Pick
of the Week #18
Cinque
Outlier
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di Beppe Colli
Apr. 21,
2021
Sempre più
spesso ci ritroviamo intenti a fare una stima del rapporto esistente tra la
musica che possediamo e la sabbia che ancora resta nella clessidra. Ma dato che
non riusciamo mai a vedere con chiarezza quanta sabbia rimane, la stima è fatalmente
destinata a variare, innanzitutto con il mutare delle circostanze e dell’umore.
Quando la
stima ci appare favorevole ci piace riflettere oziosamente su questo o quel
lavoro: si tratta spesso di album che non ci è possibile situare tra i nostri
preferiti ma che offrono non pochi motivi di interesse e che – tempo
permettendo (!) – valgono un riascolto.
E con il
riascolto sorgono interrogativi, uno dei quali è a volte il classico "What
was I thinking?" (yes, nei momenti di maggiore stupore ci capita non di
rado di parlare ad alta voce in inglese), frase che ben si presta ad
accompagnare due cammini opposti: "Ma come abbiamo potuto comprare questa
porcheria?" e "Ma com’è che non ci eravamo mai accorti di quanto è
bello quest’album?".
Una
categoria ben rappresentata è quella che – ricordi di statistica – definiamo
"outlier": album che si distaccano con nettezza da quanto sta loro
intorno. E dato che l’ambito di riferimento varia, variano anche gli esemplari.
Dopo una
veloce ricognizione, ne abbiamo scovati cinque.
Hem
Rabbit
Songs (2000)
Non
proprio sicuri ma quasi, diremmo di aver comprato questo CD dopo aver letto una
recensione (categoria "brevi") sul mensile Made in U.K. Mojo.
Qualcosa nella descrizione dev’esserci risultato persuasivo, ed eccoci qui. La
prima impressione non è stata entusiasmante: diciamo che l’album ci sembrava
perfetto quale ascolto mattutino per bilanciare una notte di grande allegria e
stravizi, tanta era la calma trasmessa dalla strumentazione (misurata, varia:
piano, archi, fiati) e da una serena voce femminile "folk" (niente
vibrato, niente melisma).
Il
procedere degli ascolti ci ha rivelato quanto il nostro giudizio fosse stato
affrettato e ingannevole, mentre un CD player maggiormente evoluto ci ha in
seguito aiutato a mettere a fuoco la bellezza dei timbri. Restava confermata la
nostra impressione di qualcosa che fuggevolmente ci ricordava la Penguin Cafe
Orchestra: innanzitutto la "cifra" degli impasti strumentali, laddove
gli strumenti mostravano una sicurezza temperata da un’impostazione "da
autodidatta", a tratti quasi "amatoriale", che consentiva di
evitare ogni rigidità esecutiva.
Un
organico-base (chitarre, mandolino, pianoforte, glockenspiel, voce) arricchito
da batteria, contrabbasso, violino e all’occorrenza da una sezione archi,
clarinetti, flauto, oboe e da una preziosa ed efficace pedal steel.
Melodie
antiche e che diremmo tipicamente "americane", episodi brevi – sedici
brani per una durata da album in vinile – e testi semplici ma che si prestavano
a molteplici letture. In parallelo al fascino della musica, il libretto
mostrava una grafica "a lento rilascio", laddove solo dopo attenta
frequentazione l’occhio percepiva sulla pagina, dietro testi e foto, spezzoni
di frasi e di spartiti.
La
stampa da noi frequentata non si è più occupata degli Hem, da cui la nostra convinzione
che la formazione si fosse sciolta per mancanza di riscontro. Era vero il
contrario: Rabbit Songs (da noi acquistato su etichetta londinese Setanta) era
stato ristampato di lì a poco in U.S.A. dalla mega-corporation Dreamworks, con
contorno di recensioni entusiastiche. Fallita la Dreamworks, gli Hem hanno
trovato uno sbocco più confacente in territorio "indie", con le
musiche per alcuni acclamati lavori teatrali a seguire.
La
storia recente ci ha (purtroppo) offerto l’occasione per apprezzare
ulteriormente quest’album, vero balsamo per nervi fritti. Una registrazione di
bellezza "normale", ma che è sempre meno "normale" con il
passare degli anni, contribuisce ad aumentare la dose di serenità.
OP8 featuring Lisa Germano
Slush (1997)
Visto
in negozio e immediatamente acquistato, Slush era un titolo della Thirsty Ear
distribuito da una major. Il nome che ci aveva attirato era quello di Lisa
Germano, cantante e violinista già apprezzata sulla stampa
"mainstream" U.S.A. (Rolling Stone, Musician), mentre ci erano ignoti
i nomi degli altri musicisti coinvolti: John Convertino, Joey Burns (che di lì
a poco avrebbero dato vita all’acclamata formazione denominata Calexico) e Howe
Gelb. I tre erano anche conosciuti (ma non da chi scrive) sotto la sigla Giant
Sand, ed era questo il vero motivo d’interesse per la più parte degli
ascoltatori e acquirenti.
La
sigla "oppiacea" (si presti attenzione alla pronuncia di OP8) offriva
un panorama stilistico vario ma che ben si prestava a essere etichettato come
"Americana". Una registrazione con gli strumenti "al
naturale" – bello il violino, le voci, la cassa della batteria, a tratti
iperrealistica – si combinava con momenti "astratti". Lo sguardo
stilistico era bellamente sghembo, per chi conosceva le coordinate tipicamente
americane (quanti sapevano dell’inversione di voci della Sand già duetto Nancy
Sinatra & Lee Hazelwood?).
E’
nostra opinione che la partecipazione di Lisa Germano porti questo lavoro a
livelli ben più alti di quanto altrimenti assicurato dal repertorio dei tre
Giant Sand, sufficiente e a tratti buono ma privo del colpo d’ala della Germano
autrice e interprete di belle canzoni e musicista dalla tecnica normale ma
dall’orecchio di ottimo gusto.
Per
ovvi motivi, un album rimasto senza seguito ma che merita decisamente un
riascolto.
Ruby
Salt
Peter (1995)
Ricordiamo
perfettamente il luogo dove abbiamo visto per la prima volta il nome Ruby: la
copertina del mensile statunitense Keyboard, che dedicava il servizio di punta
all’ "hard disk pop masterpiece" della formazione.
Se
"pop masterpiece" era un’etichetta da prendere con le molle –
"capolavoro" era una valutazione a nostro avviso esagerata; e
"pop" è etichetta dai troppi significati per essere una definizione
utile – la qualità che a quel tempo colpiva maggiormente era "hard
disk", espressione che designava un album realizzato "senza utilizzo
di nastro"; insomma, era fatto al computer (e ProTools); e questo fatto,
che oggi viene dato per scontato, ben misura il cammino percorso.
"Trip-hop
con forti connotati industrial" dovrebbe rendere l’idea di Salt Peter –
nitrato di potassio, nella sua duplice accezione di conservante della carne e
di esplosivo – se dimentichiamo la dimensione "melodica" del trip-hop
e la sostituiamo con un’estetica lugubre, a tratti quasi horror, laddove anche
i momenti maggiormente accattivanti – ci sono due o tre brani
"riempipista", se la pista è quella di un locale pressoché al buio
dove le pasticche consumate non sono quelle di Valeriana – hanno un che di
"poco normale".
Leslie
Rankine veniva dai Silverfish (mai ascoltati né prima né dopo), Mark Walk era
un collaboratore del giro Skinny Puppy. Divisione del lavoro che ci
aspetteremmo: voce e testi la Rankine; sintesi, campionamenti e organizzazione
sonora Walk; melodie entrambi.
La
sorte commerciale del CD (e del gruppo) era insita nel suono di Salt Peter
(l’unico nostro conoscente che sapeva dell’esistenza di quest’album era un DJ
che faceva parte di una squadra di DJ). Tutto l’album è tecnicamente
"datato", quindi le sovrapposizioni, gli incastri e i timbri non sono
più in grado di impressionare "a prescindere". Ma la rivisitazione ci
dice di una proposta che regge proprio perché ben fondata in senso estetico.
Slow Loris
The Ten Commandments And Two Territories According To (1996)
Ricordiamo
bene un episodio: dato che la copertina non indicava né i nomi dei musicisti né
la strumentazione usata, alcuni anni dopo aver acquistato questo CD – ormai
forniti di computer e di linea Internet – scrivemmo alla londinese Southern
Records dicendo pressappoco "Ci piacerebbe sapere qualcosa di più di
questi Slow Loris". La risposta? "Anche a noi."
Non
abbiamo mai capito se la storia fosse vera o no, ma mentre all’epoca la sola
cosa chiara era che il gruppo era di Toronto, oggi è possibile trovare in Rete
ben quattro gruppi che adottano la sigla Slow Loris (che dovrebbe essere il
nome di un animale, mentre la versione maggiormente accreditata a quel tempo
diceva di una presa di lotta libera), anche se con un minimo di pazienza è
facile capire di quale dei quattro si tratti.
Due
chitarre, basso, batteria, qualche esile tastiera e un po’ di tromba per un
repertorio che sembrava riprendere delle "ossature" di un jazz già
molto datato per porgerle in maniera scarna e non priva di interesse, con a
tratti delle "esplosioni" sonore ispide e "moderne", in quel
tipo di situazione in cui non è ben chiaro quanta sia la perizia strumentale
posseduta e quale il grado di maturazione effettivamente all’opera.
Li
avremmo visti volentieri su un palco – a quel tempo ci capitò di vedere
moltissimi gruppi nuovi, quasi tutti scadenti, ma siamo sempre convinti che
l’espressione "fa schifo!" ha più peso se pronunciata di fronte a un
palco che dalla poltrona di casa – ma non crediamo che il gruppo abbia mai
girato oltre le mura cittadine.
Un
album che rimane una stranezza.
Kendra Smith
Five Ways Of Disappearing (1995)
Già
adulti e stilisticamente "altrove", mancammo clamorosamente tutto il
(cosiddetto) "Paisley Underground", Dream Syndicate inclusi; quindi
la circostanza che Kendra Smith avesse fatto parte di quella formazione era per
noi un nudo fatto di cronaca senza significato alcuno.
La
semplicità espressiva di Five Ways Of Disappearing ci trovò coinvolti, con la
cifra "folk", "neo-psichedelica", delle canzoni e dei brevi
momenti strumentali a rimandare a un contesto che diremmo "hippie"
nel senso di "quasi-bucolico".
Voce
dall’atteggiamento colloquiale, chitarre acustiche, qualche tocco di synth,
basso, harmonium, sprazzi di chitarre elettriche "psichedeliche" in
assolo con wha-wha e senza, l’insieme rimandava alla California di Quicksilver
Messenger Service e Jefferson Airplane e agli Amon Düül II nei loro momenti più
"californiani".
La
cifra stilistica dell’album era quella di una musica priva di
"spettacolarità", la cui frequentazione andava misurata su quel
terreno. Una cosa curiosa che ricordiamo è il rifiuto dei pochi ai quali ne consigliammo
l’ascolto, rifiuto basato solo su "mi sono stufato del suono della 4AD",
anche se di tutte le accuse che è possibile rivolgere a Five Ways Of
Disappearing l’unica che non sta in piedi è quella di condividere "il
suono 4AD", qualunque cosa voglia dire.
Un’occhiata
in Rete ci dice che a distanza di un quarto di secolo questo rimane l’ultimo
lavoro di Kendra Smith, circostanza che porta a interrogarsi sul titolo dell’album.
© Beppe
Colli 2021
CloudsandClocks.net | Apr. 21, 2021