Pick of the Week #4
Steppenwolf
From Here To There Eventually
(Monster, 1969)
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di Beppe Colli
Dec. 13, 2020



"Il posto dove sono nato è difficile da trovare sulle carte geografiche/E’ cambiato tante volte/Che non so esattamente neppure a quale Paese appartiene"

"Ma mi dicono che la costa del Baltico è piena di ambra/E che la terra era verde/Prima che arrivassero i carri armati"

(…)

"Hey, tu, abbassa la testa/Non guardarti intorno, non fare rumore/Se ti trovano adesso/Ti spareranno addosso".

Questo l’incipit di quella gran bella canzone che è Renegade, brano che il suo autore, John Kay, ha voluto inserire su Steppenwolf 7 (1970), album che per più versi è l’apice del cammino del gruppo, a testimoniare una storia di alcuni decenni prima ancora molto vivida nella sua mente.

Le moderne enciclopedie ci dicono che Joachim Fritz Krauledat nasce il 12 aprile del 1944 a Tilsit, nella Prussia dell’Est (l’odierna Sovetsk, Kaliningrad Oblast, in Russia).

Dopo varie e molto drammatiche vicissitudini, nel 1958 la famiglia (il padre era morto un mese prima della sua nascita) emigra a Toronto, dove gli insegnanti prendono a chiamarlo "John K". Cinque anni dopo, la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti, a Buffalo, New York.

A conclusione del capitolo artisticamente e commercialmente più fertile degli Steppenwolf, John Kay inaugurò la sua carriera solista con un album – Forgotten Songs & Unsung Heroes (1972) – dove rivisitava le proprie radici riproponendo brani di autori (Hank Williams, Richard Fariña, Robert Johnson, Hank Snow) che erano stati un punto di riferimento morale, un modo parallelo di impadronirsi di una lingua straniera e un tassello di una nuova identità per un ragazzo con gravi problemi alla vista – da cui quegli immancabili occhiali scuri che diventeranno parte integrale della "immagine" del musicista e del suo gruppo.

Album pubblicato allo scopo di regalare un po’ di respiro a un gruppo soffocato dalle troppe esibizioni e da un contratto capestro (decisamente comune a quei tempi) che lo obbligava a pubblicare due dischi l’anno, Early Steppenwolf (1969) ci dà la possibilità di cogliere dal vivo gli Sparrows, formazione mista canado-americana dalla quale, con solo qualche aggiustamento, scaturiranno gli Steppenwolf.

Willie Dixon, John Lee Hooker e Hoyt Axton si affiancano a qualche brano originale, e quell’amore per il blues, il rhythm ‘n ‘ blues e il country verrà confermato sull’omonimo album di esordio (1968) con riproposizioni di Covay/Cropper, Willie Dixon e Hoyt Axton (la cui Snowblind Friend farà un figurone sul già citato Steppenwolf 7); mentre Berry Rides Again rilegge la musica di Chuck Berry con un testo che è un pastiche delle sue canzoni.

Lo sguardo del John Kay autore – ma citiamo subito quella voce così "rock" che lo rende immediatamente riconoscibile – non può non risentire della prospettiva di un immigrato "blue collar", "working class", che tiene in gran conto quelle libertà civili e politiche che il Paese che lo ha accolto sembra voler mettere in pericolo tra una guerra in Vietnam e uno spostamento a destra ancora più avvertibile in uno stato, quello californiano, dove gli Steppenwolf si trovano a vivere e lavorare.

Produttore, quel Gabriel Mekler che il lettore probabilmente già conosce senza saperlo: pianoforte e organo su Atlantis, melodica su To Susan On The West Coast Waiting di Donovan.

Il caso volle che un brano destinato a rimanere un classico a distanza di mezzo secolo, inserito in un film di enorme successo e significato culturale quale Easy Rider, inno alla libertà (motociclistica) in un Paese che la legge(va) innanzitutto quale libertà di movimento, scaraventasse gli Steppenwolf ai primi posti delle classifiche in quel 1968: Born To Be Wild. Brano scritto da… Mars Bonfire, in realtà Dennis Edmonton, il fratello chitarrista del batterista del gruppo.

Se Born To Be Wild è il brano che immancabilmente viene fuori ogniqualvolta si parla di Steppenwolf, non sono da meno i singoli ai quali, con alterne fortune, spetterà il compito di tenere il gruppo a galla: Magic Carpet Ride, Rock Me, Jupiter’s Child, Hey Lowdy Mama, Move Over, Who Needs Ya?, Screaming Night Hog (il cui titolo costituirà un insondabile enigma per coloro i quali, ignari del significato di "moto di grossa cilindrata" attribuito negli Stati Uniti a "hog" si trovarono di fronte "un maiale che urla di notte").

E così gli Steppenwolf si trovano oggi rappresentati da due/tre brani, e da una serie di singoli: quelli che è possibile trovare su ogni raccolta che ormai "fa il riassunto" di ogni gruppo o artista che non è diventato un’icona commerciale.

Ma gli Steppenwolf hanno patito una certa sottovalutazione un po’ snob anche ai tempi d’oro, con scarsa attenzione anche per quegli album che funzionavano bene come tali (ed è anche vero che a quei tempi la "concorrenza" era formidabile).

Detto del John Kay cantante e chitarrista, il perno del gruppo sono il batterista Jerry Edmonton e l’organista e pianista Goldy McJohn. Quest’ultimo è spesso missato "dentro" la musica, ma dimostra una buona versatilità e una certa fantasia nelle soluzioni. Batterista tecnicamente "normale", per qualche misteriosa ragione Edmonton risulta non di rado "riconoscibile", così come il gruppo, che quasi senza fatica possiede un suono d’insieme: una caratteristica che al tempo faceva la differenza.

Michael Monarch è il diciassettenne chitarrista sui primi tre album, efficace nella ritmica/solista (vedi Sookie Sookie), non privo di suggestioni "indiane" (sul classico The Pusher, incluso anch’esso nella colonna sonora di Easy Rider).

Quel che latita è la capacità compositiva di riempire due album l’anno. L’ingresso del chitarrista Larry Byrom consente di rimettere in piedi la baracca. Byrom (che ritrovammo tanti anni dopo sulle pagine di Guitar Player quale sessionman di buon successo a Nashville) è un chitarrista solido e versatile, già di provata esperienza, molto efficace nel costruire parti chitarristiche che vanno a formare un panorama ricco e timbricamente vario. Da cui il crollo clamoroso con il suo abbandono, per "motivi personali", e un album, For Ladies Only, decisamente volenteroso ma senz’altro velleitario date le forze del gruppo.

Monster (1969) e il già citato Steppenwolf 7 (1970) costituiscono un’ottima testimonianza della formazione con Byrom alla chitarra. C’è anche una maggiore attenzione al lavoro di produzione, uno sforzo inteso a meglio calibrare gli arrangiamenti, una ricerca dei colori che a distanza di tanti anni piace ancora ascoltare. Timbricamente più ricco, 7 è però un po’ troppo diseguale, da cui la nostra antica predilezione per Monster.

La prima facciata si apre con Monster, lungo brano articolato in tre episodi, con chitarre, organo e voci (c’è anche un coro femminile non accreditato), e un testo che con modalità che diremmo "folk" ripercorre la nascita di una nazione e l’origine di una crisi.

Clima nervoso per il brano successivo, Draft Resister, contraddistinto da chitarre multiple, funamboliche percussioni (tra le quali distinguiamo una non accreditata marimba) e una espressiva prestazione vocale di John Kay.

Comparsa in forma abbreviata su Early Steppenwolf, Power Play gode qui di una estesa coda strumentale e consente di misurare la crescita vocale di John Kay. Entusiasmante il finale, con l’organo in "full vibrato" a chiudere – diremmo – con il solo segnale catturato dal "microfono d’ambiente".

Si gira facciata, e Move Over ci getta in un’atmosfera concitata, con la voce "tutta dentro", un tempo serrato, frenetici fraseggi sul rullante, il pianoforte martellante, e una solista che "strilla".

A questo punto l’album si prende una pausa, con un brano strumentale e una cover a introdurre varietà e un bassista che diremmo non essere quello che suona sul resto del lavoro. "A orecchio", lo diremmo essere quel George Biondo che entrerà ufficialmente nella formazione su 7, in sostituzione di Nick St. Nicholas.

Apertura con piano blues in "rubato", Fag si snoda su un tempo pigro con piano, basso e batteria a sostenere una chitarra solista con timbro in "stile Leslie" (un "phasing"?).

What Would You Do (If I Did It To You)? è una cover rhythm ‘n’ blues con spettacolare attacco di basso e batteria con "controtempi di cassa" e organo in gran spolvero. Cantante non accreditato, coro femminile r ‘n’ b per un brano apparentemente leggero ma non privo di una sua profondità.

Chiude l’album (molto compatto: poco più di 33′, e contano tutti) il brano firmato da John Kay intitolato From Here To There Eventually.

Il tempo medio consente di far parlare il racconto senza fretta inappropriata. La "casa piena di oggetti d’oro" e "il predicare la purezza" consentono di individuare l’interlocutore come "uomo di chiesa". Che però qui non è oggetto di scherno, ché anzi il cantante ricorda quei tempi in cui "When I still embraced you/A little prayer would ease my mind".

"’Til I saw that you hide from the misery outside so I left you behind".

"C’è tanto lavoro da fare nelle strade/(…) Getta via l’abito talare".

E qui un bellissimo episodio "call and response", con la voce di John Kay a dialogare con un coro dal sapore Gospel.

Chiusa la canzone, il gruppo si produce in un bellissimo "groove" di marca r ‘n’ b decisamente "psichedelico" su cui si stagliano urla e quelli che sembrano colpi di frusta, con fruscio di testina dell’eco e un’esplosione Gospel che sembra anticipare Gimmie Shelter ma che potrebbe risentire del coro messo dai Rolling Stones a corredo di Salt Of The Earth, da Beggars Banquet.

"Jesus will save/He’s comin’ back for you people/Yes He is//Jesus will save/He’s comin’ back and you better believe it".

E qui un paio di lenti arpeggi di chitarra elettrica portano imperturbabili il brano alla sua enigmatica chiusa.


© Beppe Colli 2020

CloudsandClocks.net | Dec. 13, 2020