Phish:
un profilo critico
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di Beppe Colli
Feb. 26, 2003
E così i Phish ricostituiti sono finalmente
approdati sulla copertina di Rolling Stone (è il # 917, datato
March 6, 2003). Ci erano andati vicinissimi nel 1996, quando la promessa
di una cover story non fu poi mantenuta – o almeno così pare
(se ben ricordiamo in quell’occasione la copertina andò all’attrice
protagonista del serial X-Files). A ben considerare, quello sarebbe
stato il momento più logico: con pochissimo appoggio da parte
della casa discografica, senza alcun video in "heavy rotation"
su MTV né hit radiofonici né copertura massiva sulla stampa
che conta il quartetto del Vermont era diventato una delle attrazioni
di punta del circuito concertistico statunitense, giungendo a esaurire
in sole quattro ore i biglietti per un concerto al Madison Square Garden.
Era anche l’anno di Billy Breathes, sicuramente il miglior album di
studio inciso dal gruppo fino a quel momento (e quello che viene ancora
oggi considerano da molti il più riuscito): un disco che proprio
su Rolling Stone aveva goduto di una recensione entusiastica – e non
poco percettiva: un evento decisamente non comune – da parte di Richard
Gehr. L’estate di quell’anno aveva anche visto i settantamila paganti
della "extravaganza" all’aperto di The Clifford Ball, che
faceva seguito a Sugarbush (’95) e che sarebbe poi stata seguita da
eventi quali The Great Went (’97) e Lemonwheel (’98): le vere "prove
generali" dello spettacolare concerto della notte di Capodanno
del 1999, quando i Phish avrebbero suonato per otto ore filate davanti
a più di ottantamila persone alla Big Cypress Seminole Indian
Reservation in Florida.
Il servizio non è un granché. E in fondo si poteva immaginare:
se è vero che l’autore dell’articolo, David Fricke, non è
esattamente il primo venuto, è pur vero che il suo cuore "garagista"
batte più velocemente in altre occasioni – ad esempio, un bel
tributo ai Ramones. Ricco di note di colore, senza dubbio utile per
un lettore statunitense totalmente all’oscuro dei fatti (ne esisteranno?),
risulta però privo di ogni minimo approfondimento. (Ed è
vero che da un articolo che già alle prime battute definisce
il gruppo inserendolo nella "psychedelic-dance-party tradition
of the Grateful Dead and the Allman Brothers Band" sappiamo in
partenza che non potremo aspettarci molto.)
Decisamente meglio era andata ai lettori del New York Times, con un
servizio del sempre acuto Jon Pareles (Phish Is Happily Reunited to
Go Against the Grain, December 08, 2002), e di Billboard, con un bel
Phish Swims Again firmato da Jonathan Cohen e apparso nell’edizione
del settimanale datata December 21, 2002. Il che a ben vedere costituisce
una costante per i Phish: se i giornali musicali non hanno infatti mai
speso molto acume (certo, quello che c’era) nel trattare la musica del
gruppo (e ovviamente neanche molti pollici), diverso trattamento è
stato loro riservato dai quotidiani. Va da sé che ben altra attenzione
è venuta dai giornali "specializzati", da Guitar Player
a Musician passando per Drums And Drumming e Guitar World. Sempre con
misura, però: se infatti i Phish sono strumentisti di tutto rispetto
è il suono d’insieme del gruppo e l’acuto interplay esistente
fra i quattro a fornire risultati memorabili. E nessuno di loro – neppure
lo sciolto, elegante e versatile chitarrista Trey Anastasio – ha "fatto
scuola" creando quelle schiere di emulatori che molto spesso fanno
di uno strumentista una figura di culto a livello di massa.
Se il gusto del singolo critico è
ovviamente fattore da mettere in debito conto (vedi il Decano dei Critici
Americani, Robert Christgau, che ha regolarmente massacrato tutti gli
album dei Phish per poi attribuire il massimo voto possibile – A – a
Missundaztood di Pink), una disattenzione di massa che si tramuta in
attenzione "obtorto collo" quando il successo ottenuto oltrepassa
quei limiti quantitativi oltre i quali non è assolutamente ignorabile
– ma che a quel punto lo rubrica alla voce "fenomeno di costume",
poco o nulla curandosi della musica – è un tratto decisamente
interessante, e forse potenziale cartina di tornasole dello stato attuale
delle condizioni della stampa musicale di alta e media tiratura (la
piccola ha sempre il problema di pagare i conti del salumiere). Pochissimo
"personaggi", i Phish risultano assolutamente mancanti di
quelle caratteristiche di facile spettacolarizzazione che rendono figure
quali PJ Harvey, Beck e Cat Power i cocchi di Rolling Stone ben al di
là dei rispettivi livelli di vendita. Dieta "vegetariana"
(qualche fungo e un po’ di erba), abbigliamento decisamente ordinario,
eloquio piano e ordinato che va sempre a parare sulla musica: improvvisazione,
arrangiamenti, pratiche bizzarre ("including your own hey")
nelle prove di gruppo (prove che sono quotidiane e interminabili, e
seguite immancabilmente da altrettanto interminabili discussioni), la
valorizzazione di uno sforzo pluriennale e collettivo quale mezzo più
appropriato per raggiungere risultati degni di nota in un contesto culturale
che privilegia il "modello lotteria" quale quello più
consono a raggiungere gli obbiettivi… Diciamocelo francamente: a chi
può interessare? (Non c’è neppure qualcuno che suoni seduto
su uno sgabello! Fortunatamente il lancio di palloni tra il pubblico
soccorre il recensore a corto di argomenti.)
La storia del gruppo ha inizio, com’è
largamente noto, all’Università del Vermont. Dopo alcune false
partenze, la formazione si stabilizza a metà degli anni ottanta:
Mike Gordon è il buon bassista fanatico di bluegrass, Jon Fishman
il versatile batterista dal retroterra zappiano (ha recentemente curato
un’antologia del Maestro di Baltimora) da cui il gruppo prende il nome,
Page McConnell il formidabile pianista amante di Bill Evans e di Duke
Ellington laureatosi con una tesi sull’improvvisazione, il chitarrista
Trey Anastasio il vero motore e la prima ragion d’essere del quartetto.
Famiglie (non rinnegate) di tenore decisamente medio-alto. Gli anni
dell’università – e oltre – forniscono l’occasione per una sperimentazione
priva di inibizioni grazie ai numerosissimi bar e locali dove è
possibile suonare – su tutti il celeberrimo Nectar’s, che dà
il titolo al terzo CD del gruppo.
E dato che a proposito dei Phish si usa spesso il termine "improvvisazione"
sarà utile precisare immediatamente che non è di quella
di Derek Bailey e di Evan Parker che qui si parla. Piuttosto, la parola
va intesa in due sensi di immediata comprensione. Innanzitutto, l’improvvisazione
idiomatica tipica del jazz (il che è decisamente intuitivo, date
le preferenze sopra riferite – ma anche Anastasio ha citato le "motivic
variations" caratteristiche di un Sonny Rollins) cui c’è
però da affiancare il giuoco di variazioni proprio dell’Arte
della Fuga – sì, esattamente quella. Il che risulta di fondamentale
importanza per un gruppo che vede le proprie improvvisazioni come un’attività
collettiva le cui parti sono strettamente correlate in virtù
di regole liberamente scelte (e ovviamente variabili) ma cogenti: un
principio che i quattro mettono in pratica durante quelle interminabili
prove. Prove che servono a creare uno specifico modus operandi caratteristico
del quartetto. Diciamolo subito: i Phish tendono a rifiutare (non è
azzardato né difficile scorgere anche motivazioni non-musicali)
la concezione "solista + accompagnamento". Quindi, orecchie
sempre aperte e ruoli paritari.
La seconda accezione è quella che porta a non preparare (o a
ignorare) le scalette, a suonare sui trampoli, a non fare mai due concerti
allo stesso modo, a riprendere brani altrui con effetto-sorpresa, a
preparare un hot dog gigante viaggiando sul quale far visita a colui
il quale ha il posto peggiore in tutto il teatro, a costruire un sito
idoneo – strade comprese – a fare un concerto in un luogo assurdo dove
ci sono solo paludi, a gettare tra il pubblico dei palloni il cui rimbalzare
costituirà regola per la musica eseguita… Diciamo il senso
della sorpresa? E’ certamente vero che a volte il gruppo è sembrato
privilegiare il processo rispetto ai risultati, o quanto meno a vedere
questi come subordinati a quello (ma non potremmo dire la stessa cosa
a proposito di interi periodi della produzione di Derek Bailey ed Anthony
Braxton?). Se però uno dei risultati del processo è quello
di garantire la possibilità di buoni risultati nel lungo periodo
si può tranquillamente affermare che il gruppo ha saputo vedere
giusto.
Originariamente una cassetta venduta ai concerti,
Junta (1988, poi ristampato con aggiunte come doppio CD nel 1992) è
il primo lavoro "ufficiale" dei Phish. Se i "suoni"
dei singoli non sono ancora quelli definitivi, quello di gruppo è
invece decisamente visibile. Già presente il proverbiale pluristilismo
(ascoltatori decisamente onnivori, si può ben dire che non esista
genere con il quale i Phish non si siano prima o poi confrontati). Fanno
la loro bella figura quei brani che saranno l’asse portante dei concerti
per molti anni a venire: You Enjoy Myself, Golgi Apparatus, The Divided
Sky, David Bowie. C’è anche una fuga (Fluffhead), mentre la lunga
improvvisazione di Union Federal, pur talvolta traballante, non somiglia
a nulla di già sentito. Perfettamente evidente il ricorso a materiale
complesso ("scritto", nel senso letterale del termine) reso
con scioltezza esecutiva. Facilissimo scorgere in filigrana l’influenza
di certo progressive, cui va di pari passo lo studio delle strutture
classiche da parte di Anastasio. Il tutto reso con "pronuncia"
tipicamente statunitense. E già queste coordinate sono sufficienti
a misurare la distanza che separa il quartetto del Vermont da quei Greatful
Dead (pensiamo agli elementi fondanti della musica di quel collettivo:
Bluegrass e Rhythm’n’Blues cucinati in salsa psichedelica) tanto spesso
– e tanto pigramente – citati quali termini di paragone.
Le cose migliorano decisamente con i due album successivi. Lawn Boy
(1990) vede la presenza di altri brani celebri più volte rivisitati
dal vivo: The Squirming Coil, Reba, Split Open And Melt, Lawn Boy, Bouncing
Around The Room e quella Run Like An Antilope che vede un assolo di
chitarra nel quale è per la prima volta presente il riconoscibilissimo
suono – così limpido pur nella saturazione – tipico di Anastasio.
Va qui notato che nel corso della carriera – su pressoché tutti
gli album e in infiniti concerti – il chitarrista ha affrontato la grande
varietà stilistica di un repertorio enorme con un’unica chitarra
e due amplificatori: Mesa Boogie fino alla metà degli anni novanta
e un paio di Fender (occorre precisare che sono valvolari?) da quel
momento in poi; la chitarra è invece una costruzione artigianale
del liutaio – e tecnico del suono del gruppo – Paul Languedoc. Il che
dovrebbe dire molto.
A Picture Of Nectar (’92) è senz’altro l’album più bello
del primo periodo "indipendente" (il disco è il primo
a uscire su Elektra, ma la sua realizzazione era già stata ultimata
prima della firma del contratto). Qui tutto va per il verso giusto –
c’è il suono complessivo, e ci sono anche i suoni. Compare anche
una componente latina, resa con agilità e scioltezza. Polistilismo
come al solito (si confrontino gli accenti ritmici delle due versioni
di Tweezer), si aggiungono altri pilastri concertistici: Stash, Guelah
Papyrus, Chalk Dust Torture e la già citata Tweezer, nel cui
intricato svolgimento non è certo azzardato scorgere decisi echi
frippiani.
E’ a questo punto che le cose vanno storte: gruppo che si esprime al
meglio in concerto, i Phish toppano (per motivi opposti) nei due successivi
album di studio. Prodotto da Barry Beckett – sì, proprio il tastierista
della famosissima sezione ritmica di Muscle Shoals – Rift (’93) soffre
per eccesso di rigidità e per troppe ambizioni non realizzate.
Pubblicato l’anno successivo, il compatto (Hoist) abbraccia una facilità
che risulta forzata. E’ tempo di una pausa di riflessione.
Se ciascun membro dei Phish è elemento
indispensabile per ciò che riguarda il risultato finale, Trey
Anastasio è la vera ragion d’essere del gruppo – e il compositore
di oltre il 90% del materiale. Mentre i Phish proseguiranno imperterriti
nell’attività live – ed è proprio a metà degli
anni novanta che il loro seguito concertistico, già ampio, diventerà
oceanico – le coordinate che presiedono all’incisione discografica sono
a quel punto sicuramente bisognose di un ripensamento. Anastasio ricaricherà
le batterie frequentando altri musicisti: è in compagnia di Jon
Fishman e di altri validi strumentisti (tra i quali Marc Ribot e Marshall
Allen e Michael Ray dell’Arkestra di Sun Ra) che nasce l’album a nome
collettivo Surrender To The Air (’96), bella appendice del davisiano
Jack Johnson. Per contro, la scelta di privilegiare canzoni che abbiano
senso compiuto anche qualora suonate su una semplice chitarra acustica,
con durate e arrangiamenti che le rendano "finite" anche in
studio – piuttosto che semplici abbozzi da arricchire in concerto –
sarà la mossa vincente ai fini della riuscita del disco che segnerà
la definitiva maturazione dei Phish.
Come ovvio per un gruppo che effettua un
numero incredibile di concerti e ha un seguito tanto vasto quanto fanatico,
dei Phish circola da sempre un gran numero di nastri dal vivo. Tra l’altro,
nella tradizione dei Greatful Dead, i quattro ne hanno sempre incoraggiato
la registrazione e lo scambio non a scopo di lucro. Il che col tempo
si è forse rivelato essere un’arma a doppio taglio: se da un
lato il gruppo ha infatti potuto contare su un passaparola perfettamente
idoneo a sostituire un (inesistente) lancio pubblicitario di massa da
parte della casa discografica (un impegno che i Phish hanno dimostrato
in varie occasioni di non gradire e di non essere affatto propensi a
ricompensare nei modi che sono industrialmente usuali) il fatto che
le scalette dei concerti viaggiassero sul Web grazie a gruppi organizzati
di fan agguerriti ha finito per costringere il gruppo a non ripetersi
anche quando avrebbe forse ritenuto artisticamente più utile
farlo. E’ un problema emerso pubblicamente in occasione del tour che
Anastasio ha effettuato con l’ampio gruppo dai molti fiati che aveva
già ben figurato sul suo disco da solista – Trey Anastasio (2002)
– pubblicato durante lo "hiatus" dei Phish. (Detto tra parentesi,
nel citare Santana quale unica cifra stilistica dell’album – decisamente
complesso a onta di una superficie non poco accattivante – alcuni recensori
hanno dimostrato quanti pezzi del disco si fossero degnati di ascoltare:
uno.)
Il doppio A Live One (’95) rimane forse la migliore introduzione alla
dimensione concertistica del gruppo. Il pur gradevole Slip Stitch And
Pass (’97), versione abbreviata di un concerto tedesco, non riesce a
fornire un quadro minimamente indicativo, pur segnalandosi per un’ottima
versione di Taste con bellissimo assolo di Anastasio, contraddistinto
a tratti da nasali movenze tipicamente zappiane. Opposti motivi rendono
il mastodontico (6 CD!) Hampton Comes Alive (1999) certamente poco proponibile
quale primo approccio. Con i suoi trenta minuti di durata, la versione
di Tweezer presente su A Live One è forse il momento in cui la
logica del procedere del gruppo è più accessibile; quasi
allo stesso livello i venti minuti di You Enjoy Myself. Ma ci sono anche
brevi flash di abbagliante splendore, ad esempio i due minuti di fissità
quasi teutonica che erompono durante Stash (da 7′ a 9′). Il tutto affiancato
alla semplicità di – appunto – Simple. Molto belle anche le limpide
riproposizioni di Bouncing Around The Room e di The Squirming Coil.
Le mosse successive hanno confermato la lucidità del gruppo.
Durante i due anni di pausa sono stati pubblicati sedici album dal vivo,
per la maggior parte tripli e quadrupli. Particolarmente preziosi i
volumi che vanno dal 13 al 16, che hanno consentito l’ascolto di quei
concerti di Halloween durante i quali il gruppo, in aggiunta al proprio
repertorio, aveva indossato un "musical costume" riproponendo
un album famoso nella sua interezza. Il Volume 13 (inciso nel ’94) ospita
The Beatles (il celeberrimo "doppio bianco"), mentre il Volume
14 (del ’95) ripropone Quadrophenia degli Who (la scelta di ambedue
gli album era stata operata dai fan). Il Volume 15 (’96) offre Remain
In Light dei Talking Heads – e il recupero di quel disco molto frequentato
ai tempi dell’università potrebbe forse essere considerato la
prova generale del cosiddetto "periodo funk" che avrà
inizio di lì a poco. Loaded, l’album "garage" dei Velvet
Underground, è il classico rivisitato nel Volume 16 (’98).
Pubblicato lo scorso anno, il DVD Live In Vegas offre un concerto di
quasi tre ore risalente al settembre del 2000. Repertorio eclettico
– anche una lunga esplorazione trance/ambient, mentre l’esilarante cover
della rollingstoniana Emotional Rescue cantata in falsetto da Mike Gordon
durante il bis offre un momento di impagabile humour. Ma è soprattutto
l’interplay del gruppo a venire fuori con chiarezza cristallina: gli
sguardi, il profondo rapporto armonico chitarra/pianoforte, quel suonare
il basso a occhi chiusi e a orecchie spalancate. Semplicemente indispensabile.
In tempi di scambi "peer to peer" ha destato molto clamore
la recentissima mossa del gruppo, che ha annunciato la messa in vendita
– a basso prezzo, e sotto forma di file (quindi con supporto fisico
"virtuale") trasferibili – di tutti i concerti della ricostituzione:
innanzitutto quello del Madison Square Garden della notte di Capodanno
e i tre successivi tenutisi ad Hampton, in Virginia, poi tutti gli altri.
A poco tempo dall’inizio dell’esperimento – e in seguito a feedback
dell’utenza – il sistema di downloading ha già subito profonde
modifiche idonee a renderne le procedure più snelle ed efficienti.
Con solo un altro album contrattualmente dovuto alla Elektra, il gruppo
ha attuato una strategia mirata a rendere più sereno il proprio
futuro. La base, ricordiamolo, sono quasi vent’anni di lavoro.
Fu l’accertata impossibilità a essere
parimenti lucidi al di qua e al di là del vetro durante la lavorazione
di Billy Breathes (’96) il fattore che indusse i Phish a rivolgersi
a Steve Lillywhite. Se il disco è fatto soprattutto di canzoni
brevi, non per questo la personalità del gruppo risulta sminuita
o assente. Se l’approccio stratificato consentito dall’avere a disposizione
un orecchio esterno va immediatamente a beneficio di voci e chitarre,
è il suonare per la canzone che permette il raggiungimento di
nuove vette, laddove la proverbiale abilità strumentale trova
una nuova ragion d’essere – si ascolti l’intrecciarsi poliritmico di
Taste o le splendide parti di basso subliminali di Free. Il disco rifulge
sia nei momenti in cui l’energia è più sostenuta – Free,
Character Zero, Prince Caspian – che laddove prevale una velata malinconia
– Taste, Talk, Bliss, Billy Breathes, Swept Away. Ideale spartiacque,
Theme From The Bottom riesce a trasmettere pienamente – e in modo compatto
– tutta l’energia dei Phish dal vivo.
Non tutti gradirono la svolta funk di The Story Of The Ghost (1998).
In buona parte frutto di jam ritagliate e montate, il disco è
in realtà decisamente pregevole – posto che esista un’affinità
tra l’ascoltatore e i climi stilistici qui prevalenti. L’album è
tra l’altro una buona dimostrazione del fatto che registrare in digitale
e allineare gli eventi non deve necessariamente produrre un risultato
freddo e meccanico (però occorrono buoni plug-in e veramente
un sacco di tempo). Climi secchi ed essenziali, basso tenuto alto, curatissime
parti vocali, belle canzoni: Ghost, Meat, Shafty, Limb By Limb, Brian
And Robert, Frankie Says, Roggae, Wading In The Velvet Sea. Un disco
che offre molto di più di quanto non appaia a un ascolto distratto.
Superlavoro, pubblico adorante e gigantismo
organizzativo possono benissimo spiegare la decisione di staccare la
spina. E l’indeciso Farmhouse (2000) non è l’album di un gruppo
che gode di splendida salute. C’è da considerare che la responsabilità
del corretto procedere delle cose ricadeva quasi interamente sulle spalle
di Anastasio. Ma se in questi casi è sempre difficile fare supposizioni,
lo è massimamente a proposito di questo quartetto, che ha più
volte dimostrato di possedere una dinamica interna estremamente complessa
e delicata, non facilmente leggibile dall’esterno.
I progetti solistici successivi allo scioglimento sono stati variamente
criticati, a volte con una certa asprezza. Del disco di Trey Anastasio
si è già detto. Né il Vida Blue di McConnell né
il Pork Tornado di Fishman sono dischi destinati a rimanere nel ricordo.
Diverso il caso di Mike Gordon, che collaborando con il chitarrista
Leo Kottke, suo eroe personale, ha prodotto Clone: un piccolo album
dai molti meriti.
E’ certamente possibile ipotizzare che Anastasio abbia (inconsapevolmente?)
inteso la dolorosa separazione quale occasione offerta ai suoi amici
per sviluppare forti capacità di iniziativa personale, tali da
consentir loro di assumersi – in un eventuale futuro – pesi e responsabilità
in quantità decisamente superiori che in passato.
Siamo così giunti all’oggi. L’annuncio
della ricostituzione, la sorpresa di un album – l’eccellente Round Room
– inciso pressoché in presa diretta, il concerto di Capodanno
al Madison Square Garden (del quale i Phish hanno rifiutato di vendere
i diritti per un pay-per-view televisivo), il tour in corso mentre scriviamo.
Puntualmente, le (numerosissime) recensioni di Round Room hanno confermato
la pigrizia mentale che affligge buona parte dei recensori statunitensi.
D’altronde, come ha scritto Robert Doerschuck sul numero di On Stage
Magazine datato May/June 2002 introducendo A Phish Goes Solo, una bella
intervista a Trey Anastasio, "Le loro esibizioni erano come la
"haute cuisine" paragonata al fast food del postpunk; ci vuole
un orecchio da intenditore, una certa capacità di discernere,
per apprezzare il sottile virtuosismo della band".
© Beppe Colli 2003
CloudsandClocks.net | Feb. 26, 2003