New
Niks & Artvark Saxophone Quartet
Busy Busy Busy
(No Can Do)
Lo scorso
sabato, il 26 settembre, l’associazione newyorkese denominata Jazz At Lincoln
Center ha inaugurato la sua stagione autunnale presentando un tributo a
Ornette Coleman sotto forma di un concerto dello stesso musicista (ovviamente
tutto esaurito) tenutosi al Rose Theater. E qui è appena il caso di ricordare
che è stato giusto cinquant’anni fa, nel 1959, che la Atlantic ha pubblicato
The Shape Of Jazz To Come, l’album dell’oggi settantanovenne Coleman comunemente
definito come una sfida all’ortodossia jazz.
Per associazione
di idee, la notizia ci ha riportato alla mente la definizione della musica
di Coleman coniata dal critico statunitense Francis Davis: una
"Permanent Revolution" destinata a non essere mai assorbita dal
mainstream. Il che ci ha ricordato la definizione – non coincidente, ma parallela
– di "Semi-Popular Music" coniata da un altro critico statunitense,
Robert Christgau.
Nel nostro
contesto culturale la nozione di "avanguardia" coincide spesso
con quella di gracile esserino che necessita di amorose cure, il concetto
sottinteso essendo che il "mainstream" è perfettamente in grado
di prendersi cura di sé. E però, curiosamente, pochi notano che sotto la
parola-ombrello "mainstream" convivono (scomodamente) due entità:
il mainstream "di fatto" e quello "per valutazione";
laddove il primo è molto semplicemente una nozione quantitativa coniugata
al presente e il secondo il frutto di una valutazione: "mainstream" è
quello che l’avanguardia ha reso "vecchio". Ma che i due ordini
di cose non coincidano (anche in senso monetario!) è evidente: pensiamo
a quanta musica
"vecchia" è in grado di svuotare rapidamente una sala o rendere
ostile un ascoltatore pienamente calato nel mainstream.
Considerazioni
che sorgono spontanee durante l’ascolto di Busy Busy Busy, album che crediamo
verrà definito "vecchio" da chi sceglie For Alto o Nonaah quale
musica da ascoltare in sottofondo al momento di spolverare la libreria
ma che riteniamo in grado di creare più di un problema di "decifrazione" a
molti individui perfettamente acclimatati nel mainstream.
Busy Busy
Busy è frutto della somma di due quartetti che chi scrive ascolta qui per
la prima volta: New Niks e Artvark Saxophone Quartet. Ecco formazioni e
componenti (presunti: scrivere tutte le indicazioni di copertina in bella
calligrafia manuale non è necessariamente una scelta priva di inconvenienti).
New Niks: Erwin Hoorveg, piano elettrico Fender Rhodes; Andreas Suntrop,
chitarra; Jasper le Clercq, violino; Arend Niks, batteria. Artvark Saxophone
Quartet: Rolf Delfos, soprano e alto; Bart Wirtz, alto; Mete Erker, tenore;
Peter Broekhuizen, baritono. Le foto di copertina mostrano musicisti che
diremmo fra i trenta e i quaranta. Le voci strumentali vanno dal buono
all’ottimo, i retroterra si indovinano ampi. Buon suono, nitido, quindi
parti facili da indagare.
L’album
è decisamente vario (pressoché tutti i musicisti sono qui anche compositori),
e proprio la sua varietà potrebbe essere per alcuni un elemento spiazzante,
anche se i colori scelti per gli arrangiamenti forniscono un elemento unificante
di non secondaria importanza. Fanno la loro comparsa arie ellingtoniane,
strategie minimaliste, fraseggi "Blue Note" degli anni cinquanta
e sessanta, climi che per mancanza di altri punti di riferimento siamo
costretti ad accostare ai Microscopic Septet e così via. Unica vera pecca
per chi scrive, la comparsa qua e là di stilemi fusion, questi sì davvero
vecchi e superati; in un’accezione europea: assolo di violino e di sax
soprano; in un’accezione statunitense: climi sassofonistici da big band
che (e qui possiamo solo sperare che il ricordo di eventi lontani non ci
faccia brutti scherzi) diremmo appropriato accostare a produzioni di Creed
Taylor o di Bob James di metà anni settanta.
Con i suoi
tredici minuti, Rev. Pete, Sad Frank & Jnngle Johnny è l’unico brano
lungo dell’album, di cui presenta in ugual misura pregi e difetti. Apertura
con cadenza sassofonistica e bella performance dal sapore bluesy del baritono.
Dopo circa 2′, quando ci aspetteremmo un’accelerazione in "double
time", fa la sua comparsa un temino dal sapore fortemente ellingtoniano
la cui esecuzione suggerisce clarinetti e trombe sordinate, peraltro assenti.
Seguono buoni assolo di Fender Rhodes e di sax tenore, ritorna l’aria quasi
Dixieland. Sarebbe una chiusa perfetta, ma un’accelerazione introduce un
nuovo tema eseguito da violino e chitarra all’unisono, poi assolo di violino
sostenuto dai fiati e chiusura in stile "big band" con fuochi
d’artificio batteristici.
Popped
Music apre con un pimpante baritono, rimshot e charleston, frase melodica
di violino e fiati, poi una lunga sequenza sassofonistica sui due canali,
con il sax alto effettato con l’eco, con bel sapore rétro. Finale corale
"fusion".
Dextro
apre e chiude con una frase concitata suonata all’unisono da violino e
soprano. Bella parte centrale con lungo assolo di sax tenore sostenuto
dalla batteria suonata (vigorosamente) con le spazzole. Non male la parte
solista di chitarra, che forse per mancanza di approfondita frequentazione
dello stile accosteremmo al vecchio McLaughlin.
Sweet Dreams
è una composizione interessante che assembla con intelligenza materiali
in fondo non nuovi. Apre il Fender in stile "carillon", poi chitarra
e fiati suonano una semplice melodia dal sapore folklorico dalla bella
orchestrazione. Parte centrale con fiati e violino a offrire uno sfondo
arpeggiato, batteria a colorire, assolo di chitarra dal suono riverberato
per un risultato finale non troppo distante da certe atmosfere di Michael
Mantler. Chiude la bella melodia iniziale.
The Grand
Jazz Foma apre con una buffa aria danzereccia in levare, riff di baritono,
poi buon assolo di tenore con batteria swing e piano elettrico in accompagnamento.
Segue una lunga, e decisamente inattesa, sezione cameristica con in evidenza
violino e soprano, poi a chiudere il buffo tema iniziale.
Bo Derek/Tumble
Waltz è la composizione più sfuggente dell’intero album. Apre con un ¾,
violino, chitarra in assolvenza, una cadenza quasi
"greca", poi i sassofoni in un lento contrappunto, quasi un quartetto
d’archi. Un ottimo brano.
A questo
punto l’album presenta due pezzi di breve durata eseguiti dai soli quartetti
componenti. Firmata Ibrahim (che assumiamo essere l’Abdullah Ibrahim conosciuto
anche come Dollar Brand) Whosa Mwatana ha un ottimo baritono, una melodia
folk e un arrangiamento che sottolinea il bel suono complessivo dei quattro
sassofoni. L’insieme non è poi troppo dissimile da certe cose di Lester
Bowie con la Brass Fantasy. Suonata dai soli New Niks, What Will Be si
ascolta con piacere, ma non lascia un’impressione ben definita.
Przwalski
ha un tema piuttosto banale dal sapore fusion/big band e lunghi assolo
di Fender Rhodes, non male, e di soprano.
Digging
Dirt, Nothing New chiude bene l’album. Attacco bluesy un po’ mingusiano,
tenore spalleggiato dai fiati, stacco filmico, bella frase dei fiati all’unisono
e lungo assolo di tenore con il backing dei fiati a farsi progressivamente
più ricco.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net
| Oct. 1, 2009