Pick of the Week #9
The Art
Ensemble Of Chicago
Nonaah/Tnoona
(Fanfare For
The Warriors, 1974)
—————-
di Beppe Colli
Jan. 28, 2021
Bello
ritrovarsi ad ascoltare, per nessun altro motivo che il puro piacere
dell’ascolto (niente anniversari, ricorrenze e "motivi commerciali" a
essi legati, tanto più necessari e urgenti quanto più la cerchia degli
ascoltatori si restringe: tempus fugit) un album che ci è caro per più motivi.
Innanzitutto perché dovrebbe essere il primo album di "jazz" da noi
acquistato (c’è un margine di errore, ma è davvero molto piccolo). Ma soprattutto
perché è un album sul quale ci siamo trovati spesso a misurare la nostra
crescita di ascoltatori e la nostra capacità di impostare le questioni
musicali.
(L’album
è stato registrato nel 1973 e pubblicato nel 1974. Acquistammo una copia import
statunitense nel 1975, e l’album, pur recente, era già tra i
"forati": se per "fuori catalogo" o per
"overstock" non sapremmo dirlo, ma è un particolare che aggiungiamo
per arricchire lo sfondo.)
Ci
fa piacere poter dire che ripetuti ascolti ci hanno confermato non solo
l’altissima qualità di questo lavoro, la cui recente frequentazione diremmo
scevra da elementi "nostalgici", ma anche il suo carattere di
"archetipo". Sicché ci troviamo sereni nel consigliarne l’ascolto
(anche) a chi non abbia molta dimestichezza con il "jazz". Non –
attenzione! – nel senso che esso racchiuda "tutto il jazz". Ma nel
senso che l’album è vario e ricco di proposte multiformi offerte con la massima
sicurezza strumentale e un suono perfetto sì da presentare un ampio spettro di
situazioni. (Ed è proprio questo lo spirito con cui venne progettato, come
vedremo tra breve, sonno del lettore permettendo.)
"Ma
è ‘jazz’?"
La
domanda può suonare strana, e ancor di più se formulata a proposito di
quest’album. Ma ci sono molti modi di porla, e con finalità diverse.
Soprattutto con criteri che variano anche in rapporto all’identità e al ruolo
di chi la pone, sia egli/ella ascoltatore, critico, giornalista, organizzatore
di concerti, burocrate dell’assessorato che deve firmare il nulla osta per i
finanziamenti di quella certa rassegna e via dicendo.
Non
è, comunque, una questione di lana caprina. Quante volte, ascoltando musica, ci
siamo chiesti – o abbiamo sentito qualcuno dire – "ma è rock?". Per
non parlare del più "tranchant": "ma è musica?" (per
ultimo, diremmo a proposito di rap, hip-hop e techno).
Immaginiamo
una "valutazione incrociata", effettuata al tempo, di tre album
pubblicati nel 1971: Sticky Fingers dei Rolling Stones, Master Of Reality dei
Black Sabbath e The Yes Album degli Yes. E se dei fan dei Black Sabbath,
qualche anno più tardi, si fossero trovati "per errore" a un concerto
dei Magma? E’ da considerare "musica" una musica che "non cambia
mai"? E’ davvero musica un insieme di eventi sonori governati da
"leggi casuali" potenzialmente in grado di non presentare di nuovo la
stessa configurazione prima di 254 anni? (Non scommettiamo sull’esattezza del
numero, qui è il principio che conta.) E’ musica quella che "non si
sente" (nel senso di prodotta a frequenze che gli esseri umani non possono
sentire)?
Etichettando
la propria musica quale "Great Black Music" (con il corollario
"Ancient To The Future"), l’Art Ensemble Of Chicago si è trovato
miracolato nell’evitare la parola "jazz". L’intenzione era ovviamente
quella di sottolineare la pluralità degli stili raccolti sotto un unico
ombrello (ma è meglio non cominciare a interrogarsi sull’identità
dell’ombrello) e di gettare un ponte tra epoche diverse. L’esito non
intenzionale è stato quello di tirarsi fuori da guerre definitorie che
all’epoca si potevano forse immaginare come destinate a sparire, ma che per
motivi complessi ai quali si accennerà più sotto si trovarono a cambiare luogo.
Rimangono
ovviamente da risolvere le questioni pragmatiche. In quale settore del negozio
mettere l’album? Come definire la rassegna di musiche in cartellone? Come
motivare la borsa governativa ricevuta quale musicista di…? (Oops!)
Ascoltatori
"rock" di una certa esperienza, o almeno così ci vedevamo, il
"jazz" ci si presentava gravato da due enormi difetti, che
immaginavamo ineliminabili: scarsa varietà timbrica e massima prevedibilità
dello svolgimento. Capiamo benissimo che erano critiche risibili – invochiamo a
nostra discolpa il fatto di avere da poco dismesso i pantaloni corti – ma pensiamo
alla formazione allora sinonimo di "jazz": tromba, sassofono e
"ritmi" (così si diceva un tempo), o "un trio jazz", con
pianoforte. E i brani? Tema, assolo, assolo, assolo, assolo, tema.
Ovviamente
nel periodo 1969-71 il "rock" si riempie di sassofoni, spuntano album
quali Uncle Meat di Frank Zappa e Fourth dei Soft Machine (il primo album della
formazione da noi acquistato, Third era doppio).
I
nostri brani preferiti dopo aver preso un minimo di confidenza con Fanfare For
The Warriors? Quelli di Roscoe Mitchell: Nonaah e Tnoona. Precisamente quelli a
proposito dei quali capitava di sentir dire "ma quello non è ‘jazz’".
Qui
ci corre l’obbligo di avvertire il lettore di una (inspiegabile)
"affinità" subito avvertita per la musica di Roscoe Mitchell da parte
di chi scrive. E mentre, a dispetto dell’ottantina di album da noi acquistati
nel corso di un quindicennio, abbiamo sempre sentito la musica di Anthony
Braxton come "qualcosa di estraneo", "da indagare" (forse
c’era… troppo jazz?), quella di Mitchell ci è sempre suonata
"naturale", pur nella sua indiscutibile difficoltà.
Lasciatisi
alle spalle la natia Chicago, dove con un album intitolato Sound Roscoe
Mitchell & soci avevano cominciato a gettare le basi per una musica
alternativa alla "energy music" di New York che all’epoca costituiva
il modello imperante di "musica di ricerca", l’Art Ensemble (of
Chicago) emigrò in Francia, presto affiancato da Anthony Braxton e altri nomi
oggi ben noti. La decisione di sottolineare l’aspetto etnico-rituale della musica,
l’adozione di maschere e costumi, l’esplicita dichiarazione di identità
culturale "africana" dovettero avere il loro peso nel successo avuto
in Francia, testimoniato dal numero davvero elevato di album lì incisi.
(Solo
qualche anno dopo ricostruimmo che quel discreto mazzo di LP dall’aspetto tutto
uguale visto per caso nel corso di una nostra esplorazione nel più grande
negozio della città era composto da LP della BYG-Actuel. E che quello strano
personaggio che immediatamente etichettammo come "uno squilibrato"
era Daevid Allen – l’album in questione, Magick Brother. Dalla foto di
copertina ritrovata in Rete abbiamo riconosciuto il disco dell’Art Ensemble Of
Chicago intitolato Message To Our Folks.)
Braxton
& co. vennero presi a pietrate. (Qualcosa di simile era già accaduto a
Ornette Coleman, in altro tempo e luogo: bastonato, e il sassofono distrutto.)
Mentre l’Art Ensemble Of Chicago divenne quasi l’emblema della musica "al
passo dei tempi". Va dato atto a Braxton di aver toccato il tema con mano leggera.
(Quanto
diremo a proposito di Braxton è riscontrabile sul bel libro di Graham Lock
intitolato Forces In Motion, che dai tempi della sua pubblicazione abbiamo
letto più volte e che non casualmente abbiamo riletto in questi giorni.)
Da
"esperti di rock" ignari di jazz cercammo invano una guida che ci
aiutasse a orientarci in una musica che ci risultava ostica e per la quale ci
mancavano persino i primi punti di riferimento. Ci risultarono congeniali Monk
e Mingus, Sun Ra, Cecil Taylor e poco altro, mentre ci chiedevamo (inutilmente)
chi fossero questi Jimmy Giuffre e Andrew Hill. I Weather Report, Keith Jarrett
e Chick Corea ci rimanevano estranei.
Il
punto di maggiore perplessità riguardava la copertura del jazz di gran parte
della stampa cui avevamo accesso, che era – va detto – dichiaratamente "di
sinistra". E lo stesso fu vero di lì a poco, quando il crollo del
monopolio radiotelevisivo ne consentì l’apertura, per le "radio
libere". La musica veniva interpretata in base all’abito (il
"travestimento" di Gato Barbieri aveva una sua logica) o, peggio, in
base a caratteristiche "caratteriali": ci capitò di leggere che
Roscoe Mitchell aveva bisogno di una buona dose di calmanti.
Come
ben sappiamo, questo non è un problema esclusivo del jazz – ricordiamo Elvis
Costello e Joe Jackson professare la loro ignoranza e nascondere gli studi, e
l’aspetto "politico" a fare "colore" a spese di tutto il
resto, da Bob Marley a “Patti Smitte” alla M.I.A. di stirpe Tamil portata in
trionfo dal Village Voice. E’ un aspetto del lavoro che consente al critico e
al giornalista di celare la propria ignoranza e la propria profonda
incomprensione annegando qualunque musica nel mare indistinto delle notazioni
di carattere e di costume. Senza batter ciglio, ci fu chi passò da Beefheart e
Can a Steve Lacy e alla sua "esile vescica" (il riferimento è al sax
soprano suonato dal musicista, e non a suoi eventuali problemi di
incontinenza).
Il
fondo fu toccato a proposito di Misha Mengelberg e di tanta (cosiddetta)
"musica improvvisata", olandese e non. Si lasciò che il procedere dal
retroterra enormemente complesso di Mengelberg fosse contrabbandato quale
processo affine all’improvvisazione del bambino che, appena sveglio, comincia a
emettere suoni. (Suoni, appunto. Ma musica?)
Ci
viene di tanto in tanto rimproverato di tormentarci – e anche il lettore! – con
vecchie questioni. Ma il punto da non dimenticare è che un gran numero di
ascoltatori, scoperto l’inganno, in assenza di criteri di riferimento autonomi,
tende a perdere la fiducia in qualsiasi fonte. Perdendo così l’occasione per
apprezzare tanta musica, ma finendo anche per risultare "assente"
quale pubblico potenziale di tanti artisti la cui musica va a fondo senza
rimedio.
A
volte ci si mettono anche i musicisti a rendere le cose ancora più opache.
Siamo sempre rimasti colpiti da quanto affermato da Leo Smith (in note di
copertina scritte a corredo di un album di Anthony Braxton citate da Graham
Lock a pag. 10 del suo volume) a proposito dei titoli dei brani di Braxton, che
per tanto tempo furono fonte di perplessità e motivo di discussione fra tanti,
appassionati e no:
"Braxton’s
titles are primary mystical, and any advanced student of mysticism or
metaphysical science can readily read the code and symbolism embedded in his
titles."
E
nel caso due interpretazioni risultino difformi che si fa, si chiama il mistico
di grado superiore?
C’è
molto di buono nel materiale registrato dall’Art Ensemble Of Chicago durante il
periodo francese. Se dovessimo indicare un solo album, citeremmo senza
esitazione People In Sorrow. Sono due facciate da ascoltare con concentrazione,
un solo pezzo tutt’altro che difficile ma che necessita di una buona
disposizione di spirito (non è un album da ascoltare mentre si controlla la
posta).
Finito
il periodo francese, il gruppo ritorna negli Stati Uniti e incide qualcosa.
Finché, dopo un’esibizione che verrà riproposta su disco – Bap-Tizum (1972) –
Michael Cuscuna organizza una session di tre giorni. Ogni giorno il gruppo
registra tutto il materiale che andrà sull’album, per poi scegliere le versioni
migliori.
Mentre
la versione originale del 1974 riporta le sole indicazioni di copertina (e ha
un suono ottimo, così come la prima versione in CD, che nel libretto interno
riporta la scritta "Digitally remastered by Stephen Innocenzi at Atlantic
Studios"), la seconda edizione digitale (disponibile sia su CD che su LP
nella serie Jazzlore) presenta delle belle note di copertina "after the
fact" scritte da Michael Cuscuna.
Cuscuna
dichiara che in quell’occasione si convenne di presentare in modo conciso tutte
le facce del gruppo privilegiando i vari aspetti compositivi. In
quell’occasione fu deciso di aggiungere i colori e la sapienza interpretativa
del pianista Muhal Richard Abrams: il risultato fu splendido (e non era da dare
per scontato). Quello rimase l’ultimo album di studio del gruppo finché la ECM
non lo mise sotto contratto (Nice Guys, 1979).
L’iniziale
Illistrum presenta il tipico affresco percussivo-poetico della formazione, con
un testo recitato che utilizza i noti metodi mnemonici tipici della tradizione
trasmessa per via orale. Lavoro percussivo policromo, e un gran lavoro in
"chiaroscuro" di Abrams.
Il
pianoforte apre Barnyard Scuffel Shuffel con una quasi rilettura monkiana
eseguita in solitudine, poi il brano esplode in un quasi rock ‘n’ roll,
sassofoni e tromba esuberanti, ritmica pimpante.
Nonaah
offre un tema angolare, spigoloso (non sono pochi i temi di Mitchell che,
rallentati e "adattati", ci sembrano perfetti per essere attribuiti a
Hugh Hopper), assolo di pianoforte a citare "schegge" del tema,
ottimo apporto di contrabbasso e batteria (ci vollero molti ascolti perché
focalizzassimo questo aspetto, il pianoforte cattura), sassofono e chiusa.
Fanfare
For The Warriors è un brano che – soprattutto nella prima parte, con i
sassofoni protagonisti – si riallaccia a quella "energy music" di cui
la musica del gruppo costituisce per tanti versi un contraltare. Bello il
successivo assolo di tromba, con il pianoforte – è un aspetto che viene fuori
con gli ascolti – a interpretare una parte da steel drums, con effetto timbrico
dal bel colore.
What’s
To Say è un momento arioso e brioso, con flauto e piccolo, percussioni,
pianoforte, 4′ che passano in un baleno.
Tnoona
è l’altro brano di Mitchell. Un soffiare della tromba, qui vero e proprio
"vento", accoppiato a frasi lunghe eseguite dai due sassofoni, un
alternarsi di registro basso e registro alto che trova un perfetto
rispecchiamento nell’ostinato del pianoforte, articolato in maniera percussiva
ai due estremi della tastiera. Poi un’esplosione di fiati in una specie di
marcia che nella nostra mente è sempre stata la vera "Fanfare For The
Warriors".
Chiude
il minuto e qualcosa di The Key, momento lieve e semi-vocale che ci congeda in
modo meno teso di quanto sembrava stesse per accadere.
Qualche
tempo fa ci è capitato di leggere una bella intervista a Henry Threadgill
effettuata dal pianista e divulgatore statunitense Ethan Iverson per conto
della BBC la cui trascrizione è disponibile sul blog di Iverson, Do The Math.
Viene fuori il nome di Gunther Schuller, e Iverson fa notare che per molti
musicisti jazz la musica classica sarebbe "off-limits".
"…
I’m not jazz, though", interrompe Threadgill. "That was a
period."
Nel
corso della conversazione Threadgill ricorda un episodio, che diremmo toccante:
quando, avendo ricevuto, diciottenne, l’incarico di recensire un concerto di
musica classica, trovò le porte che si stavano chiudendo e nessun modo per
entrare. Finché un signore di una certa età lo invitò a entrare con lui; giunti
nell’auditorium, al momento di sedersi, Threadgill si accorse che l’uomo si
sedeva al pianoforte: era Arthur Rubinstein.
"Ho
incontrato Hindemith e Varèse" (…) "Ho ascoltato Berio, tutti
quelli della contemporanea. Ho ascoltato tutta quella musica dal vivo.
Schoenberg" (…) "Così ho ascoltato tutta quelle cose mentre altri
si esercitavano sui ‘fake book’ e su come suonare Coltrane. Non erano a quei concerti."
Molti
jazzisti hanno nascosto la loro frequentazione della musica classica, e Braxton
è stato crocifisso per aver citato Stockhausen e Cage invece dell’Africa.
Con
ragione, Braxton si è posto il problema (siamo a pag. 92 del libro di Lock):
"Why is it so natural for Evan Parker, say, to have an appreciation of
Coltrane but for me to have an appreciation of Stockhausen is somehow out of
the natural order of human experience? I see it as racist."
C’è
una formulazione parallela del problema che Braxton offre (se ne discute a pag.
114 del libro di Lock), che si impernia sul concetto della "fronte
sudata", "the reality of the sweating brow".
"What
is interesting with this concept, however, is that ‘the reality of the sweating
brow’ is not so much dependent on the actual music but instead on ‘how’ the
actual ‘doing’ of the music looks."
Ma
diremmo che, contrariamente a quanto afferma Braxton, si tratta di un problema
che riguarda anche i musicisti bianchi. Per quanto tempo abbiamo letto
descrizioni che mettevano in ridicolo l’atteggiamento tenuto sul palco da
Robert Fripp? Quante volte è stata citata come "più autentica" la
proposta "sudata, fisica e immediata" dei gruppi punk e new wave
rispetto a quella fisicamente più "statica" di tanti gruppi
"prog"? E non è un punto di vista limitato ai critici, come il favore
di ampie fasce di pubblico dimostra.
(Lasciamo
da parte il fenomeno della svalutazione del "mentale" a favore del
"fisico" che diremmo tipica degli ultimi decenni, e che diremmo
trasversale.)
Per
tornare al "jazz", è chiaro che i problemi definitori esistono, e
sono normali in ogni processo di comunicazione. Chiameremmo "cavallo"
un animale che è esattamente come un cavallo ma che è grande quanto un cane di
media grandezza? Chiameremmo "cane" un animale che si presenta
esattamente come un cane, ma che è grande quanto una mucca?
Ai
tempi in cui il "jazz" era una musica popolare, da ballo, è
plausibile che il problema definitorio venisse per così dire assorbito
dall’uso. Ma con il progressivo complicarsi di questa musica, e con
l’affermarsi del rock ‘n ‘roll, il pubblico del jazz si è rarefatto; mentre con
l’avvento del "rock" "complesso", alla fine degli anni
sessanta, il jazz ha perso anche la fascia di ascoltatori costituita dagli
studenti universitari dei campus. La radicalizzazione del jazz dei sessanta non
ha certo aiutato la causa (si intende: in senso numerico).
Quale
"forma d’arte" il jazz manteneva una sua grandezza – ed era oggetto
di attento reporting sui quotidiani – anche ai tempi del Free. Ma il fatto che,
aperti gli occhi per un momento mentre suonava, Charlie Haden vedesse Leonard
Bernstein a pochi centimetri dal suo contrabbasso, intento nell’ascolto, non
implicava che di lì a poco torme di newyorkesi si sarebbero recate a vedere il
quartetto di Ornette Coleman.
Posto
che buona parte della critica ha da sempre rifiutato l’appellativo di
"jazz" a tutta la musica che a suo insindacabile giudizio non lo era
– ricordiamo l’appellativo di "anti-jazz" rivolto a John Coltrane ed
Eric Dolphy – diremmo che nel tempo si è assistito a un curioso rovesciamento:
mentre prima i musicisti chiedevano che la propria musica finisse sotto
l’ombrello di "jazz" – una nozione della quale chiedevano "l’allargamento"
– si è passati a uno stadio in cui i musicisti chiedono che per la loro musica
non venga usato l’appellativo di "jazz" in quanto di ostacolo
all’ottenimento di finanziamenti da parte di istituzioni "serie" e in
quantità monetarie tali da garantire l’allestimento di lavori di altissimo
budget quali per esempio l’opera. In ciò rispecchiando lo spostamento del
finanziamento della "musica difficile" dal "mercato" alla
sfera della "cultura".
Un
ottimo esempio di ciò è dato dal lavoro di Anthony Davis, pianista che negli
anni settanta e ottanta era tra i nostri preferiti e che abbiamo perso per
colpa dell’opera ma con sua grande gioia, il premio Pulitzer ricevuto lo scorso
anno essendo solo l’ultima di una lunga serie di soddisfazioni.
Figlio
di un rispettato accademico, cresciuto nel mondo accademico, Anthony Davis
aveva le idee chiare alla giovane età di 32 anni. Di recente abbiamo recuperato
un bel servizio a firma Joe Blum apparso sul mensile statunitense Keyboard, ed
eccolo qui: Issue Aug.’84, in copertina Tom Bailey e i suoi Thompson Twins,
fotina a fianco della testata, Jeff Lorber.
"Today
he is well on the way to becoming established as a classical composer: ‘Really,
I would rather not be referred to as a jazz musician. My feeling is that I’m
creating essentially American classical music. People have to realize that
American classical music comes from all kind of sources. It becomes a political
question at some point: You can draw on the Hebrew folk tradition, the way
Steve Reich does, and there’s no question that his music is classical music,
but when you draw on our folk tradition, it’s another thing’".
Molti
musicisti avranno accolto con gioia l’articolo apparso in data Jan. 15, 2021
sul New York Times a firma Graham Bowley.
Titolo:
Trump Tried To End Federal Arts Funding. Instead, It Grew.
Occhiello:
Each year, President Trump’s proposed federal budget eliminated funding for The
National Endowment for the Arts. But the agency survived, largely by relying on
bipartisan support in Congress.
E
chi recentemente ha ricevuto un premio dal National Endowment for the Arts?
Roscoe Mitchell, quale 2020 NEA Jazz Master (in Rete è possibile trovare il
video dell’intervista effettuata da Jo Reed, e la trascrizione della
conversazione).
E
quale sorpresa nel trovare sulla copertina di Fanfare For The Warriors la
seguente scritta, la cui presenza avevamo del tutto dimenticato: "The work
on the compositions in this album made possible through a grant from The National
Endowment For The Arts".
Buon
ascolto!
© Beppe Colli 2021
CloudsandClocks.net | Jan. 28, 2021