Nellie McKay
Pretty Little Head
(Hungry Mouse)
Quando,
più o meno due anni or sono, ci siamo (non troppo casualmente) imbattuti
in Nellie McKay (e innanzitutto nel suo colorito personaggio, che però
non va mai visto disgiunto dal suo incredibile talento) abbiamo provato
quel sottile e piacevole senso di meraviglia che è giocoforza provare ogniqualvolta
ci si trova dinnanzi a una "entità ignota" – un’espressione con
la quale non intendiamo qui designare "un nome nuovo" ma qualcosa
come "e questa, da dove diavolo salta fuori?". Ricordiamo la
copertina del supplemento Culture del Sunday Times: capelli biondo platino,
lungo vestito rosso, la ragazza (di diciannove anni o giù di lì, si diceva)
sembrava provenire da una commedia musicale hollywoodiana degli anni quaranta.
Al di là del facile slogan pubblicitario ("un incrocio tra Doris Day
ed Eminem"), il tutto avrebbe potuto benissimo rivelarsi una trovata
di (sicuro) dubbio gusto e di (probabile) corto respiro, anche se biografia
e interviste sembravano far intravedere un carattere tosto, una gavetta
non comune, una forte attenzione (consapevole in misura innegabilmente
adulta) per il significato culturale delle forme musicali e per il modo
in cui i musicisti
"si mostrano" e – dulcis in fundo – un netto rifiuto di quella
dimensione "teen sex" che è stata una delle forme musicali (?)
mediaticamente dominanti dello scorso decennio.
Ed era
il suo talento (di cantante sicura e versatile, di agile polistrumentista
e di matura autrice di musica e testi) che consentiva all’album di esordio,
Get Away From Me, di non collassare sotto il peso di ambizioni che doti
inferiori avrebbero reso ridicolo: come immaginare una (curatissima) miscela
di jazz anni quaranta, Broadway, rap, bossa nova e via dicendo? Ricche
le narrative, stimolante l’uso del cantare "in carattere" (una
caratteristica che l’avvicinava al Randy Newman più caustico), chiarissima
la prospettiva
"socio-politica". (Un amico decisamente percettivo ci aveva segnalato
l’"attrito" esistente tra la storia di alcuni generi musicali presenti
sull’album e il "messaggio" che essi si trovavano qui a veicolare.)
Abbiamo fin qui taciuto la presenza dell’inventivo collaboratore dei Beatles
Geoff Emerick, impegnato da par suo alla produzione e alla parte tecnica.
Assimilato
l’album (la cui bellezza e il cui spessore non sono stati minimamente scalfiti
dal tempo trascorso dalla sua pubblicazione) la nostra curiosità si rivolgeva
al futuro della McKay: sarebbe riuscita a crescere? avrebbe avuto un adeguato
riscontro commerciale? sarebbero arrivati gli immancabili funzionari discografici
a proporre gli immancabili compromessi? Già Get Away From Me aveva visto
l’etichetta rifiutare la partizione dell’ora di durata in due distinti
CD, e la versione pubblicata aveva quindi visto la McKay contribuire di
tasca propria. Non restava che attendere, incrociando le dita.
Avevamo
già prenotato una copia del nuovo lavoro – e già erano apparse le primissime
recensioni Made In USA – quando ecco giungere il tanto temuto annuncio:
uscita annullata, e contratto sciolto. Cominciava ovviamente la successione
dei
"si dice". Quel che è chiaro è che – messa di fronte a una replica
del primo album: un’ora e due CD – l’etichetta aveva preparato una versione
"singola" con sedici pezzi a fronte dei ventitre originali. E proprio
questa era la versione recensita dai giornali – e immediatamente finita in
Rete. La fine della storia è ormai nota: la McKay pubblica l’album nella
veste a lei più cara, nasce una nuova etichetta indipendente.
Ascoltando
Pretty Little Head nell’edizione voluta dall’artista è facile capire in
che cosa essa differisca da quella approntata dalla sua ex casa discografica:
l’autoritratto fatto dalla McKay contiene anche una serie di "vignette
sonore" (presenti quasi tutte sul secondo CD) che se si ragiona in
termini strettamente commerciali possono apparire bizzarre e destinate
a rallentare l’assimilazione dell’album. Da parte nostra diremo che alcuni
dei brani in questione (per esempio, Food) non entreranno di certo nella
nostra lista dei preferiti, ma che altri (Lali Est Paresseux, Pounce) posseggono
un’innegabile grazia, e altri ancora (Swept Away, Old Enough) sembrano
aprire per la musicista nuove finestre narrative. (Che per questo motivo
una casa discografica possa sciogliere un contratto è cosa che ci resta
a ogni modo misteriosa.) E adesso è venuto il momento di fare qualche passo
indietro.
Assieme
all’album di esordio erano arrivati Geoff Emerick, archi e fiati, settantadue
piste in analogico, arrangiamenti ricchi, voce beatlesianamente compressa
e un budget adeguato. Non sappiamo se sia vera la circostanza che vuole
Get Away From Me attestato sulle 140.000 copie vendute. Certo è che la
differenza di impostazione tra i due album è drastica. Già coproduttrice
del primo album, di cui aveva anche curato gli arrangiamenti, la McKay
produce e arrangia Pretty Little Head in uno studio più piccolo: il newyorkese
Lofish Productions, che immaginiamo basato su piattaforma digitale ma che
appare dotato di un vero pianoforte e di una sala adeguata a riprendere
in diretta un piccolo gruppo. Sconosciuti per noi i musicisti, con l’eccezione
del batterista Ray Marchica (già apprezzato collaboratore di Ed Palermo
in un recente omaggio zappiano) e di due cantanti "ospiti speciali" di
cui si dirà tra poco.
La McKay
ha privilegiato un approccio che diremmo senz’altro rispecchiare le sue
esibizioni "live", con tastiere in bella evidenza, ritmiche non
di rado trascinanti e stratificazione spesso appannaggio delle voci. Rimane
ovviamente immutato quel polistilismo che tanto aveva caratterizzato l’album
precedente, con l’eccezione dell’elemento rap, presente solo in Mama & Me
(e qui non riusciamo a capire cosa abbia spinto più di un collega statunitense
verso un atteggiamento di sufficienza nei confronti di questo brano). Abbiamo
trovato fresco e comunicativo l’approccio produttivo scelto dall’artista
per Pretty Little Head; diremmo inoltre che da un punto di vista vocale
la McKay di studio sfodera una sicurezza nuova.
L’apertura
è affidata alla musicalmente scanzonata Cupcake, seguita dalla molto
"colonna sonora anni sessanta" (è davvero un sitar?) Pink Chandelier.
There You Are In Me è un classico brano sospeso e multitematico dalla presenza
vocale ora delicata ora massiccia. Yodel funge da lieve ponte. The Big One
(che ci ha riportato alla mente – chissà perché – What’s Going On) possiede
un forte andamento ritmico e un inciso efficacissimo. La malinconica G.E.S.
è seguita dalla Sixties-lounge I Will Be There, con agile quasi-Hammond e
ritornello delicato. Il "racconto morale" di The Down Low è uno
di quei brani che è impossibile togliersi dalla testa, con inciso leggero
dal tamburello cadenzato. Gli anni quaranta ritornano con Long And Lazy River,
dalle batteria suonata con le spazzole. Segue il violoncello della triste
e sommessa I Am Nothing. La bella chiusa di Swept Away è preceduta da Beecharmer,
un esilarante duetto con Cyndi Lauper (!) che ricorda non poco Girls Just
Wanna Have Fun, il suo celeberrimo hit degli anni ottanta; bello sentire
l’esuberante interscambio che intercorre tra le due musiciste in un brano
che diremmo potenzialmente d’alta classifica.
Se il
primo CD presenta una sequenza praticamente perfetta, il secondo risulta
senz’altro meno della somma delle sue parti in ragione di un eccesso di
varietà. Il che non vuol certo dire che manchino i momenti brillanti. Apre
la trascinante Real Life, con un bel solo di piano della McKay. Tipperary
convince pur in presenza della consapevolezza di non riuscire a cogliere
qualche riferimento storico/musicale davvero importante, impressione che
resta anche per la successiva – e davvero bella – Gladd. Food è un momento
scherzoso che probabilmente non sopporterà molte ripetizioni. We Had It
Right è l’altro duetto, questa volta con k.d. lang: è un misto di ballata
c&w, reggae e canto gregoriano. La tesa Columbia Is Bleeding è senz’altro
una delle vette dell’album – tutta da ammirare la bravura della cantante
nel tratteggiare i molti personaggi dell’intricata narrazione, a mo’ di
sinistro cartoon. Lali Est Paresseux porta una nota di (pur malinconica)
lievità, come pure Happy Flower. Chiusa con la malinconico-rap Mama & Me,
la breve e scherzosa Pounce e la bella Old Enough.
Viste
le recensioni tutto sommato in chiave minore (negli USA, ché già l’Italia
aveva risposto alla non pubblicazione del CD precedente con un corrispondente
silenzio – ma non dicevano che si andavano a cercare tutte le possibili
stranezze fino al Polo?) sarebbe facile a questo punto chiudere la recensione
ricordando l’approssimarsi delle Feste di fine anno e la conseguente necessità
di regalare qualcosa di bello a chi ci è caro. Più seriamente, si diceva
di recente con un amico dell’aspetto paradossale di quest’album: così pieno
di musica che all’ascolto è "semplice" ma che all’atto pratico
si rivela poi alquanto
"difficile" da apprezzare.
Beppe
Colli
© Beppe
Colli 2006
CloudsandClocks.net | Nov.
28, 2006