Evan
Parker Electro-Acoustic Ensemble
The
Eleventh Hour
(ECM)
Se ai
tempi di Hall Of Mirrors (l’ottimo album del 1990 che aveva visto il suo sassofono
esporsi ai trattamenti operati in tempo reale da Walter Prati) era forse ancora
possibile considerare il rapporto tra Evan Parker e l’elettronica come poco
più di una curiosità, quasi una nota a piè di pagina
nella lunghissima carriera di questo straordinario musicista, è oggi
evidente che la musica che ne è scaturita ha provato quanto felice
fosse stata l’intuizione del sassofonista: pur beneficiando delle innovative
possibilità – tecniche, timbriche, di organizzazione – largamente offerte
dal mezzo, la musica è sempre rimasta riconoscibile; aperta e nuova,
ma assolutamente non ignara della teleologia; a tratti pulviscolare, ma non
impossibile da godere nella (relativa) quiete di una moderna abitazione; contraddistinta
dal gesto dell’improvvisatore, ma ben in grado di sopravvivere all’ascolto
"cieco" del fruitore di un CD. E se sarebbe ingiusto dimenticare
l’altro album che Parker ha inciso in duo, quel Solar Wind condiviso con Lawrence
Casserley (1997), diremmo senz’altro i quattro titoli pubblicati dalla formazione
denominata Electro-Acoustic Ensemble il miglior esempio di quanto Parker abbia
finora prodotto in quest’ambito.
Bello
e interessante rileggere gli album in sequenza. Toward The Margins (1997)
vedeva il sassofono di Parker affiancato da compagni di vecchia data: i ben
noti Barry Guy al contrabbasso, Paul Lytton alle percussioni e Philipp Wachsmann
al violino e alla viola; ma era il "sound processing" di Walter
Prati e Marco Vecchi – nonché dello stesso Wachsmann – l’elemento che
mutava di molto i termini della questione. L’elettronica del già citato
Lawrence Casserley si aggiungeva al sestetto nel successivo Drawn Inward (1999).
Il grande balzo avveniva con Memory/Vision (2003): registrato (in modo cristallino)
dal vivo a Oslo, il lavoro vedeva all’opera un nonetto dove agli strumenti
citati andavano ad aggiungersi il pianoforte (anche preparato) di Agustí
Fernandez e il computer e il sound processing di Joel Ryan; formazione decisamente
ampia e un uso di registrazioni precedenti producevano un insieme pieno, dal
formidabile impatto sonoro quasi orchestrale. Le note di copertina erano qui
più scarne, ma lo stesso Parker diceva di una "cornice" e
di una "struttura sottesa" al lavoro.
Il nuovo
album vede un ulteriore ampliamento della formazione, ora un ensemble di undici
elementi: se il contrabbassista Adam Linson sostituisce qui Barry Guy (ed
è senz’altro una voce strumentale dotata di minore presenza), i nuovi
arrivati sono Richard Barrett e Paul Obermayer: conosciuti come duo con il
nome di FURT, oltre che singolarmente, sono qui ambedue impegnati ai campionatori;
Parker e Casserley si producono anche alla voce. Senza riflettere troppo,
vedere una formazione di queste dimensioni ha ingenerato in chi scrive l’aspettazione
di un timbro complessivo ancora più grosso e pieno di quello ascoltabile
su buona parte dell’album precedente; ma è vero tutto il contrario.
Registrato
dal vivo a Glasgow nel novembre del 2004, l’album è composto da due
brani distinti registrati in sere (e con modalità) diverse. In apertura,
i diciassette minuti di Shadow Play presentano un organico ristretto: un’improvvisazione
di Parker al soprano è affiancata dai trattamenti e dall’elettronica
dei soli Casserley, Ryan e Prati; il risultato è
definibile senza difficoltà come parkeriano, con gli arpeggi e le cellule
tanto caratteristici del sassofonista; un brano giocato perlopiù su
toni sommessi, da cui l’effetto decisamente drammatico di un aumento di dinamica
a circa 10′. Suddiviso in cinque parti per un totale di circa cinquantacinque
minuti, The Eleventh Hour è un brano decisamente composito, dove ripetuti
ascolti consentono di rinvenire una qualche struttura.
(Tra parentesi: saremmo contenti di poter leggere "Parker ha
fatto provare il suo ensemble per una settimana, mettendo a punto e aggiustando
il suo pezzo, e ogni sera i membri dell’ensemble hanno suonato in differenti
combinazioni ad hoc"? Noi sì. Ma per farlo bisogna andare in Rete,
dove è possibile trovare quelle note di copertina assenti nel libretto. E qui diremmo che, dati i tempi, chi
oggi compra un CD fisico ha diritto, se non a un DVD-V omaggio con il concerto
in questione, almeno a delle note di copertina!)
Lo sviluppo
del brano prevede con tutta evidenza che i singoli possano ritagliarsi degli
spazi "solisti" all’interno dell’ensemble: se la prima traccia sembra
prevedere un ruolo maggiore per Barrett e Obermayer, la seconda mette in evidenza
il violino di Wachsmann e la terza le percussioni di Lytton e il pianoforte
di Fernandez (un momento, quello pianistico, che – unico in tutto il disco
– ci è sembrato protrarsi oltre il necessario); la quarta traccia offre
delle coordinate più spiccatamente parkeriane, e maggiore spazio per
il suo sassofono. Ma sono considerazioni di larga massima, laddove il succedersi
e il sovrapporsi dei timbri, non di rado di natura "misteriosa",
e il continuo variare dei "pesi" strumentali rendono l’ascolto una
continua scoperta. Ottimamente registrato, The Eleventh Hour potrebbe rivelarsi
alla distanza l’album più riuscito tra quelli finora incisi dalla formazione.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2005
CloudsandClocks.net
| Sept. 29, 2005