Joe
Moe
Mainland
(Puluphonic Records)
Scorrendo
una delle liste che tanto gentilmente si incaricano di tenerci al corrente
su quanto c’è di nuovo in campo "indipendente & di qualità" ci
salta agli occhi un album (titolo: Mainland) di tale Joe Moe (nome che
sulla copertina di un album di Frank Zappa avremmo senz’altro detto inventato).
La breve presentazione dice in termini lusinghieri di un album di canzoni,
tira in ballo quale termine di paragone Van Dyke Parks (che qui appare
in due brani), e rivela che la produzione e l’arrangiamento sono opera
di Brian Woodbury (musicista da noi stimato) insieme a Marc Doten e a Michael
Webster sotto la bizzarra sigla di Cheez Masheen. Decidiamo di abboccare.
Frattanto
ci viene in mente dove abbiamo già incontrato Joe Moe: su un album di Brian
Woodbury, il pregevole The Brian Woodbury Songbook. Qui Joe Moe interpreta
(bene, con una voce che tanto per dare un’idea diremmo simile a quella
di Ike Willis "senza le sopracciglia") un brano intitolato My
Africa. Così lo presentano le note di copertina: "Artista Hawaiano
di terza generazione, Joe Moe scrive soggetti cinematografici, canzoni,
e progetta case abitate da fantasmi. Pubblica It’s Alive, una rivista trimestrale
che parla di mostri".
La copertina
di Mainland rivela immediatamente la natura composita del lavoro: accanto
a qualche brano nuovo di cui Joe Moe è a volte coautore troviamo infatti
numerose cover; di alcune possediamo le versioni originali (Aria di Woodbury,
Car On The Hill di Joni Mitchell, Cowboy di Parks), di altre le ricordiamo
(The Married Men delle Roches) o crediamo di ricordarle (Talkin’ In Your
Sleep – era Crystal Gayle?). Scorrendo i nomi dei partecipanti scorgiamo
qualche nome noto (non sorprendentemente, è il giro di Woodbury) e una
strumentazione cui non fa certo difetto la varietà. L’album ha un buon
suono, non stancante o ipercompresso, con uno sfondo (vocale e strumentale)
nitido e un primo piano vocale cui debbono aver contribuito dei buoni microfoni.
Il lavoro è molto vario, cosa che potrebbe forse costituire un ostacolo
per chi ama ritrovarsi all’interno di una cornice fortemente unitaria.
Un confronto
diretto con gli originali da noi posseduti ci dice che qui si è inteso
leggere la canzone come "composizione": Aria (The Birds Don’t
Owe), Car On The Hill e Cowboy (tratti rispettivamente da All White People
Look Alike di Woodbury, Court And Spark della Mitchell e Tokyo Rose di
Parks) sono quasi perfettamente sovrapponibili agli originali (Car On The
Hill riproduce perfino gli accenti sui piatti della parte batteristica
di John Guerin; come altrove sull’album, buon lavoro di Joe Berardi). Mentre
per gli altri brani ci siamo trovati a operare d’intuito.
Pregi e
difetti sono ugualmente distribuiti sulle due facciate. Aria (The Birds
Don’t Owe) ci restituisce intatta l’atmosfera solenne del brano di Woodbury
e ha una bella performance da parte di Joe Moe. Car On The Hill funziona,
anche per merito di due voci femminili aggiunte (che ben figurano anche
altrove). The Green Shade di Elma Mayer ci riporta a quelle tipiche atmosfere
da
"cartoon operistico". Firmata Michael Webster, Lotus Festival è
scanzonata. Cowboy non fa rimpiangere l’originale. Quasi un doo-wop bilingue,
Dark And Wrinkled (con seconda voce di Dylan Hostetter, musica di Webster
e testo di Arthur Rimbaud) non ci ha convinto.
The Married
Man di Margaret A. Roche è un bel calypso con agile fisarmonica dell’ospite
Van Dyke Parks. Ravine è una suggestiva ballad ben servita dalla voce di
Joe Moe, che l’ha composta insieme a Marc Doten. Scritta da Roger Cooke
e Bobby Wood, Talkin’ In Your Sleep, con voce aggiunta di Rob Shapiro,
ci riporta alla classica "radio FM statunitense ascoltata in auto
nei secondi anni settanta", e in tal senso funziona. Mosque Of Bones,
di Webster, Moe e Doten, è davvero un brano fuori posto: tra la power ballad
e il "melodic metal" (esisterà davvero?), con Nivek Ogre alla
voce aggiunta, e un accelerato batteristico (frutto di una click-track?);
a differenza di Dark And Wrinkled diremo che il brano a suo modo funziona,
ma cosa ci faccia qui è un vero mistero. Ku’u Home O Kahalu’u di Jerry
Santos (confessiamo la nostra più completa ignoranza in proposito), con
belle chitarre acustiche, si fa ascoltare volentieri. Scritta da Doten
e Moe, la breve An Earth Song, per solo voce e pianoforte, ha uno sviluppo
melodico interessante e una bella interpretazione vocale e si incarica
di chiudere (bene) un lavoro forse troppo composito ma che merita senz’altro
di essere indagato.
Beppe
Colli
©
Beppe Colli 2009
CloudsandClocks.net
| May 10, 2009