Pick
of the Week #8
Canzoni alla radio
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di Beppe Colli
Jan. 15, 2021
Pochi giorni fa, su un forum dedicato alla musica
frequentato da appassionati di tutto il mondo, un utente (si) chiedeva come mai
il celeberrimo Live At Leeds degli Who fosse originariamente apparso in una
forma "monca" che non proponeva l’intero concerto. E perché solo un
album singolo quando si sarebbe potuto benissimo pubblicare un triplo LP? Un
utente del Regno Unito replicava che a quei tempi l’acquisto di un LP era già
uno sforzo impegnativo, e uno al mese costituiva già un traguardo importante.
Quanti avrebbero comprato un triplo? E quanti tripli di quell’anno era in grado
di citare? (Due, ma non diceva quali. Dovrebbe trattarsi della colonna sonora
di Woodstock, che fa caso a sé, e dell’esordio solista di George Harrison,
album in ogni senso epocale che se ben ricordiamo veniva venduto, scatolo
rigido incluso, al prezzo di un doppio album, almeno in U.K.)
Il mese scorso un nostro amico statunitense, vista la copertina
di Monster degli Steppenwolf da noi orgogliosamente esibita nella homepage di
questo webzine a corredo di Pick Of The Week #4, ci scriveva dicendo dei bei
ricordi che la vista di quell’album gli aveva suscitato, e di come ricordava
perfettamente quei momenti d’ascolto, quando aveva ancora nove anni. (Nove
anni?!?!) Il nostro amico aveva sviluppato in tenerissima età un senso musicale
decisamente prodigioso, e i suoi genitori si erano comportati di conseguenza.
Censo a parte, in termini culturali avevamo difficoltà ad associare l’acquisto
di un LP a un’età così precoce. Il nostro percorso, tutt’altro che atipico,
aveva visto l’acquisto del primo 45gg. all’età di dodici anni (Penny Lane, The
Beatles) e del primo LP all’età di quattordici (Waiting For The Sun, The
Doors).
Ben presente a chi c’era, lo scenario che vede l’esplosione
dei consumi musicali giovanili diventa (logicamente) sempre più opaco con il
passar del tempo. Questione tutt’altro che imprescindibile, si direbbe, non
fosse per il fatto che i giudizi espressi su quell’epoca vengono espressi
"al buio".
In particolare, la percezione della sfera pubblica quale
"disvalore" e la "glorificazione del privato" decollata
alla fine degli anni settanta hanno creato le precondizioni per un giudizio
negativo "a prescindere" su tutto quello che porta l’etichetta di
"pubblico" (sanità in primo luogo, con il privato che per definizione
è "più efficiente", e dobbiamo dire che neppure la pandemia in corso
sembra in grado di far capire quali disastri un assetto "tutto
privato" creerebbe alle presenti condizioni).
Il monopolio di Stato nel campo delle telecomunicazioni (a
memoria, la prima emittente radio privata apre a Milano nell’ottobre del 1974)
ha offerto ai giovani italiani la possibilità di ascoltare una panoramica della
moderna musica "rock" internazionale con poche possibilità di
confronto proprio all’ora dei compiti, e non nel cuore della notte, senza dover
fare i conti con numeri tutto sommato sparuti.
E mentre i non interessati alle cronache delle partite di
calcio potevano godere di una sfilza di gruppi che accanto ai più usuali
Beatles e Stones affiancava nomi da radio FM californiana quali Spirit, Vanilla
Fudge e Blue Cheer, la normale offerta pomeridiana offriva senza batter ciglio
Genesis, Yes, Deep Purple, King Crimson, Gentle Giant, Led Zeppelin, Traffic,
Van Der Graaf Generator e così via. (Perfino Nick Drake! Zappa non tanto.)
Abbiamo scelto sei album che a nostro avviso ben
rappresentano l’ampiezza di quanto veniva proposto, non necessariamente "i
più belli" o "i nostri preferiti", anche se a ben vedere chi
scrive ne possedeva quattro su sei, e sarebbero stati cinque se fossimo
riusciti a trovare l’album degli High Tide.
Caravan
In The Land Of Grey And Pink (1971)
Non
fosse che la definizione è da tempo immemore associata alla musica di Brian Eno
– è anche il titolo di un suo album per molti versi importante per la sua
estetica – diremmo che "Discreet Music" è un modo pressoché perfetto
per descrivere la musica dei Caravan su un album riuscitissimo quale In The
Land Of Grey And Pink.
Va
da sé che, qualora opposto ad "assertivo", "discreto" è con
molta probabilità destinato a soccombere. Che è quanto effettivamente accadde
ai Caravan, quanto meno in termini strettamente commerciali: in un’epoca che
favoriva gruppi che presentavano un chitarrista di spicco o un tastierista dal
parco strumenti "formato gigante", i Caravan non avevano né questo né
quello, e ne pagarono il prezzo.
Ma
il polistilismo, la flessuosità ritmica, un organo che si assumeva volentieri
la responsabilità solista riuscendo a suonare fresco – un’impressione immutata
ancora oggi – regalano a quest’album un profumo "per intenditori".
Riascoltato
oggi, In The Land Of Grey And Pink ci ricorda quant’era intonato Richard
Sinclair, qui cantante principale nonché bassista del gruppo. Il che può
sembrare una notazione curiosa, non fosse che con il passare degli anni il
nostro orecchio si abitua sempre più alle intonazioni "corrette a
macchina" della musica (e non parliamo del tempo…). Ne consegue che non
sempre la rivisitazione di un vecchio album ci restituisce intatto il piacere
della musica per come la ricordavamo.
Cantante
intonato che cura l’intonazione del suo basso elettrico – il manico di
appropriata curvatura, le corde fresche, il modo giusto di percuotere la corda
e porre il dito sulla tastiera – Richard Sinclair regala ai Caravan quella
dimensione da "Universo in perfetta armonia" che è il vero segreto
dei Caravan.
Trasmessi
in radio, ma soprattutto in orario serale, quando i rumori del giorno si
attutiscono e lasciano la mente più libera di vagare (che è giusto la
situazione di qualche decennio fa).
High
Tide
High
Tide (1970)
Qui
dobbiamo confessare di aver barato un po’. Non sappiamo se la musica degli High
Tide sia mai stata trasmessa in radio – John Peel la trasmise di certo, in
Italia diremmo di no. Ma l’ascolto dei due album incisi dal gruppo – Sea
Shanties (1969) e High Tide (1970) – è un’esperienza che crediamo fortemente
valga la pena di fare.
Letta
una recensione a dir poco entusiastica (pressappoco: "forse, e dico forse,
esistono chitarristi più bravi di Tony Hill, ma nessuno può superare il violino
di Simon House"), trovata fortunosamente una stampa italiana in vendita
alla Rinascente, ecco fatto: un suono feroce e aggressivo – pare di vedere il
Marshall testata + doppia cassa con 4×12" ruggire – che è ancora più
impressionante per il fatto che la musica possiede un evidentissimo carattere
deliberato. "Una ferocia intellettuale", se è chiara l’idea.
Il
salto tra il primo e il secondo album è semplicemente impressionante. La musica
è ancora più pensata, l’organizzazione – nello spazio e "a strati" –
impeccabile, l’apporto del tecnico George Chkiantz (Family, Soft Machine, King
Crimson) consente una chiarezza sonora che "colpisce" mentre rende
più chiari gli intenti.
La
cosa riesce anche perché la chitarra diventa al contempo più
"piccola" e più "percepibile", laddove il volume bruto
viene sostituito da equalizzazione e "panpottaggio". Ora il quartetto
esegue davvero musica "contrappuntistica".
La
musica al primo posto, ma i testi non sono da meno. In poche righe, The Joke ci
restituisce uno scenario da incubo: in un’aula di tribunale, la difesa
sottolinea il carattere tutto sommato lieve del crimine – definito "eresia"
– che ha portato alla decisione di privare l’accusato della capacità di ridere:
avere riso prima del momento consentito al "motto di spirito" che
costituisce il "momento di partecipazione" del popolo.
Il
solo Simon House uscì semi-indenne dall’esperienza, in un cammino che lo portò
a collaborare con Third Ear Band, Hawkwind (il suo apporto a Warrior On The
Edge Of Time costituisce un’interessante estrapolazione del suo lavoro con gli
High Tide), David Bowie, Robert Calvert e via dicendo.
Quanto
potremmo aggiungere suonerebbe retorico e povero sostituto dell’esperienza
diretta.
King
Crimson
Lizard
(1970)
Concordiamo
pienamente sul fatto che ogni discorso che inizia con l’espressione "ai
miei tempi" non può che essere accolto da frizzi e lazzi.
Ciò
detto, invitiamo il lettore a fare un piccolo esperimento: immaginare un mondo
in cui i brani di un album come Lizard vengono trasmessi per radio alle quattro
di pomeriggio, e nel programma giovanile di massimo ascolto.
In
The Court Of The Crimson King (1969) era stato un esordio epocale e aveva cambiato
metri e modi per quanto concerne lo strumento batteria. Se In The Wake Of
Poseidon (1970) ne era sembrato ripercorrere le modalità (ma è solo
un’impressione), Lizard (1970) aveva creato non poco sconcerto, e non è
difficile capire perché.
L’album
è denso, a tratti dissonante, difficile, percorso da mille stili. E se il suo
predecessore, un Top 5 in U.K., presentava timbriche ormai non troppo ardite
per il rock "moderno", Lizard ne faceva esplodere la tavolozza.
Robert Fripp, il "leader riluttante", mutava anche timbri e linguaggi
della sua chitarra, che pur tra mille distinguo ("è lento") era
entrata nel numero dei grandi.
E’
vero che ascoltato con i mezzi di oggi Lizard non sembra così ardito. Ma è vero
che prima dell’avvento del CD c’erano LP che erano un vero tormento, per lo
sfavorevole rapporto segnale/rumore del vinile, per la stampa poco accurata
degli LP, per la qualità molto spesso scadente del vinile usato. E se c’era un
gruppo che adoperava una dinamica paragonabile a quella di un’orchestra erano i
King Crimson. I giradischi dell’epoca facevano il resto – ricordiamo ancora i
commenti fatti ascoltando l’inizio dell’album Larks Tongues In Aspic: "Tu
ne senti musica? E’ già cominciata?".
Eppure,
con cautela, questa musica entrò nelle case, con pazienza. Una
qualità ormai impossibile da trovare.
Moody Blues
To Our Children’s Children’s Children (1969)
Se
c’è un gruppo indifendibile, oggi, è quello dei Moody Blues. Ed è una valutazione
che lungi dal limitarsi alla disapprovazione sfocia con gioia nello sberleffo.
Non
è solo storia di oggi, comunque, ché già all’epoca delle vendite stratosferiche
e dei tour milionari il gruppo poteva vantare un nutrito gruppo di agguerriti
detrattori. E anche la radio italiana, nei suoi programmi specializzati,
sembrava trasmetterli poco e controvoglia, fatti salvi i (pochi) successi
mondiali.
"Va
bene, ammettiamolo: i Velvet Underground hanno vinto e la melodia ha
perso". Questo il commento dell’unico critico davvero a favore in uno
"speciale" dedicato ai Moody Blues dove (almeno!) metà degli invitati
era veramente contro!
Pseudo-Prog.
Melassa. "Pretentious".
Tutto
rema contro. Le copertine. Il senso melodico. I cori (non parliamo dell’ottava
alta di John Lodge…). Gli arrangiamenti ("pomposi"). Le parti
parlate ("ridicole"). I testi ("elementari").
Forse
solo i commenti letti nel corso degli ultimi anni a proposito di Donovan (una
lettura decisamente sconsigliata ai più impressionabili) sono in grado di fare
il paio, ma "il celebre menestrello" presenta ambizioni meno
smisurate ed è quindi un bersaglio meno ghiotto.
(Un
ragazzo che veniva a trovarci per la prima volta vide la nostra
"collezione di dischi" e disse "ah, vedo che ti piace la musica commerciale".
I bersagli migliori per un simile commento erano ovviamente i Creedence
Clearwater Revival e i Moody Blues, ma quando gli chiedemmo a chi si riferisse
disse deciso "i Doors, un gruppo da 45 giri".)
Con
il passare del tempo abbiamo fatto il callo a quasi tutto, e anche sui Moody
Blues non ce la prendiamo più come una volta. Certo, se chi li critica cammina
con Unrest degli Henry Cow sotto il braccio è un conto. Ma se annovera tra i
suoi preferiti gli Abba o Esquivel ("devi ascoltarlo tra virgolette!")
o la "Bachelor Pad Music"…
Un
tempo gruppo "beat" di fuggevole successo, i Moody Blues rinnovarono
la formazione e accolsero tra gli strumenti il Mellotron. E dato che il
tastierista del gruppo, Mike Pinder, lavorava per la ditta che li fabbricava,
ecco suoni diversi e una capacità di utilizzo che ben ne sfruttava i colori.
La
Decca affiancò un produttore, Tony Clarke (alla cui morte Mojo non ha creduto
doveroso dedicare nemmeno una riga), e un tecnico come Derek Varnals. Da cui,
album che sono un vero e proprio textbook su un modo di fare musica registrata,
con uso dello studio, degli effetti e dei nastri che solo la bella
accessibilità della musica consente di non notare.
Il
periodo che conta è racchiuso tra due hit mondiali: Nights In White Satin
(1967) e Question (1970).
Album
ricco di musica "non riproducibile" dal vivo, e al quale quindi i
Moody Blues fecero seguire A Question Of Balance (1970), che se non proprio
"unplugged" mostra il gruppo nei suoi termini più
"elementari", To Our Children’s Children’s Children (1969) immerge le
tipiche musiche del quintetto – il folk, la ballata, i momenti
"spaziali" – in un’oscurità fortemente coesa ricca di riverberi
laddove la malinconia tipica e i momenti "whimsy" convivono illuminandosi
l’un l’altro.
Traffic
John Barleycorn Must Die (1970)
Un
tempo, quando i gusti seguivano un andamento lento e arrivavano a sedimentare
in oggetti durevoli, esistevano "le classifiche", intese come "i
migliori" questo o quello.
La
Perfida Albione ha portato l’usanza ben oltre i limiti del disturbo
comportamentale, giungendo a eccessi ("la migliore lista delle
liste") poi esportati negli Stati Uniti, allorquando i direttori dei
mensili U.K. di maggior successo vennero irretiti dal dollaro
"yankee" e Blender e Rolling Stone si camuffarono da Smash Hits.
Una
frequentazione "ex post" e un pubblico uso ai riassunti hanno finito
per provocare dei ribaltamenti che visti dall’esterno hanno un che di comico.
Il migliore album dei Jethro Tull? A Passion Play. Dei Beatles? Il "doppio
bianco", o Let It Be. Dei Led Zeppelin? Coda. Dei Rolling
Stones? Their Satanic Majesties Request o Goats Head Soup. Di Jimi Hendrix? Band
Of Gypsies. E così via.
Ma
a ben vedere i motivi per considerare "i soliti sospetti" quali
"i migliori album" di quei gruppi non erano poi tanto peregrini, e
raccoglievano un consenso aggregato basato su valutazioni che, se non
"obbiettive", erano quanto meno comprensibili.
Di
tanto in tanto ci è capitato di visitare, in qualità di osservatori, le famose
"fiere del disco". E qui, se qualcuno chiede o compra "qualcosa
dei Traffic", quasi sempre spunta una copia di John Barleycorn Must Die.
Che
è davvero un bel disco ("e se lo diciamo noi…"). E che è anche il
primo album dei Traffic che comprammo e forse il più trasmesso in assoluto come
album tutto dalla radio italiana.
Il
giovanissimo Steve Winwood veniva da hit mondiali dello Spencer Davis Group che
aveva cantato e spesso composto e sui quali aveva suonato un già riconoscibile
organo Hammond. Gruppo di popolarità "underground" con buon seguito
sulle coste americane, i Traffic si erano sciolti e Winwood aveva fatto
comunella con gli ex Cream Eric Clapton e Ginger Baker fondando i Blind Faith.
Un
successo colossale e incontrollabile aveva fatto a pezzi il sistema nervoso dei
componenti, da cui la decisione di Winwood di rifondare i Traffic.
Idee
chiare, pluralità di stili, arrangiamenti curati, buon suono, tavolozza
strumentale ricca, con un senso della misura che consentiva di evitare gli
eccessi.
Si
ascolti Stranger To Himself, dove Winwood suona tutti gli strumenti, con quel
bell’amalgama di chitarra acustica con il bottleneck, solista alla Cream,
pianoforte, basso pregevole, batteria di sostegno e splendida voce.
O
il groove asciutto ed essenziale di Empty Pages, con un ottimo assolo di piano
elettrico la cui trascrizione parziale, sia detto di passata, un giorno
trovammo su un numero di Down Beat che in copertina aveva Ornette Coleman e
all’interno un’intervista a Don Preston.
Van Der Graaf Generator
Pawn Hearts (1971)
Per
i Van Der Graaf Generator vale quanto già detto per i King Crimson del periodo
Lizard: chiediamo al lettore di immaginare un tempo e un luogo in cui un album
come Pawn Hearts – la cosa vale anche per il suo immediato predecessore, H To
He – è tra i più trasmessi del programma radio pomeridiano "per i
giovani".
Ci
corre il dovere di precisare che quanto appare ormai da decenni sulla stampa e
sui libretti dei CD – che Pawn Hearts giunse al #1 delle classifiche italiane e
che il gruppo doveva essere scortato dalla polizia in quanto celebrità – a noi non
risulta.
Quel
che è vero è che i Van Der Graaf Generator furono per lungo tempo tenuti a
galla dal pubblico italiano che ne comprò i dischi e ne affollò i concerti, la
cosa essendo valida anche per Genesis, Gentle Giant, Soft Machine e via
dicendo.
La
preferenza di chi scrive oscilla senza un vero motivo tra i due album già
citati: a volte preferiamo la (relativa!) semplicità della veste sonora di H To
He, altre volte ci piace immergerci nella moltitudine moltiplicata dai
riverberi di Pawn Hearts, album che come il suo predecessore fu prodotto da
John Anthony e registrato negli studi Trident con l’apporto tecnico di (gasp!)
Robin Cable, David Hentschel e Ken Scott.
Dato
che la lunga suite della seconda facciata mal si prestava a essere trasmessa
per intero, la programmazione radiofonica puntò sui brani più accessibili (!)
posti sulla prima facciata, con Lemmings a soffrire per via di alcuni passaggi
a volume troppo ridotto (la riascoltavamo giusto ieri, con sul finale quei
colpi di rullante sul canale destro seguiti dalla cupa cassa sul canale
sinistro: tu-tùm, tu-tùm, tùm, tu-tùm).
E
fu così che Man-Erg divenne l’equivalente di un 45gg. di successo, tutti e
nove, o dieci, minuti, e l’attacco di piano che immancabilmente portava
all’inizio della storia: "A Killer Lives Inside Me/Yes, I Can Feel Him
Move" e al racconto della pluralità dell’io (o qualcosa del genere).
Ma
non è una storia conclusa allora, come vedrà chi ascolterà questo brano.
©
Beppe Colli 2021
CloudsandClocks.net
| Jan. 15, 2021