Pick of the
Week #1
Creedence Clearwater Revival
Ramble Tamble
(Cosmo’s
Factory, 1970)
—————-
di Beppe Colli
Nov. 23, 2020
"Few artists have been able to take the guitar,
so simply and purely, and make it the center of great songs and grooves the way
John does. (…) He can make an old lick new, and a new lick a classic, all
with the true essence of rock and roll and rhythm and blues."
"In much the same way as George Harrison recycled
guitar styles that were considered dated (Chuck Berry, Scotty Moore, Carl
Perkins), (…) Fogerty wove the licks of rock’s early guitar masters into his
personal statement."
Queste
citazioni ci giungono dal numero del mensile statunitense Guitar Player datato
April 1985. In quell’occasione si celebrava il ritorno in grande stile di John
Fogerty, chitarrista, autore, cantante, multistrumentista, produttore e
quant’altro, ex leader degli ormai disciolti Creedence Clearwater Revival ora
definitivamente "solo artist" con un album, Centerfield, già
saldamente ai primi posti delle classifiche.
Il
chitarrista e giornalista Dan Forte aveva scritto l’ottima "cover
story" ("John Fogerty Returns", da cui è tratta la seconda delle
citazioni che qui compaiono in apertura), mentre il chitarrista e "guitar
teacher" Arlen Roth aveva dedicato a Fogerty la puntata di quel mese della
sua rubrica Hot Guitar ("The Magic Of John Fogerty", da cui proviene
il primo dei due passi sopra citati).
Con
apparente paradosso per una musica che si vuole viva essenzialmente sul palco –
andando di fretta, potremmo chiamarla "rock", ma attenzione: Fogerty
attinge liberamente da blues, folk, rock ‘n’ roll, rhythm & blues e
rockabilly – Fogerty aveva studiato in profondità gli aspetti "manuali"
(le tecniche chitarristiche proprie a quelle musiche) e "sonori" (le
tecniche di registrazione che le caratterizzano) di tanta musica che aveva
toccato la sua sensibilità: un accurato studio degli archetipi che ha reso a
sua volta Fogerty un archetipo di multiforme complessità proprio nel suo
aspetto di musica registrata.
Quale
esempio di tecnica di registrazione citiamo quello "slap echo" che la
masterizzazione in digitale di celeberrimi successi di Elvis Presley stava
eliminando proprio sotto gli occhi increduli di un Fogerty trovatosi per caso a
passare in quello studio. (L’aneddoto viene riferito da Fogerty nel corso di
una intervista/conversazione con il suo idolo Duane Eddy comparsa sul mai
sufficientemente compianto mensile statunitense Musician. Lo stesso mensile
aveva dedicato a Fogerty un’ottima "cover story" in occasione
dell’uscita di Centerfield.)
Nome
strano e "incomprensibile", quello dei Creedence Clearwater Revival
fu forse scelto allo scopo di non sfigurare accanto a sigle al tempo celebri
quali Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service e Big
Brother And The Holding Company. Si percepisce un certo disagio da parte di un
quartetto proveniente dal piccolo agglomerato che porta il nome di El Cerrito:
un quasi-Berkeley, e un quasi-ma-non-proprio San Francisco, che si affaccia
sulla Bay Area.
Non
dimentichiamo che a quel tempo, dopo l’eroica fase londinese, il quartiere di
San Francisco denominato Haight-Ashbury era considerato il centro del mondo. Da
cui forse un voler coprirsi le spalle affidando a Ralph J. Gleason, stella
giornalistica della bibbia mondiale della musica di quel tempo, Rolling Stone,
il compito di scrivere le note di copertina dell’album di esordio del gruppo.
Compito che Gleason assolse in modo a dire il vero un po’ strano, citando
l’album e il gruppo solo di sfuggita e solo in chiusura di pezzo.
Un
boccone amaro che Fogerty deve aver mandato giù con difficoltà, se è vero (ma
potrebbe trattarsi solo di una coincidenza) che un cartello con la scritta
"3rd Generation" – l’appellativo che Gleason aveva utilizzato per
caratterizzare il gruppo nelle già citate note di copertina – fa bella mostra
di sé nella foto principale di Cosmo’s Factory, album che segna la definitiva
consacrazione commerciale della formazione.
Il
primo successo dei Creedence Clearwater Revival aveva visto protagonista il
rifacimento di un pezzo un tempo famoso, Suzie Q. L’arrangiamento – con lungo
assolo di chitarra dal sapore "acido", e la voce effettata – era
parso dettato dal timore di essere considerati "fuori dal mondo" in
un momento in cui San Francisco era "il mondo".
Ma
da Proud Mary in poi il suono cambia. Quello che non cambia è la scala del
successo che quei singoli – con un ottimo pezzo su ognuna delle due facciate,
sempre – ottengono prima negli Stati Uniti, e poi nel mondo.
La
qual cosa rende il gruppo inviso a molti. Il che è paradossale, perché quel
successo non è ottenuto con mezzi volgari: la musica possiede una cifra
stilistica personale, ma all’interno di quella cornice la varietà è di gran
lunga superiore a quanto un ascolto superficiale farebbe supporre. E la
Fantasy, l’etichetta che aveva messo il gruppo sotto contratto, aveva le pezze
al sedere, e non era certo in grado di "imporre" la loro musica! (Fu
vero il contrario.)
Vero
è che il gruppo sembrò privilegiare il singolo a discapito dell’album in
un’epoca che vedeva molti artisti dedicarsi all’esplorazione dell’album come un
tutto. Ed è vero che il primo album della formazione che potremmo dire
concepito come tale, Pendulum, fu per molti versi l’inizio della fine, ma per
motivi che diremmo non strettamente inerenti alla musica, ché risentito con
altre orecchie – sforzo che è stato fatto per tanti altri gruppi e per tanti
altri album, ma non per questo – Pendulum mostra molti aspetti nuovi e riusciti,
anche se il tono complessivo appare privo della gioia e dell’esuberanza che
siamo soliti associare alla formazione: ma può essere questo considerato di per
sé come un difetto?
Ci
è sempre parso strano che l’epoca che ha visto i Creedence Clearwater Revival
all’apice della gloria – diciamo a cavallo tra i sessanta e i settanta, quando
maggiore era l’attenzione per il "conflitto",
"generazionale", "razziale", e "di classe" – non
abbia valorizzato a dovere lo sguardo "blue collar" da "working
class" di John Fogerty. Uno sguardo che produsse capolavori quali
Fortunate Son (brano che ricordiamo per la musica, e giustamente, ma dare uno
sguardo al testo non farebbe male); "meditazioni civili" quali Don’t
Look Now (It Ain’t You Or Me); oscure premonizioni quali Bad Moon Risin’ (e la
sua versione "hard", Sinister Purpose); mesti ritratti di un
"equilibrio instabile" quali Effigy; tremolanti momenti da
"cinema vérité" quali Run Through The Jungle; e ritratti pieni di
pathos come quello offerto dalla celeberrima Lodi: il musicista che non ce l’ha
fatta.
Ottimo
strumentista, John Fogerty ha saputo creare un caleidoscopio di timbri
chitarristici partendo da un arsenale tutto sommato ridotto: chitarre
Rickenbacker (da cui è stato in grado di tirar fuori il caratteristico
"ping" ma anche un nasale "snarl") e Gibson (una
semiacustica su Proud Mary e dintorni, una Les Paul più avanti), amplificatori
Kustom (quelli ricoperti da una strana plastica che il dizionario ci ricorda chiamarsi
Naugahyde) con l’aggiunta successiva di qualche Fender. Il suono del gruppo
parte da un’intuizione "tutto Rickenbacker", riscontrabilissima sull’omonimo
album di esordio, per poi approdare a un suono più grosso e (relativamente!)
massiccio, come mostrato dalla Guild imbracciata da Tom Fogerty, chitarra
ritmica del gruppo e fratello maggiore di John, sul retrocopertina di Cosmo’s
Factory.
Anche
se le perennemente cangianti usanze riguardanti il copyright minacciano di
rendere obsolete le annotazioni che seguono, diremmo che in Rete non dovrebbe
essere difficile trovare in modo perfettamente legittimo e legale estratti
concertistici che vedono in azione i Creedence Clearwater Revival. Da parte
nostra segnaliamo quelli a lunga gittata provenienti da due esibizioni del 1970,
quando il gruppo era davvero al massimo: all’Oakland Coliseum, davanti a 14.000
persone, e alla londinese Royal Albert Hall.
Da
sinistra, Tom Fogerty alla chitarra e Stu Cook al basso. Da destra, John
Fogerty e il batterista Doug Clifford. Si nota immediatamente che il rapporto
che conta davvero, il "motore" su cui il resto si regola, è quello
tra la chitarra e la voce di Fogerty e la batteria di Clifford, in special modo
il charleston/hi-hat (i cui piatti sono di una grandezza e un peso che crediamo
di non aver mai visto né prima né dopo). Tenere d’occhio per capire da quale
interscambio viene la "pulsazione" della musica.
Al
momento della pubblicazione di Cosmo’s Factory il pubblico conosce già molto
bene la quasi totalità dei brani originali scritti da Fogerty, apparsi sulle
due facciate di tre singoli di grande successo. A completare il quadro, come
costume per il gruppo, alcuni rifacimenti di brani classificabili quali
"ispirazione", uno dei quali – I Heard It Through The Grapevine –
abbastanza recente.
A
tutto ciò va ad aggiungersi Ramble Tamble, lungo brano inedito posto in
apertura di album e prima cosa che l’ascoltatore dell’epoca si trova davanti al
momento di mettere la puntina sul vinile.
Se
l’album precedente, Willy And The Poor Boys, si era aperto con le note
scanzonate di Down On The Corner per poi chiudersi con un momento di grande
drammaticità quale Effigy, Ramble Tamble ci proietta senza indugio in maniera
concitata nel pandemonio dei tempi. Anche se poi la chiusa dell’album, Long As
I Can See The Light – un perfetto r & b marca Stax, con piano elettrico
Wurlitzer, sezione fiati e assolo di sassofono (fa tutto Fogerty) – ci congeda
su una nota di speranza.
Se
è vero che basta far passare un po’ di tempo per vedere ogni gruppo diventare uguale
alla somma dei suoi successi, pure siamo sempre stati sorpresi dalla scarsa
considerazione in cui diremmo sia tenuto Ramble Tamble. Brano che definiremmo
unico nella produzione del gruppo e la cui sezione centrale – da quando
l’ascoltatore possiede un impianto di ascolto superiore a quello di una comune
radiosveglia, cosa di certo non vera al tempo della pubblicazione originale
dell’album – si rivela un capolavoro di sinfonica potenza che "più forte è
il volume, e meglio suona".
"Fango
nell’acqua, scarafaggi in cantina, insetti nello zucchero, un’ipoteca sulla
casa". "Spazzatura sul marciapiede, un’autostrada nel cortile sul
retro, la polizia sull’angolo, un’ipoteca sulla macchina". Il tutto a gran
velocità, su un ritmo che diremmo di "shuffle".
A
meno di due minuti di durata, il brano "frena" per poi ripartire su
un arpeggio chitarristico su cui irrompe con gradualità (un ossimoro?) un muro
di amplificatori in feedback e poi un rat-ta-ta chitarristico ossessivo e
sinistro su cui si staglia una frase melodica eseguita da una chitarra sul filo
del feedback che pare mettercela tutta per farsi sentire in quel marasma.
Assortimento di piatti, alcune frasi di basso qui e là, una pulsazione che
accelera. Da gustare tutti gli armonici e i fischi, e anche qui, come già
detto, "più forte è il volume…"
Chi
viene in mente? Glenn Branca? I Sonic Youth? Diremmo i Beatles – e qui ci
riferiamo alla "sezione B" della lennoniana I Want You (She’s So
Heavy) che concludeva la facciata A di Abbey Road, giusto l’anno prima. A
parere di chi scrive, un nobile esperimento non coronato da pieno successo, a
differenza di Ramble Tamble.
Il
giudizio finale al lettore, volume permettendo.
© Beppe Colli 2020
CloudsandClocks.net | Nov.
23, 2020