The Microscopic Septet
Been Up So Long It Looks Like Down To Me: The Micros Play The
Blues
(Cuneiform)
Leggere
dell’imminente pubblicazione di un nuovo lavoro del Microscopic Septet ha
suscitato in noi sentimenti di gioia e curiosità. Ma dobbiamo ammettere che la
nostra prima curiosità era rivolta a un aspetto che potremmo definire
"extra-musicale": era forse il "blues" evocato dal
sottotitolo dell’album la reazione dei musicisti all’elezione di Donald Trump,
nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America?
Ora
sappiamo che così non è, le registrazioni essendo state effettuate nel corso di
due giorni – due soli giorni: il 24 e il 25 – dello scorso mese di maggio.
Ovviamente
restano intatti tutti gli altri motivi di curiosità. Sarebbe stato l’album
all’altezza delle (nostre) aspettative? Quale il suo posto nella carriera di
questa brillante formazione? E quale il riposizionamento delle coordinate
stilistiche reso necessario da un intendimento programmatico tanto
esplicitamente dichiarato?
A ben
vedere, il blues è sempre stato parte della musica del gruppo. Ma
"blues" non è un’etichetta dal senso univoco. Proviamo a viaggiare
indietro nel tempo: vedremo che nel 1967 sia John Mayall che Captain Beefheart
sono artisti "blues".
Come i
due album che l’hanno preceduto, anche questo è frutto di una campagna di
"finanziamento diffuso" effettuata tramite Kickstarter. Cambia lo
studio, non più l’ottimo Systems Two di Brooklyn, ma il Tedesco Studios
(un’occhiata in Rete ci rassicura immediatamente sui suoi standard qualitativi).
Prezioso elemento di continuità è l’ottimo tecnico Jon Rosenberg, che anche
stavolta ha curato registrazione, missaggio e masterizzazione.
Una
menzione ai soliti Michiko Rehearsal Studios ci dice che come di consueto le
sedute d’incisione sono state precedute da prove millimetriche. Un lavoro di
preparazione che è solo logico, se riflettiamo sul fatto che uno dei due leader
risiede a qualche migliaio di chilometri di distanza dagli altri componenti e
che fortune commerciali non propriamente sfavillanti rendono l’affiatamento del
gruppo qualcosa da ricreare ogni volta.
L’album è
stato pubblicato negli Stati Uniti circa un mese fa, con la distribuzione
europea a seguire un paio di settimane più tardi.
Come
consentito da un calendario liberamente fissato, ci siamo presi tutto il tempo
necessario a chiarirci le idee, e qui dobbiamo avvertire il lettore che il
nostro giudizio sarà necessariamente articolato.
Come
largamente prevedibile, la "nuova dimensione" blues non si distacca
in modo significativo dalla precedente produzione del gruppo, chiunque essendo
in grado di riconoscere formazione, solista e autore dopo pochi istanti. Qua e
là c’è uno "snellimento" del procedere, i fiati sono spesso in
sezione, e il lavoro dei solisti appare forse più del consueto incorniciato nella
dimensione "solista più ritmi" maggiormente solita a quello che
chiamiamo "jazz". Del resto si dirà al momento di esaminare i singoli
pezzi.
Ci siamo
chiesti – prima di ricevere l’album – se l’idea di "tematizzare" il
lavoro derivasse dalla necessità – in un mercato moderno – di dare un
"gancio" bell’e pronto a recensori e pubblico. Se Friday the
Thirteenth era "The Micros Play Monk", Manhattan Moonrise cos’era?
(Sono interrogativi che i critici del mondo delle beaux arts non hanno alcun
motivo di porsi, ma noi viviamo in una dimensione più terra terra.)
Ma dopo
averlo ricevuto ci siamo chiesti se una dimensione più "snella e
agevole" non fosse una scelta obbligata a fronte di mezzi finanziari
esigui, che avrebbero con tutta probabilità reso velleitario ogni tentativo di
creare "a freddo" quel perfetto meccanismo a incastri sincronizzati
che è condizione necessaria perché le intricate composizioni del gruppo possano
funzionare al meglio.
Chi
scrive avrebbe preferito un titolo meno impegnativo, forse qualcosa di sbarazzino
come Thirteen Easy Pieces. E’ infatti nostro convincimento che per la più parte
degli ascoltatori "Play The Blues" racchiuda una serie di significati
riduttiva rispetto a quanto l’album in questione ha da offrire, ma tant’è.
Ricordiamo
i nomi dei musicisti impegnati: Phillip Johnston, Don Davis, Mike Hashim e Dave
Sewelson rispettivamente a sax soprano, alto, tenore e baritono, con Joel
Forrester al pianoforte, Dave Hofstra al contrabbasso e Richard Dworkin alla
batteria. Come d’abitudine, e con un’unica eccezione, Johnston e Forrester sono
gli autori di tutte le composizioni.
(Non
sappiamo se alla Cuneiform o nel gruppo ci sia qualche superstizioso. Se i due
album precedenti contenevano dodici pezzi ciascuno, qui le composizioni sono
tredici. Ma in realtà sono quattordici, con la quattordicesima – una
"tag" di una decina di secondi estrapolata da uno dei brani
precedenti – a sorprenderci quando credevamo ormai giunto il silenzio mentre
andavamo in direzione del nostro riproduttore CD. Il lettore è avvertito.)
L’album
gode di una bella registrazione, perfettamente funzionale alla musica. Il CD
monkiano aveva un suono sfavillante che questo non ha, e lì la batteria godeva
di una dimensione "tamburosa" timbricamente strepitosa qui assente.
Ma qui è il compito della ritmica a essere diverso, con il charleston/hi-hat e
un piatto sul canale destro e un "ride" sul canale sinistro a
scandire il tempo. Ottimo il rimshot, e tutti i tamburi – e la cassa – nei
passaggi "quando serve". A condurre lo swing è qui il contrabbasso,
dal suono presente e pulito, cosa che consente di tenere lo strumento a volume
(piacevolmente) alto. Diremmo con un tocco di "gonfiore" in meno
rispetto all’album precedente. Complimenti al tecnico, e – ovviamente – al
contrabbassista.
Anche se
non abbiamo usato un cronometro, diremmo che su quest’album il tenore suona di
più che in precedenza. Resta perfetta la presenza del baritono, prodigo di note
ma mai prolisso. Buono come sempre il sax alto. Impeccabile il pianoforte.
Con
nostra massima sorpresa, il sax soprano di Phillip Johnston ha suscitato in noi
una serie di dubbi non vista da tempo immemore. Detto in modo sbrigativo, è
come se Johnston suonasse uno strumento che non è il suo e sul quale si trova
poco. Ci è persino venuto in mente che lo strumento potesse essere stato rubato
durante l’intervallo del pranzo, ipotesi che potrà far sorridere solo chi non
vive in un ridente habitat dove lo scomparire degli strumenti incautamente
lasciati in auto è dolorosa routine. Se parliamo di qualità delle idee,
eleganza del fraseggio, originalità dei percorsi melodici, versatilità
stilistica, Johnston è ancora quello strumentista che abbiamo tanto amato. Ma
negli assolo – e sarà un caso, ma pressoché tutti i brani in cui va in assolo
sono collocati alla fine dell’album – Johnston sembra cercare di domare
qualcosa di riottoso e dal comportamento pressoché imprevedibile.
Sarà
vero? E’ la nostra idea del microtonale tanto rozza da non saper cogliere una
"dissonanza controllata"? Dovremo ripassare Ayler, Coleman e
Mitchell? O forse questo è il modo in cui la natura ci suggerisce che è giunto
il momento di appendere le orecchie al chiodo?
Cat Toys,
di Johnston, abita quella dimensione "noir" cara all’autore.
Ensemble, groove, temino, bello sfondo di fiati, pianoforte. Bell’assolo di
tenore. Curiosamente, a 1′ 38" ca., spunta dallo sfondo un sassofono (il
soprano?) in veste di "suggeritore" di un passaggio obbligato. Tema,
transizione, ed ecco spuntare un assolo dal piglio autorevole del contrabbasso.
Tema, piano, chiusura.
Blues
Cubistico, di Johnston, apre con una frase "sfasata" dei fiati, forse
in una simulazione di quella "distorsione ottica" alla quale fa
riferimento il titolo. Una veloce transizione soprano, alto, tenore, baritono
ci conduce a un assolo del baritono. Start-stop degli altri fiati, ritmica
pimpante. Sul finale torna il tema dal fraseggio "sfasato".
Dark
Blue, di Forrester, vede aprire il contrabbasso, con piano e batteria giocata
sull’hi-hat. Temino per piano, tema per fiati all’unisono. Bell’assolo di
tenore sugli accordi, transizione, ed ecco un solo di baritono. Scelta
raffinata, un bel momento per soprano e alto a procedere in parallelo.
Ritornano i temi – pianoforte, fiati – segue un arpeggio di fiati in
accelerando, con sostegno del rullante. Tema, e nota bassa più piatto a
chiudere.
Don’t
Mind If I Do, di Johnston, apre con un tema spigliato per soprano, poi in
unisono con il pianoforte, un aspetto che rimanda ai loro concerti in duo.
Altri fiati, assolo di sax tenore e di alto, poi un momento "cubano"
di batteria percussiva con fiati cadenzati, tema.
Migraine
Blues (for Wendlyn Alter), di Forrester, parte come un blues
"bandistico"-monkiano, con rullante e soprano. Assolo di sax tenore
in veste "shouter", poi assolo di baritono. L’emicrania di cui al
titolo è impersonata dal baritono sempre più distorto ad agire come
"disturbo" rispetto all’aria "bandistica" degli altri
fiati, che cercano di procedere imperturbabili. Chiusura per piano e basso.
PJ In The
60s, di Forrester, apre con un tenore a metà strada tra Anthony Braxton e
Roscoe Mitchell con frenetico accompagnamento "free" di tamburi.
Sorpresa, il brano vira in direzione "swing" con contrabbasso e
hi-hat, segue una bella miscela di sax tenore e alto. Fa seguito un bell’interscambio
tra soprano e baritono su canali opposti, bell’assolo di batteria – molto bello
qui il timbro della cassa – che si alterna al piano. Tema.
When It’s
Getting Dark, di Johnston, rimanda a certe colonne sonore degli anni sessanta,
quasi una Peter Gunn accelerata, con riff serrati, incalzanti, e ottima
batteria. Qui il soprano e il resto dei fiati giocano a fare "call and
response". Assolo di alto, tenore e baritono. Tema. Chiude un lungo decay
del piatto.
Simple-Minded
Blues, di Forrester, apre con i fiati in arpeggio e a note singole. Arpeggio di
piano e contrabbasso, rimshot, poi un tema "sonnambulistico" di
sapore monkiano. Assolo di pianoforte che echeggia Monk, assolo di sax tenore,
assolo di contrabbasso. Torna il tema "sonnambulistico" con rullante,
si chiude su una nota acuta del soprano.
After
You, Joel, di Forrester, è un breve brano spigliato e giocoso. Soprano, i fiati
a incastro, poi un assolo di piano e ritmi. Assolo di soprano con sfondo di
fiati, assolo di batteria e contrabbasso, transizione per sax alto, tema.
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Birds, di Johnston, ha un che di chiaroscuro alla ‘Round About Midnight. Tema
per soprano con note acute del piano all’unisono. Assolo di soprano più ritmi,
e qualcosa che ci ricorda un’aria "Dixieland" rallentata.
Quizzical,
di Johnston, è un "brano Bop". Tema, e un bel contrappunto pimpante
dei fiati a dialogare con il soprano. Assolo di pianoforte e ritmi, lungo
assolo di soprano, tema.
Silent
Night appare qui in una versione "bluesy" firmata Forrester. Apre una
lunga introduzione di piano, tema per ensemble, lungo assolo di soprano, poi
parti soliste per alto, tenore e baritono. Piano, e si torna al tema.
I’ve Got
A Right To Cry, firmata Joe Liggins, è l’unica cover dell’album. Uno scanzonato
motivo che dovrebbe risalire agli anni quaranta – noi lo conosciamo nella
versione fattane nel 1963 da Mose Allison sull’album intitolato Mose Allison
Sings – la cui melodia viene qui eseguita dall’ensemble a mo’ di sigla, con il
contributo vocale di Sewelson. Assolo di sax tenore, ensemble, chiusa.
Del
misterioso e non accreditato brano #14 s’è già detto.
Con
l’augurio di poter vedere e ascoltare The Microscopic Septet al suo
scoppiettante meglio su qualche palco europeo.
Beppe Colli
© Beppe Colli 2017
CloudsandClocks.net | Mar. 12, 2017