Sul suicidio
—————-
di Beppe Colli
March 9, 2009
La condizione finanziaria
della gran parte delle etichette indipendenti era drammaticamente precaria
già da prima che la corrente recessione globale rendesse l’orizzonte ancora
più scuro. Tra i molti fattori potenzialmente fatali primeggia lo stato di
salute dei distributori: come già verificatosi più volte anche in un recente
passato, lo stato di insolvenza di un distributore e il conseguente mancato
pagamento di somme dovute, anche di piccola entità, può rivelarsi elemento
destinato a fare la differenza.
Ma fra le tante notizie che giungono con cadenza ormai ravvicinata,
quella che di recente ci ha maggiormente colpito riguarda il deciso ridimensionamento,
licenziamenti compresi, delle attività dell’etichetta statunitense che fa
base in quel di Chicago denominata Touch And Go. E che la notizia avesse
un significato che andava ben oltre il caso singolo è testimoniato dalla
gran quantità di corrispondenze riscontrabili sulla Rete pressoché in tempo
reale. (Il pezzo al quale facciamo qui riferimento, Touch
and Go Records shrinking, cuts ties with independent labels, a firma Greg
Kot, è apparso sul Chicago Tribune in data February 19, 2009.) La Touch and
Go aveva festeggiato il suo quarto di secolo di attività nel 2006. Un catalogo
che conta all’incirca quattrocento titoli, tra i quali album di Big Black,
Jesus Lizard, Butthole Surfers, the Mekons, Slint, Calexico e TV on the Radio.
Tra le molte etichette per le quali la Touch and Go curava manifattura e
distribuzione: Drag City, Atavistic, Kill Rock Stars.
La dichiarazione ufficiale parlava
di "The current state of the economy". Che è però un’espressione
che si presta a molte e diverse interpretazioni. Stante l’ovvia considerazione
che le vendite erano in calo, quale la ragione principale? La domanda può
sembrare strana, ma è ovvio che il senso di vendite in calo può essere
il più diverso: suono non più di moda? aumento dello "scarico gratis"?
E quale il comportamento per fasce di età? E’ infatti possibile ipotizzare,
al di là del fattore "scarico"
quale "elemento naturale" dell’orizzonte di comportamento degli
ascoltatori più giovani, che il fattore "etichetta indipendente"
costituisse per gli ascoltatori meno giovani un "valore aggiunto" di
tipo ideologico tale da minimizzare la loro tentazione di massimizzare l’interesse
immediato ("è lì, e me lo prendo"). Cosa che potrebbe valere anche
per altre etichette, in diversi contesti culturali.
Purtroppo a fronte di tale bruciante
curiosità l’unica cosa che potevamo fare era chiedere. E questo abbiamo
fatto, rivolgendo il quesito a quattro individui molto diversi per età
e attitudini. Il risultato:
1) il primo si è detto convinto
della compresenza dei fattori "fuori moda" e
"crisi da scarico";
2) il secondo ha attribuito importanza
preponderante al fattore "cutting edge": molti ascoltatori si
sarebbero spostati verso etichette dalla musica maggiormente
"ardita";
3) il terzo ha attribuito soverchiante
importanza al fattore "crisi generale":
"e se ha problemi la EMI…";
4) il quarto ha seccamente dichiarato "la
musica registrata è finita".
Se le etichette indipendenti
se la passano male, che dire dei quotidiani? Un altro capitolo noto, e doloroso.
E che la crisi non risparmi nessuno è provato dalle voci tutt’altro che rassicuranti
a proposito del New York Times (che di recente abbiamo scoperto avere un
gran bel blog a più voci sullo scrivere canzoni intitolato Measure for Measure).
Ci atterriva un articolo di Paul Harris apparso su The Observer in data Sunday
11 January 2009. Titolo: America’s most revered newspaper is latest to be
hit by financial woes, dal drammatico occhiello Like so many US papers, the
New York Times is besieged by both the credit crunch and an online media
revolution ("Come moltissimi giornali statunitensi, il New York Times
è assediato dalla stretta del credito e dalla rivoluzione dei media in Rete").
Ma quali i problemi del celebre quotidiano? E’ ovvio che per
la maggior parte li possiamo immaginare: sono i soliti, e non vale la pena
di attardarsi. Ma per il resto?
E qui viene in soccorso un chiarissimo articolo, niente affatto
reticente, apparso… sul New York Times in data February 9, 2009. Titolo:
Resilient Strategy for Times Despite Toll of a Recession, di Richard Pérez-Peña.
C’è tutto: incassi dalla pubblicità tradizionale, dipendenti
e budget, incassi derivanti dal digitale, dividendi, indebitamento, valori
azionari, progetti di dismissione dei 19 piani di uffici che occupa nel nuovo
edificio progettato da Renzo Piano, tutti gli errori (evitabili, difficili
da prevedere, impossibili da prevedere) valutati da analisti indipendenti
(il più grave? quello di ricomprare il proprio pacchetto azionario a prezzi
altissimi tra il 1998 e il 2004); seguono speranze e prospettive concrete
(per quanto difficili, nel presente contesto). Non ci dilunghiamo oltre:
il pezzo è in Rete.
Non sembri strano se affermiamo di conoscere e frequentare
il New York Times molto più di quanto non succeda con l’italiano "quotidiano
di sinistra" (il più venduto dell’area, "il nano più alto")
l’Unità. Ci hanno incuriosito recenti voci su problemi economici che parrebbero
preludere a tagli dolorosi. Qui il nostro pezzo di riferimento è quello apparso
su la Repubblica del 4 marzo a firma Concetto Vecchio con il titolo Sciopero
all’Unità, nuovi soci in arrivo. A fronte di una tiratura in aumento a seguito
di un cambio di direzione la situazione annuale parrebbe essere la seguente: "costo
30 milioni di euro, guadagno 19, 4-5 milioni del finanziamento pubblico;
resta un buco di 7-8 milioni da colmare." Ovvia la cura: diminuzione
delle pagine, tagli all’occupazione, chiusura di redazioni. Non ci è chiaro
– né siamo riusciti a trovare nulla in Rete – se esista (e in cosa consista,
e di che entità, e con quali modalità di finanziamento) un indebitamento
pregresso.
Certo il sito web – che diremmo vivo, completo, discretamente
frequentato, con filmati ed editoriali, filo diretto con i lettori, articoli,
commenti, rubriche, vignette, blog, servizi di moda e previsioni del tempo
– proprio perché ricco non ci pare logicamente preludere a un aumento della
tiratura. E se la pubblicità su carta è da tempo in calo (a prescindere dal
momento contingente) che la pubblicità in Rete non vale nulla è un dato di
fatto ben noto.
Curioso leggere le reazioni sui blog: molti si chiedono, giustamente, "come
faremmo" (in caso di chiusura); qualcuno propone un aumento del prezzo
in edicola (da 1 euro a 1 euro e 20); qualcun altro lancia la proposta di
chiudere il giornale cartaceo lasciando in piedi la sola edizione in Rete,
già tanto bella e completa ("Elementare, Watson!").
Ci capitò, una volta,
di leggere un’intervista a Bob Dylan (e se ben ricordiamo l’intervistatore
era Paul Zollo) nella quale il musicista diceva pressappoco "in giro
ci sono troppe canzoni" e "se nessuno componesse più canzoni ne
avremmo sempre in numero sufficiente". Una posizione per certi versi
curiosa, non fosse che da un bel po’ di tempo ci capita di pensarlo riguardo
ai dischi (termine che qui va inteso nel senso generico di "album").
D’altra parte non è da oggi che molti musicisti che suonano
"musica difficile" ammettono che, sì, i loro sono spesso album
"occasionali", fatti soprattutto per rendere nota la loro esistenza
a manager e promoter e per essere venduti ai concerti quale dignitoso souvenir.
E se non si fanno più concerti?
E’ curioso come molte
questioni complesse e difficili si possano a volte ridurre a termini
"elementari".
Ci troviamo all’edicola di un aeroporto. Mentre diamo un’occhiata
alla stampa estera ci capita di vedere sulla copertina di una rivista l’inconfondibile
lampada pieghevole che fa capolino all’inizio di ogni film della Pixar. Titolo
del pezzo, Creativity at Pixar. La rivista, a noi nota solo per sentito dire,
è la Harvard Business Review. Il numero è quello (allora) corrente (September
2008). Prezzo: 12 euro. Diamo un’occhiata al sommario: a prima vista gli
altri pezzi non ci sembrano di nostro interesse, e qualcosa che potrebbe
esserlo già a un primo esame non ci pare molto soddisfacente. In sintesi,
pagheremmo 12 euro per un solo articolo. L’articolo è in verità discretamente
lungo, si tratta di nove pagine occupate per buona parte da testo. Diamo
un’occhiata all’autore: è Ed Catmull ("Ed Catmull is a cofounder of
Pixar and the president of Pixar and Disney Animation Studios"). L’argomento
del pezzo è chiaramente espresso nell’occhiello:
"Behind Pixar’s string of hit movies, says the studio’s president, is
a peer-driven process for solving problems".
Che fare?
Qui il primo pensiero potrebbe essere: "chissà se lo
trovo gratis in Rete". Oppure: "magari è una schifezza". Oppure:
"12 euro!". E certo bisogna anche vedere quante fregature si sono
prese in passato.
Decidiamo di comprare.
Il pezzo è a dir poco fantastico, una descrizione precisa
e intelligente dei processi decisionali che guidano un’organizzazione complessa
e del modo (autoriflessivo) in cui un’organizzazione può cercare di indirizzare
il proprio procedere, massimizzando la qualità e minimizzando i passi falsi.
Quello che qui vorremmo evidenziare è il seguente quesito:
Esiste un articolo (qualunque sia l’oggetto) per leggere il quale saremmo
disposti a pagare 12 euro?
Perché il punto cruciale è pagare per fare in modo che esista
una rivista su cui possa apparire un articolo come quello. E che possa esistere
un’istituzione in grado di "produrre" questo articolo.
E qui ci viene in mente un detto famoso (diremmo) negli
anni sessanta: "If you don’t stand for something, you’ll fall for anything".
Cioè a dire, "Se non tieni tantissimo a qualcosa, finirai per accontentarti
di qualsiasi cosa."
© Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net | March
9, 2009