Randy Newman
Harps And Angels
(Nonesuch)
Non abbiamo
alcuna difficoltà ad ammettere che, a dispetto dei numerosi annunci di
segno contrario, avevamo ormai da tempo abbandonato ogni speranza di poter
ascoltare un nuovo album di Randy Newman (intendiamo ovviamente un nuovo
album contenente materiale inedito). E ciò non per motivi di età (sebbene
sessantacinquenne, Newman sembra godere di buona salute) né di sopravvenuta
mancanza di lucidità artistica (come l’ascolto di questo Harps And Angels
è facilmente in grado di dimostrare). Piuttosto, la dedizione alla difficile
arte della colonna sonora cinematografica "di servizio" (ruolo
al quale diremmo non estraneo il DNA di famiglia – ricordiamo gli zii Alfred,
Emil e Lionel) aveva prodotto un corpus ormai agevolmente in grado di sopravanzare
di molte lunghezze per quantità e onori la produzione "autonoma" di
Newman. E l’ambito riconoscimento dell’Oscar (per la canzone If I Didn’t
Have You, dal film Monster, Inc.), giunto dopo un numero che non è esagerato
definire enorme di nominations, era quasi sembrato il punto di non ritorno
per un artista che aveva già ricevuto molti Grammy, ma mai per quella produzione
(azzardiamo) "rock" per la quale (azzardiamo) il suo nome verrà
ricordato ancora per molto tempo.
Un veloce
sguardo alla cronologia è in grado di dire molto: l’ultimo album di Newman
era stato Bad Love, nel 1999, e prima d’allora
occorreva risalire fino a Land Of Dreams del 1988. La sopraggiunta
fama da Oscar aveva indotto la nuova etichetta dell’artista, la Nonesuch,
a pubblicare nel 2003 The Randy Newman Songbook
(che con un certo spirito beneagurante portava il sottotitolo di Vol. 1),
un buon album che vedeva Newman riproporre in solitudine al pianoforte
pagine scelte del suo repertorio; e se è vero che mancavano sia l’orchestra
che il "gruppo rock", è pur vero che l’album costituiva l’ottimo
sostituto di un concerto dal vivo. (La stessa circostanza aveva propiziato
la pubblicazione di una versione allargata di Randy Newman’s Faust del
1995, di cui si dirà più avanti.)
Bad Love
non è tra i nostri album preferiti, per una serie di ragioni che pure non
sapremmo indicare esaustivamente. Nel ricordo ci appare sempre frammentario,
più di quel Land Of Dreams che pure vedeva all’opera tre produttori (Mark
Knopfler, James Newton Howard e Jeff Lynne) dall’approccio e dai risultati
così difformi (ma forse è la bella sequenza della facciata due che ci porta
a sottovalutare i momenti deboli dell’album). Per chi scrive Bad Love soffriva
anche in ragione di una produzione che diremmo timbricamente poco in sintonia:
se quella di Mitchell Froom appariva una scelta azzeccata, non altrettanto
ci sentiremmo di dire per quanto riguarda i timbri tipicamente iperrealisti
di Tchad Blake.
Pochi
artisti quanto Randy Newman hanno meritato il fin troppo abusato appellativo
di
"musicista di culto", e pochi "artisti di culto" hanno
spinto i critici (si parla ovviamente di un tempo in cui i critici esistevano)
a interrogarsi tanto a fondo sul rapporto intercorrente tra opera e pubblico:
qui basta rimandare alle pagine che Greil Marcus ha dedicato al lavoro di
Newman nelle successive edizioni del volume Mystery Train e ai vari scritti
di Robert Christgau variamente accessibili in Rete.
Gli album chiave sono, com’è ovvio, i classici
Randy Newman
(1968), 12 Songs (1970), Sail Away (1972) e Good Old Boys (1974). Forse
mai nessun album è apparso tanto "fuori epoca" quanto l’esordio
di Newman (e che copertina indovinata, in pieno ’68!), per quel mix di
temi, atteggiamento e orchestra. Con vendite pressoché pari a zero, viene
"aggiustato il tiro" in senso "rock" su 12 Songs, amalgamato
il tutto su Sail Away, tentato l’affresco ambizioso su Good Old Boys.
Detto lestamente del (supposto) cinismo (che fa cardine su una visibilissima
posizione morale), occorre accennare al "narratore inaffidabile" (the "untrustworthy
narrator"), figura di ardua decifrazione che ha costituito il più
grosso ostacolo a un ampio successo di Newman. Detto in breve, quando ascoltiamo
un artista "parlare" diamo tacitamente per scontato che sia lo
stesso artista a parlare, e che quella sia davvero la "sua" voce.
Con Newman questo non è possibile, e anche se
"indossare un personaggio" è pratica che di tanto in tanto si dà
(un esempio discusso dallo stesso Newman è il brano Money For Nothing dei
Dire Straits), qui le prese di posizione sono tanto "sul limite" da
impedire quell’identificazione immediata che è alla base di un successo di
massa. Da cui il fatto che le poche canzoni di Newman che hanno avuto successo
sono quelle "private della cornice" (vedi Marie), o
"semplificate" dall’interprete (e qui l’esempio classico è senz’altro
Sail Away).
"Un grande artista ha bisogno di un grande pubblico":
così Christgau citato da Marcus. Cosa la frase voglia dire è faccenda soggetta
a interpretazione, ma di certo essa non si riferisce al pubblico che decretò
il successo di Short People, il singolo di Newman che giunse al secondo
posto in classifica trascinando nei Top Ten l’album da cui era tratto,
Little Criminals (1977). Newman elaborò una "offesa più ampia" su
Born Again (1979) e Trouble in Paradise (1983) (sia concessa una citazione
per quella
"orchestra di elicotteri" creata da Michael Boddicker su Song For
The Dead, brano conclusivo di Trouble In Paradise). E se nel corso degli
anni ottanta il mensile statunitense Musician diede ampio spazio alle avventure
discografiche di Newman, fu la bella intervista – e storia di copertina –
effettuata da Robert L. Doerschuck per il mensile statunitense Keyboard a
illustrare compiutamente il Newman pianista, dalle preferenze classiche all’amore
per Fats Domino, Ray Charles, e il pianismo di New Orleans.
E siamo
proprio a New Orleans nel brano di apertura, Harps And Angels: è un blues
pianistico con un vago sentore della Functional monkiana, uno slow shuffle
con sassofoni e clarinetti, organo di sottofondo a fare capolino e la voce
"nera" di Newman. Voci femminili angeliche, da gospel, violini,
e una storia morale che vede anche un (fortunato) errore avvenuto "nelle
alte sfere".
Losing
You è una ballad triste e old-fashioned, con archi, voce in primo piano,
quasi un tema da film, forse un po’ fuori posto.
Laugh
And Be Happy dà inizio a una sequenza memorabile. Ed è l’invito a ridere
nonostante le avversità rivolto agli immigrati (chi ricorda Roll With The
Punches?). Un Charleston/Dixieland con ottoni, archi, tromboni, clarinetti,
percussioni, un po’ di tip-tap, rullante con cordiera.
Forse
il pezzo più ambizioso dell’album, A Few Words In Defense Of Our Country
era già apparso su iTunes in una versione più asciutta. Qui è un country-waltz
con pianoforte, steel, ritmica, orchestra "soft", chitarra con
plettro morbido, che non può non rimandare a Sail Away.
A Piece
Of The Pie è appropriatamente patriottica, con timpani, voci marziali,
ottoni e flauti. Impossibile non citare le "French Fries", Jackson
Browne, Johnny Cougar e la General Motors. (C’è forse un riferimento a
Mrs. Robinson di Paul Simon?)
Easy
Street è un pigro shuffle con piano, chitarra, batteria suonata con le
spazzole, clarinetti, ottoni in contrappunto, contrabbasso e voci. Un
"racconto morale"?
Abbiamo
un problema, e forse la risposta sono i Korean Parents. Quindi appropriata
aria
"orientale" (che per un momento ci ha rimandato a Tokyo Rose di
Van Dyke Parks), koto, bacchette, corde, violino, e un tempo di cha-cha-cha…
Perfetta aria, vera come un jingle.
Un jazz
bluesato per Only A Girl, con clarinetti "anni 20", giocoso,
che non si prende troppo sul serio, un buon ponte.
Torna
lo shuffle per Potholes, e gli scherzi che ci fa la memoria quando ci fa
ricordare quel che non vorremmo. Ottimi clarinetti e ottoni, bel contrappunto
al doloroso aneddoto.
L’album
è perfettamente registrato e missato (da David Boucher), arrangiato (da
Randy Newman), suonato (orchestra, cori, e Randy Newman, Greg Cohen, Steve
Donnelly, Pete Thomas, Greg Leisz, Mitchell Froom) e prodotto (da Mitchell
Froom e Lenny Waronker – quest’ultimo aveva prodotto o co-prodotto tutti
gli album di Newman fino al 1983).
Newman
aveva impiegato molto tempo e forze per realizzare una versione personale
del Faust di Goethe, e Randy Newman’s Faust (di cui Newman asseriva esistere
una versione-prova già registrata già nel 1983) era poi stato pubblicato
nel 1995. Grossi nomi, un tentativo di trasposizione teatrale, soldi e
tanta fatica per nulla, per tutta una serie di motivi ben illustrati nel
libretto della versione ampliata del 2003. Nelle intenzioni di Newman Feels
Like Home, cantata sull’album da Bonnie Raitt, aveva una valenza ironica,
ma già la versione teatrale l’aveva tramutata in un duetto mano nella mano.
Melodia orecchiabile, andamento regolare, il brano conta già un buon numero
di interpretazioni e ha una chiara fama in virtù del suo essere stato incluso
nella colonna sonora del serial Dawson’s Creek (dove dovrebbe essere interpretato
da Chantal Kreviazuk). Qui chiude il CD in una versione lieve e ariosa,
con piano e voce in evidenza.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2008
CloudsandClocks.net | Aug. 17, 2008