Pick of the Week #5
Cinque canzoni sulla religione
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di Beppe Colli
Dec. 18, 2020
Jethro Tull
My God
"Good
heavens, now Ian Anderson wants us to think!" Questo il titolo
scelto da Disc & Music Echo nel recensire il nuovo album dei Jethro Tull,
Aqualung (1971), buon esempio del rapporto spesso spinoso esistente tra il
leader della formazione e la stampa musicale (diremmo internazionale)
dell’epoca.
L’album
vede l’ampliarsi degli orizzonti sonori del gruppo grazie all’ingresso di un
tastierista in pianta stabile, la sostituzione di un ottimo bassista con uno
che era caritatevole definire mediocre (parliamo della resa al tempo in
questione, ché i miglioramenti furono rapidi e di gran livello), e
un’attenzione al lavoro di produzione che fece di Aqualung il gran successo che
consentì ai Jethro Tull di fare il famoso "salto di categoria".
Due
facciate divise per argomenti, più o meno, con la seconda – "My God"
– a intavolare discorsi sulla religione & affini (la breve Slipstream
dovrebbe essere un ritratto della dipartita dalle spoglie terrene).
Tra
parole di sufficienza e risate di scherno di parte della stampa, My God – brano
che era già stato suonato in pubblico quando ancora Glenn Cornick faceva parte
della formazione, e come tale accessibile nel quadro dell’esibizione del
quintetto nella famosa edizione del 1970 del festival dell’Isola di Wight –
portava ai massimi livelli quella dimensione caratterizzata da
"pieni" e "vuoti" che necessitava della massima disciplina
e di un accurato lavoro di messa a punto.
Tema
del brano, l’ingabbiamento della religione in formule e la personificazione del
divino (mentre per Anderson, che ricordiamo panteista, "He’s inside you
and me"), nonché uno spirito di sfruttamento da parte del Potere.
Canzone
che si apre con un’introduzione di chitarra con echi balcanici per poi
introdurre un pianoforte con profonde risonanze, episodi per flauto e
"voci da chiesa", un bel lavoro di chitarra elettrica e una
prestazione vocale di Anderson acida e sarcastica al suo meglio (si ascolti la
frase "(…) As to how he gets his kicks", con l’immediata ripetizione
"he gets his kicks").
Se
la conclusiva Wind Up rimane una vetta dell’album e l’iniziale Aqualung è forse
stata trasmessa troppe volte per essere apprezzata "come nuova", My
God è il brano celeberrimo che possiamo ricominciare ad ascoltare in tutta la
sua (innegabile) profondità.
Richard and Linda Thompson
The Great Valerio
Dalla
prospettiva lunga dell’anno 2020, il primo titolo che viene in mente al momento
di consigliare un album della coppia Richard and Llnda Thompson – e perché no,
di Richard Thompson – è senz’altro Shoot Out The Lights (1982). Album di gran
belle canzoni dove tutto era andato per il verso giusto, la sicurezza vocale e
strumentale era enormemente aumentata, e gli arrangiamenti e i pesi strumentali
non sovraccaricavano le melodie.
Però
guardare indietro di qualche anno consente di scorgere I Want To See The Bright
Lights Tonight (1974), dove Linda Thompson è già perfetta e Richard Thompson
deve ancora diventare Richard Thompson nella sicurezza vocale e nel trovare un
suono chitarristico che possa "riempire" la sua nuova dimensione
solista dopo i fasti dei Fairport Convention.
Le
canzoni sono in gran parte destinate a rimanere dei classici del musicista e
della coppia – basta citare The Calvary Cross, I Want To See The Bright Lights
Tonight, The Little Beggar Girl, e la celeberrima The End Of The Rainbow
("Una delle vette della depressione"? "Tutt’altro", a
sentire Thompson: "la realtà per com’è").
Ricordiamo
(a memoria) un volumetto che raccoglieva un buon numero di articoli musicali
dello scrittore Nick Hornby, e il suo mettere a confronto un brano di Ian Dury
e The Calvary Cross contenuta in quest’album. Lo scrittore concludeva,
pressappoco, che il ritratto del Paese in cui abitava fatto dal suo autore,
Richard Thompson, mostrava una realtà così inospitale che – diceva Hornby – non
è questo il Paese in cui vorrei vivere.
Una
serie di questioni – fortuna, felicità, prosperità economica – che in una bella
intervista fattagli da Bill Flanagan apparsa sul mensile statunitense Musician
a metà degli anni ottanta Thompson sembrava capovolgere, e che mostrava come la
realtà letta attraverso un "prisma religioso" differisse non poco da
quella "aridità" i cui termini "obiettivi" avevano respinto
Hornby.
Ormai
assenti i segni esterni della sua conversione all’Islam in una delle sue
componenti più rigide, quella Sufi, avvenuta dopo la pubblicazione di I Want To
See The Bright Lights Tonight, Thompson ne portava ancora i segni interiori.
Tutti
i brani di I Want To See The Bright Lights Tonight sembrano voler portare verso
la fine dell’album, asciutta e austera. Detto di The End Of The Rainbow,
cantata da Thompson, il momento destinato a rimanere per sempre nella memoria è
The Great Valerio, cantato da Linda Thompson in quell’inconfondibile stile
privo di vibrato per una melodia che sembra disperdersi nell’aria aperta.
"High
up above the cloud/The Great Valerio is walking/The rope seems hung from cloud
to cloud/And time stands still while he is walking/His eye is steady on the
target/His foot is sure upon the rope".
Eurythmics
Missionary
Man
Tutti
abbiamo delle credenze, ed è un’acquisizione moderna essere rispettosi – o
quanto meno tolleranti – delle credenze altrui. Il che è facile a dirsi e a
farsi se l’ambito di cui parliamo è di (relativamente) poca importanza – un
esempio è quello riguardante l’accoppiamento dei colori nel vestiario o la
foggia (e il colore) dei capelli (e anche lì…). Ma se l’ambito in questione
riguarda aspetti fondamentali della nostra vita e valori cui facciamo
riferimento insieme alle linee di condotta pratica che ne derivano, essere
"indifferenti" implicherebbe che i valori in cui crediamo hanno
un’importanza trascurabile, innanzitutto per noi stessi. Cosa difficile da
accettare.
Una
distinzione che può venirci in aiuto è quella tra un fondamento basato su fatti
verificabili intersoggettivamente e soggetti a revisione razionale e un
fondamento basato sulla tradizione ("l’autorità dell’eterno ieri") e
sul concetto di "verità rivelata", con imprescindibile figura di
"interprete ufficialmente riconosciuto" quale corollario. Ne discende
che imporre la somministrazione di un vaccino che si ha ragione di credere
efficace nel limitare i danni di un’epidemia è cosa ben diversa dall’imporre
l’infibulazione per motivi culturali.
Ma
che succede se ci si trova ad avere una persona di tipo "messianico"
quale proprio coniuge?
E’
quello che è accaduto ad Annie Lennox, la metà più "visibile" degli
Eurythmics, a metà degli anni ottanta. E siamo certi che, nel rispetto delle
cose riguardanti le questioni di cuore, qualcuno – in primis il suo collega di
avventure in musica, David A. Stewart – avrà provato ad avvertirla.
Un
titolo come Revenge – questo il nome dell’album degli Eurythmics pubblicato nel
1986 – e una canzone chiamata Thorn In My Side dicono già molto. Ma non quanto
il titolo del brano che apre l’album: Missionary Man.
"But
there’s just one thing/That you must understand/You can fool with your
brother/But don’t mess with a missionary man".
Il
video che ricordiamo – un sinistro laboratorio, alambicchi e serpenti, i
vestiti di pelle della Lennox – dice molto. Ma in casi come questo basta la
musica, diretta ed esplosiva com’è giusto, con assolo di armonica, voce soul a
dialogare (è Joniece Jamison), batteria in stile "grand canyon" (come
tipico dell’epoca) e una Lennox arrabbiata e grintosa.
"He
said: ‘Stop what you’re doing/Get down upon your knees/I’ve a message for you
that you better believe’"
E
qui il digital delay:
"Believe,
believe, believe, believe…"
Dire Straits
Ticket
To Heaven
E’
questione complessa se e quanto una canzone rispecchi la personalità – e non il
"personaggio" – di chi la canta. Certo è che da moltissimi anni si
registra questa "invarianza culturale": che mentre il pubblico è
prontissimo ad accettare che un attore interpreti una parte cinematografica
lontanissima dalla persona per come è nella vita reale, lo stesso non accade
per i cantanti. Da cui stupore, e nei casi estremi, ira, al momento in cui si
scopre che "non era vero".
La
questione può considerarsi aperta, nel senso di cui si è appena detto, per la
maggior parte della produzione dei brani dei Dire Straits, scritti e cantati
dal chitarrista e leader del gruppo, Mark Knopfler. (Che, lo diciamo tra
parentesi, è da sempre un ammiratore del cantare "in character"
impersonato da Randy Newman, artista con il quale ha collaborato e che ha anche
prodotto.)
Un
cantare "in character" che Knopfler ha senz’altro adottato
interpretando quello che è il più grande successo dei Dire Straits, Money For
Nothing (brano del quale è molto facile ricordare il video, realizzato con una
ai tempi pioneristica computer grafica).
Album
che chiude definitivamente la carriera della formazione, On Every Street (1991)
contiene due canzoni cantate sicuramente "in character": My Parties e
Ticket To Heaven. E se il primo è un piacevole e brioso momento, musicalmente
nella linea degli Steely Dan e di Donald Fagen in particolare, il secondo è un
brano molto più interessante.
Se
in casi come questo la strategia più comune è quella di presentare un
predicatore bugiardo e disonesto che si arricchisce sulla pelle dei gonzi – la
nostra incerta memoria ricorda un brano dei tardi Genesis, crediamo Jesus He
Knows Me ("He knows I’m right/I’ve been talking to Jesus all my life",
andiamo a memoria), e anche il video del pezzo di Ben Folds di cui si dice più
avanti utilizza la stessa strategia – qui Knopfler crea un bozzetto molto più
ambiguo e artisticamente stimolante.
Ticket
To Heaven parla con la voce del protagonista, un uomo di pochi mezzi che manda
quel che può a qualcuno "che porta un anello con un diamante" allo
scopo di "salvare dei bambini/in un Paese povero."
Questi
pochi tocchi sono già sufficienti ad abbozzarne un ritratto: il nostro uomo è
molto probabilmente quello che nella sua lingua chiamerebbero un
"sucker", un poveraccio senza molto intelletto vittima di quelle
piccole (e grandi) truffe di cui è facile bersaglio.
Ma
la musica prescelta – tanto lontana dallo "sneer" asciutto, per
quanto affettuoso e alla fine spesso partecipe, di un Ray Davis – avvolge il
cantante e l’ascoltatore in una luce ovattata che dà conforto. Ritmo e accordi
rimandano al "bajon" (esisterà ancora questa parola?) dei tempi dei
Drifters e di Up On The Roof, con arrangiamento e direzione d’orchestra di
George Martin (l’album è stato registrato nei londinesi Air Studios) e una
frase di pianoforte di Alan Clark memorabile nella sua semplicità.
Ben
Folds
Jesusland
Una
volta avremmo probabilmente iniziato dicendo che "è questione aperta
quanto il lavoro di Ben Folds sia ancora da scoprire o riscoprire, e quali
siano le sue reali possibilità di successo in un panorama come quello
odierno". Ma quando anche un’autobiografia uscita lo scorso anno (e che
riesce a essere allo stesso tempo rivelatrice e reticente) annuncia
ufficialmente che l’artista si ritiene ormai al di fuori da quella che
definisce "musica per l’età in cui ci si riproduce" ("music for
the mating age") non resta che chiedersi quanta musica ancora di là da
venire abbiamo perduto.
E
forse il momento migliore per iniziare a porsi questa domanda è l’album
intitolato Songs For Silverman (2005), che diremmo il meglio riuscito di Folds
se sommiamo qualità delle canzoni, prestazioni strumentali dei musicisti
intervenuti, qualità del suono registrato e limpidezza dello sguardo
compositivo. (Valutazione a parte per Lonely Avenue, l’album frutto della
collaborazione con Nick Hornby pubblicato nel 2010.)
Ottimamente
servita da una ritmica che avrebbe meritato maggiore fortuna – Jared Reynolds
al basso, qui complesso e con sustain da fuzz, e un essenziale Lindsay Jamieson
alla batteria suonata con le spazzole – da violino e violoncello, pianoforte e
un bel mix di voci, Jesusland è un brano "country & western" che
indossa con disinvoltura gli abiti di una ballad pianistica di Elton John.
Il
titolo è successivo a quelle elezioni statunitensi del 2004 che resero di uso
comune la distinzione tra gli "Stati Uniti del Canada" (la parte
progressista del continente) e la parte culturalmente conservatrice chiamata
"Jesusland" (il lettore interessato potrà trovarne tracce digitando
Jesusland su un motore di ricerca).
La
canzone è un viaggio in una terra dove sono ben visibili le tracce della
depressione economica e quelle di una enorme disparità di redditi e
possibilità. C’è un viandante (e forse un legame con la canzone di Joan Osborne
intitolata One Of Us), un uso commerciale della religione e "Crosses
flying high above the malls/Along the walk/Through Jesusland".
© Beppe Colli 2020
CloudsandClocks.net | Dec. 18, 2020