di introduzione – si ascolti il contrasto tra i timbri vocali, la strumentazione "rock" e "cameristica" e il modo in cui il crescendo acustico cede il passo all’irrompere dell’assolo di chitarra.

E anche se solitamente è massima la nostra riluttanza ad antropomorfizzare i ruoli strumentali, è impossibile non notare come l’ossessivo ostinato di organo e basso che inviluppa l’assolo di chitarra sembra volerlo rinchiudere dentro mura che si sforzano di tenerlo ingabbiato.

E’ un gran bel lavoro di missaggio, bilanciamento volumi e posizionamento nello spettro stereo. Cerebrale? Of course!


Audience
The House On The Hill

Com’era un gruppo di cui non ci ricordiamo più? Strana domanda, ma quesito legittimo in risposta all’osservazione "Ma è possibile che allora i gruppi erano tutti bravi?", di cui capiamo bene lo spirito.

Ecco gli Audience: chi se li ricorda? Eppure per qualche breve momento, complice l’attenzione prestata dalla loro etichetta – la Charisma di Genesis e Van Der Graaf Generator – gli Audience sembrarono prossimi a fare il botto.

Non fu così. Guardando all’indietro, i motivi sono chiari: troppe idee non sempre ben meditate, personalità che si indovinavano non facilmente compatibili, carburante compositivo già in riserva al terzo album – cosa ci fa qui un rifacimento di I Put A Spell On You? – e altro ancora.

Eppure a distanza di mezzo secolo del gruppo che incise "l’album del botto che non ci fu", The House On The Hill (1971), ricordiamo a memoria i nomi: Howard Werth a voce (diremmo "americana" con le virgolette, nel senso di Van Morrison) e chitarra classica; Keith Gemmell a sassofono, flauto e clarinetto; Trevor Williams al basso (più complesso e articolato della media, con a tratti un fuzz quasi hopperiano); e Tony Connor alla batteria (meno bravo di quanto il lavoro di produzione dell’album non faccia intendere; e quando alcuni anni dopo ce lo ritrovammo in una foto su Creem quale membro degli Hot Chocolate – era la rubrica Letter From Britain di Simon Frith – pensammo che dopo tutto non gli era finita troppo male).

Produzione di Gus Dudgeon, tecnico del suono Robin Cable, studi Trident, e una copertina (famosissima) firmata Hipgnosis.

Gli episodi migliori sono le iniziali Jackdaw e You’re Not Smiling (che ricordiamo quali hit radiofonici insieme alla title track) e The House On The Hill.

The House On The Hill (il brano) è un simil-Van Der Graaf niente male, con sassofono strizzato e compresso, voce apocalittica, basso ossessivo, batterista impegnato, assolo di flauto, episodio con l’echoplex alla Terry Riley, e un gran baccano per quello che è il brano conclusivo dell’album (e, immaginiamo, del concerto).

E cosa c’è in quella casa sulla collina? Ovviamente un topo gigante con in testa un cappello da giudice che quando nevica si tramuta in una bella fanciulla che attira e poi divora i viandanti di passaggio.


Eurythmics
This Is The House/This City Never Sleeps

Anche se c’era già stato In The Garden, per più versi Sweet Dreams (Are Made Of This) (1983) è il primo album degli Eurythmics, e lo è innanzitutto in senso commerciale: brano e video fanno immediatamente il giro del mondo (ma la gavetta era stata lunga, a partire dai Tourists; e qualcuno ricorda ancora David A. Stewart senza un filo di barba messo sotto contratto dalla nascente etichetta di Elton John insieme ai suoi Longdancer).

Prestito bancario di £5.000, acquisto di un po’ di roba di seconda mano, tempo e pazienza (leggemmo pressoché in tempo reale una cover story del mensile statunitense Keyboard, mentre un paio d’anni fa – l’occasione era l’ennesima ristampa – il mensile inglese Sound On Sound ha dedicato all’evento un bell’articolo con foto d’epoca della strumentazione).

La musica di quest’album ha un suono di piacevole colore elettronico – c’è anche il Movement Drum Computer con copertura in legno e display a led, chi ricorda il video con le mucche l’avrà notato senz’altro – con sequenze di tastiere e "percussioni" e timbri chitarristici reali (una Gretsch, se non andiamo errati) e la voce di Annie Lennox.

Alcuni strumenti "veri" non vennero al tempo accreditati. C’è il basso di This Is The House – diremmo un Fender Jazz Bass con il pick-up al ponte in evidenza – e la tromba di The Walk, che un nostro collega "yankee" prese per sintetica. Cosa che diciamo non per sminuirlo, ma proprio perché era tra quelli meglio equipaggiati. Forse in quell’occasione la voglia di credere che una tromba con lo "spit" potesse già essere sinteticamente imitabile lo ha tradito.

This Is The House è un classico "riempipista" con cassa incalzante, basso "funky", tromba "mariachi", sequenze e fischi, introduzione "latina" ("Esta è la casa. Esta è la storia" – forse), e una visita un po’ misteriosa – la narrazione lascia molti "buchi" – a un luogo del passato.

Anche se l’oggetto che ci viene messo sotto le orecchie – registrazioni della metropolitana (diremmo londinese), annunci, passi, treni, porte – è la città che non dorme mai, This City Never Sleeps evidenzia il punto di vista dell’osservatore: una casa abitata da tante persone i cui nomi non conosce, pareti tanto sottili che quasi consentono di ascoltarne il respiro ma che quando ci si avvicina evidenziano solo il suo battito cardiaco; ed è da qui che l’osservatore "incorpora" i suoni della metropolitana rendendoli parte della stanza.

Senza clamore, gli Eurythmics ci hanno regalato un affresco di grande ingegno e bellezza. La voce della Lennox ha fatto il resto.


Ben Folds Five
House

Fu strano notare l’aspra ostilità di un discreto numero di recensori – nomi che nulla ci dicevano e che abbiamo dimenticato, ma se dobbiamo citare una testata diremmo Pitchfork – nei confronti di Ben Folds. E rendersi conto che più che l’artista quale persona, il recensore sembrava avere in odio l’approccio – ragionato, riflessivo, da compositore – e lo strumento: il pianoforte. (A un’artista come Regina Spektor – forse perché donna – viene riservata la cortesia del silenzio.)

Eppure un lavoro antologico come The Best Imitation Of Myself: A Retrospective (2011) – un triplo CD suddiviso in "Il meglio", "Live" e "Rarities" con i 18 brani del primo CD disponibili in maniera autonoma – mostra un’indubbia caratura mentre offre numerose occasioni di godimento.

Un brano inedito realizzato con i Ben Folds Five chiude il primo CD.

House ci presenta immediatamente la scena – il classico cartello "vendesi" in giardino, i mobili già portati via – e i ricordi, qualificati dalla parola "fetid".

Uno sviluppo in crescendo, un bell’apporto di basso e batteria, un pianoforte essenziale, "nightmares" e "counselors" a ricorrere più volte, e un ferreo proposito: "I’m not going back up in that house again".


© Beppe Colli 2020

CloudsandClocks.net | Dec. 25, 2020